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Francia in fiamme, De Masi a TPI: “La rivoluzione? Può attendere”

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

“Per rovesciare il potere non basta che una massa di persone sia svantaggiata, serve consapevolezza e organizzazione. L’Italia? Prima o poi le proteste potrebbero arrivare anche qui. Ma nel nostro Paese non c’è un partito radicale che rappresenti le classi meno abbienti”

Le proteste che hanno infiammato recentemente gran parte della Francia hanno un’origine lontana, che parte dalla caduta del muro di Berlino. Le rivolte pur essendo state innescate da un fattore scatenante, come nel caso di Nahel, il 17enne ucciso a un posto di blocco da un poliziotto a Nanterre lo scorso 28 giugno, nascono tuttavia da una cattiva e sbagliata distribuzione non solo della ricchezza, ma anche del sapere e del potere. È questa l’analisi proposta dal sociologo Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del lavoro all’Università La Sapienza di Roma, dove è stato Preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione che, in un’intervista a TPI, non solo analizza quanto accaduto Oltralpe, ma propone anche delle importanti riflessioni sugli effetti che le proteste francesi potrebbero avere in Europa e in particolare sull’Italia. De Masi inoltre spiega anche quali siano i meccanismi che portano le rivolte a trasformarsi talvolta in vere e proprie rivoluzioni, cogliendo nelle proteste francesi anche un elemento di novità nell’interpretazione che la destra dà alle sommosse stesse.

In Francia ciclicamente scoppiano delle rivolte nelle periferie delle città. È accaduto alla fine degli anni Settanta a Lione, nel 2005 nelle banlieue di Parigi, e nuovamente nei giorni scorsi in diverse zone del Paese. Aldilà dei fattori scatenanti, quali sono le motivazioni sociali che alimentano queste proteste?

«Mi limiterei a una frase che mi disse il presidente della Cecoslovacchia, Václav Havel (primo Presidente della Repubblica Ceca dal 1993 al 2003; ndr), subito dopo la caduta del Muro di Berlino. Facemmo un dibattito radiofonico e lui concluse con una frase molto significativa. Disse: “Con la caduta del muro di Berlino il comunismo ha perso, ma il capitalismo non ha vinto”. E poi aggiunse: “Questo perché il comunismo sapeva in qualche modo distribuire la ricchezza, invece il capitalismo sa produrre la ricchezza ma non la sa distribuire”. Probabilmente la madre di tutte le rivolte è la cattiva distribuzione che di solito non è solo della ricchezza».

E quali sono, dottor De Masi, secondo lei, gli altri fattori che determinano lo scatenarsi di questi movimenti rivoltosi?

«Alla cattiva distribuzione della ricchezza, per cui ci sono i ricchissimi e i poverissimi, si accompagna la cattiva distribuzione, per prima cosa del sapere, per cui alcuni sono laureati e altri no, per secondo, del potere, per cui alcuni possono decidere cose di grande portata e altri non possono decidere nulla, terza cosa delle opportunità, perché alcuni hanno opportunità enormi e altri no. Infine, la non distribuzione di garanzie e di lavoro, perché alcuni hanno un lavoro ottimo e altri hanno un lavoro pessimo o non lavorano affatto».

Il motivo scatenante delle rivolte francesi, quindi, a suo avviso è da ricercarsi nella cattiva redistribuzione della ricchezza. Ma queste motivazioni possono essere sufficienti per far sì che si arrivi a delle vere e proprie rivoluzioni sociali?

«Diciamo che un primo elemento sottostante alle rivolte è sempre la cattiva distribuzione di tutto questo. Siamo davanti a fenomeni che, a mio avviso, vanno in gran parte ricondotti a inique distribuzioni del sapere, della ricchezza, delle opportunità e delle tutele. Poi alcune volte le rivolte sono talmente corpose e radicate che diventano rivoluzioni. Per esempio in Francia sono diventate rivoluzioni nel 1789, 1839, 1848, 1861, la popolazione francese di rivoluzioni ne ha fatte diverse».

Anche nel caso della recentissima rivolta delle banlieue la protesta può trasformarsi in rivoluzione?

«Una rivolta si trasforma in rivoluzione quando si rovescia il potere dominante. La rivolta diventa rivoluzione quando diventa realmente minacciosa per il potere in carica. Allo stato attuale le proteste, pur essendo contro Macron, non puntano a sovvertire l’ordine democratico, almeno per ora non ci sono state queste avvisaglie».

Quali sono gli elementi che contraddistinguono una rivoluzione rispetto a una rivolta?

«Una rivoluzione richiede una serie di fattori. Non basta il fatto che una massa di persone sia svantaggiata. Occorre che ne sia consapevole, che si organizzi per combattere contro l’altra classe».

Le proteste sono il fallimento della politica di immigrazione, di integrazione e multiculturale dei governi francesi? Ed entrando nello specifico, si può affermare che una politica indifferente alla condizioni delle classi sociali più svantaggiate può portare a rivolte estreme di questa fascia di popolazione?

«Noi abbiamo due nette distinzioni nell’approccio a quello che sta succedendo in Francia, che per comodità potrei chiamare da un punto di vista di destra e da un punto di vista di sinistra. Secondo l’interpretazione della sinistra, le cause delle sommosse vanno ricollegate alle seguenti cose: allo stato fatiscente delle banlieue, con case e scuole di scarsa qualità, alla condizione di povertà, all’abbandono scolastico, alla ghettizzazione, all’avviamento precoce dei minorenni alla delinquenza, alle discriminazioni, all’indifferenza dell’opinione pubblica. Questa parte, in sintesi, dà la colpa alla società e allo Stato, fermo restando che vi sono responsabilità individuali di chi brucia auto o commette crimini. La novità, secondo me, è nell’interpretazione di destra».

Ovvero?

«Per la prima volta in Italia, ad esempio, siamo di fronte a delle interpretazioni di destra, secondo cui la colpa non è dello Stato ma di chi protesta. Questo è in perfetta coerenza con quanto diceva Margaret Thatcher (ex primo ministro ultra conservatore del Regno Unito; ndr) che affermava: “Non esiste la società, esistono solo gli individui”. Questa interpretazione di destra è molto interessante perché è nuova, almeno in Italia. Perlomeno è la prima volta che emerge così forte. Secondo il giornalista Roberto Arditti, quando succedono queste cose, la sinistra ha sempre sensi di colpa per cui tende a dare la responsabilità alla società e alla Storia».

E invece, secondo l’interpretazione dell’ideologia di destra, di chi è la responsabilità?

«Lo Stato invece di pentirsi deve diventare uno Stato più forte, non deve dimostrarsi né imbelle né tremebondo. Deve schierarsi totalmente da parte della polizia. Questo in Francia sta già avvenendo perché è stata fatta una sottoscrizione a favore del ragazzo ucciso da un poliziotto e una a favore proprio dell’agente, che ha raccolto molti più soldi».

Le rivolte francesi possono diventare delle vere e proprie sollevazioni europee?

«In Svizzera e in Belgio ci sono già state le prime proteste a seguito di quelle francesi. Società e Stato si vanno americanizzando sempre di più. In Europa, quindi, ci sono ormai le rivolte delle periferie tipiche dei sobborghi americani, come quella di Harlem, tanto per fare un esempio. Rispetto ad altre situazioni precedenti, il ministro degli Interni francese (Gérald Darmanin; ndr) ha difeso la condizione sociale delle periferie affermando che a Nanterre esistono scuole che funzionano bene, biblioteche, luoghi di incontro ben organizzati, affermando che la rivolta è inspiegabile. Non è ovviamente quello che dicono i rivoltosi, i quali sostengono che tutto questo non è sufficiente. D’altra parte le fotografie che abbiamo visto in questi giorni sui giornali danno più ragione ai rivoltosi che non al ministro».

Secondo lei anche in Italia potrebbero verificarsi delle proteste simili a quelle che abbiamo visto di recente in Francia?

«Prima di tutto sarebbe interessante capire che fine fanno gli immigrati che arrivano in Italia. In questi giorni la Rai, che ormai è totalmente asservita alla destra, non dice la verità, ovvero che ogni giorno sbarcano in Italia più di duemila persone e che la maggioranza di queste sono minorenni. Non sappiamo che fine gli fanno fare, come li spostano, dove li portano, che tipo di rapporto c’è con la politica e con la polizia. Il fatto stesso che non si sa sappia nulla, significa che c’è qualcosa da nascondere. Qualcosa l’Italia non sta facendo e se non lo sta facendo, prima o poi avverrà in Italia quello che è già avvenuto in Francia».

Anche nel nostro Paese le opinioni politiche sono diametralmente opposte e divergenti, secondo le diverse posizioni di destra e di sinistra o centrosinistra in materia di immigrazione.

«Sì, è evidente. Secondo la destra si è fatto di tutto per salvare i salvabili nel Mediterraneo, per accoglierli e integrarli. Più di quello che si è fatto non si può fare. Secondo la sinistra, invece, l’Italia ha fatto pochissimo o non tutto quello che avrebbe dovuto. Ha fatto pochissimo per creare dei corridoi umanitari nel nostro Paese. Ha fatto pochissimo per ridurre i danni che l’Occidente fa continuamente in Africa o negli altri luoghi dove ha scatenato delle guerre».

Le rivolte in Francia stanno rafforzando il Rassemblement National, il partito di Marine Le Pen. Queste proteste possono favorire l’avanzata dell’estrema destra in tutta Europa?

«Dipende dalla forza di tali proteste e dipende anche dai partiti di sinistra. Se si schiera totalmente con i rivoltosi, la destra ha più difficoltà nel far passare la sua idea. L’idea della destra è che l’Europa ha fatto tutto quello che doveva fare. Siccome questo non è assolutamente vero, dipende dai partiti di opposizione, dai giornali di opposizione, dimostrare se è vero quello che dicono le destre o quello che dicono le sinistre, se la colpa è dello Stato o dei singoli rivoltosi. Se lo Stato mette in galera 700 rivoltosi sta dicendo sostanzialmente che la colpa è dei rivoltosi».

Lei ha posto più volte l’attenzione sulla disoccupazione che attanaglia il nostro Paese e il divario sempre più ampio tra ricchi e poveri. Anche queste disuguaglianze potrebbero essere un fattore scatenante per il verificarsi di eventuali rivolte in Italia?

«Ci sono delle persone svantaggiate, questo è evidente. Queste persone, che di per sé sarebbero una classe sociale svantaggiata, hanno la compattezza, la forza, la coscienza, la volontà di fare una rivolta o addirittura una rivoluzione? Questo non dipende solo dallo stato di svantaggio, dipende anche da se e in quale misura queste persone sono consapevoli che lo svantaggio non è colpa di Dio, della natura, della provenienza etnica ma è colpa del sistema sociale. Anche se ci fossero intenzioni di fare rivolte, non è detto che queste persone si sappiano organizzare. Come ho detto in precedenza, non basta il fatto che una massa di persone sia svantaggiata».

Quale altro elemento potrebbe portare ad una vera e propria rivoluzione o comunque a una rivolta sociale e politica che miri ad un cambiamento radicale dello Stato sociale?

«Occorre che ne sia consapevole, che si organizzi per combattere contro l’altra classe. Che abbia delle avanguardie e dei leader ben capaci. Come è stato con Lula in Brasile che è riuscito a essere tre volte presidente della Repubblica e che è riuscito l’ultima volta, democraticamente e dopo essere stato messo in carcere, a scacciare un dittatore vero e proprio come era Bolsonaro».

In Italia, quindi, a suo avviso c’è un problema di rappresentanza: nessuno è in grado di dare voce a una classe sociale svantaggiata?

«Non basta avere un grande numero di sfruttati, occorrono altre cose. Prima di tutto che gli sfruttati siano consapevoli del perché sono sfruttati, e di chi li sfrutta. Per sapere questo di solito occorre un partito che li guidi. E in Italia un partito che faccia da guida alla radicalità non c’è».

Neanche un’eventuale alleanza tra le maggiori forze del campo progressista, ovvero Partito Democratico e Movimento 5 Stelle, potrebbe dare voce a coloro che al momento non ne hanno?

«No, perché non c’è un grande partito che punta sulla radicalità. Ci sono corpuscoli, ad esempio il gruppo di De Magistris, i gruppi a sinistra del Movimento 5 Stelle e del Partito Democratico, ma sono una minoranza. Anche Sinistra Italiana/Verdi non è radicale. Non c’è bisogno che si alleino il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle. Il primo è più capace di convincere la classe media, ed è più votato ai Parioli che al Tiburtino, l’altro invece è più capace di dialogare con il sottoproletariato. E poi c’è questo terzo gruppo più radicale».

Quindi lei ritiene che, anche di fronte al pericolo di rivolte sociali delle classi svantaggiate, le tre anime del campo cosiddetto progressista non debbano fare fronte comune contro gli avversari della destra che, invece, almeno per ora, marciano uniti?

«Le tre sinistre è bene che restino ognuna nel suo campo senza togliere voti agli altri come sta succedendo a Partito Democratico e Movimento 5 Stelle che si tolgono voti a vicenda, ma poi la somma resta sempre quella. Poi al momento delle elezioni si potrebbero unire proprio come hanno fatto le tre destre».

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