Armi, gas, diritti umani: il prezzo dell’indulgenza della Francia verso l’Egitto di al-Sisi
I profondi rapporti tra Francia ed Egitto si fondano su precisi interessi strategici nel Mediterraneo e in Africa in barba al rispetto dei diritti umani
Cosa c’è dietro l’indulgenza della Francia verso l’Egitto di al-Sisi
La “partnership strategica” tra Francia ed Egitto supera le preoccupazioni internazionali sul mancato rispetto dei diritti umani da parte del Cairo, fondandosi su precisi interessi strategici, un iceberg di cui forse riusciamo a intravedere soltanto la punta. Dal golpe militare con cui nel 2013 è salito al potere Abdel Fatah al-Sisi, l’agenda dei due governi converge infatti su una serie di punti chiave – dalla lotta al terrorismo, al contrasto all’espansionismo della Turchia nel Mediterraneo e in Africa, a una visione simile del conflitto in Libia fino alla cooperazione commerciale in campo militare e non solo – con un unico obiettivo dichiarato: la “stabilità”.
Non a caso questo concetto è stato ripetuto più volte durante l’ultima conferenza stampa congiunta tenuta il 7 dicembre a Parigi tra il presidente francese Emmanuel Macron e il dittatore, a cui è stata conferita anche la Legion d’Onore, proprio nei giorni in cui la procura di Roma rendeva noto il fascicolo che prova il coinvolgimento di quattro agenti dei servizi segreti egiziani nell’uccisione di Giulio Regeni.
La coincidenza non sembra imbarazzare la leadership d’Oltralpe e non scalfisce di certo i legami bilaterali. Per ammissione dello stesso presidente francese infatti, la “questione dei diritti umani”, evocata da Macron con al-Sisi “come si fa tra amici, in confidenza e franchezza”, non condiziona affatto la “cooperazione economica e in materia di difesa”, nonostante le decine di migliaia di prigionieri politici detenuti nelle carceri del regime egiziano, accusato da Human Rights Watch di aver persino arrestato e torturato minori.
L’indulgenza dimostrata sul tema da Parigi non si limita di certo soltanto al Cairo. A fine novembre lo stesso leader francese appoggiò apertamente il governo del presidente algerino Abdelmadjid Tebboune nonostante la repressione del movimento Hirak e l’arresto di vari giornalisti e attivisti, apparendo ben lontana dall’essere “in prima linea a difesa dei diritti umani”, come sbandierato dall’ambasciatore francese a Roma, Christian Masset.
L’ottimo livello dei rapporti franco-egiziani è testimoniato inoltre dal diverso trattamento riservato almeno ufficialmente da Macron ad altri capi di Stato in Africa, come l’ivoriano Alassane Ouattara e il guineano Alpha Condé, quest’ultimo in particolare accusato di aver “organizzato un referendum e una riforma della Costituzione solo per poter mantenere il potere”.
Stando alle (mancate) dichiarazioni del presidente francese, si potrebbe pensare che il referendum tenuto lo scorso anno in Egitto con il medesimo scopo e vinto da al-Sisi con l’88 per cento dei voti abbia avuto finalità diverse, ma non finisce qui. Lo iato tra il linguaggio della diplomazia d’Oltralpe e la realtà risulta evidente anche dal differente atteggiamento tenuto da Parigi riguardo il golpe militare avvenuto in Mali ad agosto rispetto a quello che sette anni fa portò al potere il generale egiziano: se al primo dovrebbero seguire “al più presto” le elezioni, il secondo sembra giustificato dal ristabilimento dell’ordine, dalla lotta al radicalismo dei Fratelli Musulmani e dal ritorno a una fantomatica stabilità.
A differenza delle nazioni del Sahel e di altri attori in Africa, la speciale relazione franco-egiziana si fonda su un rapporto di maggiore interdipendenza e su un diverso equilibrio di potere: il Cairo rappresenta un partner commerciale e strategico insostituibile per Parigi, in primis per ragioni geografiche.
Francia-Egitto, il prezzo dell’indifferenza: gas, uranio, acqua e armi
La “partnership strategica” tra Francia ed Egitto, che supera persino le considerazioni umanitarie più elementari, va necessariamente inserita nel contesto del Mediterraneo, del Medio Oriente e dell’Africa, che coinvolge anche Grecia, Cipro, Turchia e le potenze del Golfo. Proprio l’ambizione francese di giocare un ruolo determinante nelle dispute in corso tra gli attori regionali contribuisce a spiegare il livello raggiunto dai legami tra Parigi e il Cairo.
In un discorso pronunciato a fine agosto al Forum del Medio Oriente Mediterraneo di Lugano, lo stesso Macron ha illustrato i termini della questione, citando quattro fattori di instabilità che da anni affliggono il Mare Nostrum. In questa occasione, il presidente francese ha inserito le differenze religiose, i problemi demografici, le questioni energetiche e le crisi politiche in un contesto geografico che va dal conflitto in Siria a quello in Libia, dalle dispute sui giacimenti marittimi di idrocarburi nel Mediterraneo orientale, all’infinito processo di pace in Medio Oriente, al fallimento di Stati come il Libano, alle pressioni migratorie verso l’Europa provenienti da Africa e Asia.
In questo quadro, aggravato dal progressivo ritiro degli Stati Uniti, dalla mancanza di una visione comune dell’Europa e dal riemergere di potenze come Russia e Turchia, la Francia si presenta come un baluardo della stabilità, dietro cui si celano ingenti interessi, non solo economici. Il regime d’Egitto appare così il suo interlocutore ideale, impegnato com’è a contrastare il fondamentalismo dei Fratelli Musulmani e a combattere il terrorismo propugnato dal sedicente Stato Islamico per evitare il crollo delle istituzioni e alla guida della più grande potenza demografica del mondo arabo, che occupa una posizione strategica sia dal punto vista energetico che commerciale e in grado di dialogare con tutti gli attori della regione, compreso Israele e i palestinesi.
Insieme ad altri Paesi come gli Emirati Arabi Uniti, per l’Eliseo l’Egitto costituisce un alleato e un argine alle ambizioni di Ankara sia nel Mare Nostrum che in Africa, dove la Francia mantiene una fortissima presenza militare ed economica e in quindici anni la Turchia ha aperto altre 30 rappresentanze diplomatiche, di cui 26 inaugurate soltanto tra il 2010 e il 2016, portando l’interscambio commerciale pre-Covid fino a oltre 24 miliardi di dollari l’anno.
La strategia turca volta a superare le limitazioni imposte cent’anni fa dal Trattato di Losanna e a proiettare la propria potenza verso il golfo di Guinea e il Mar Rosso, recuperando un ruolo egemone nel Mediterraneo, si scontra infatti con gli obiettivi del Cairo, che aspira a un maggior peso, anche economico, nel Mare Nostrum.
In questa luce vanno letti i profondi rapporti tra Francia ed Egitto, “sfidate” da Ankara in diversi contesti tradizionalmente importanti sia per Parigi che per il Cairo: primo fra tutti quello del Mediterraneo orientale. La decisione della Turchia di esplorare possibili giacimenti di idrocarburi in acque ritenute all’interno della Zona economica esclusiva di Grecia e Cipro mette infatti a rischio gli interessi che questi Paesi condividono con Israele ed Egitto nell’esportazione di gas naturale verso l’Europa.
All’inizio dell’anno, Tel Aviv, Atene e Nicosia hanno firmato una serie di accordi intergovernativi per la costruzione del gasdotto East Med, che collegherà i giacimenti al largo del Mediterraneo orientale ai tre Paesi. La Commissione europea ha definito l’opera un “Progetto di interesse comune”, contribuendo con 34,5 milioni di euro al completamento degli studi di fattibilità tecnica. Il gasdotto, con una capacità compresa tra i 9 e i 12 miliardi di metri cubi all’anno e un costo stimato in 5,8 miliardi di euro, dovrebbe trasportare il gas estratto al largo delle coste cipriote e israeliane verso l’Ue, riducendo al contempo la dipendenza del continente dal gas russo e da quello algerino, anche con l’aiuto dell’Egitto, che intende diventare sempre più un hub energetico regionale.
Attualmente, il ruolo del Cairo riguarda la lavorazione e la liquefazione del gas estratto dai due giacimenti israeliani di Leviathan e Tamar allo scopo di esportare queste risorse via nave, in attesa dell’entrata in funzione dei nuovi gasdotti. Proprio quest’anno, Israele ha cominciato a rifornire di gas naturale l’Egitto, che dal 2014 ha inoltre concluso vari contratti di esplorazione e sfruttamento delle risorse di idrocarburi del Paese con un totale di 82 diversi investitori, per un investimento minimo di circa 16 miliardi di dollari e la trivellazione di almeno 340 giacimenti. Nel Paese, la francese Total impiega 233 dipendenti, gestisce una rete di 230 stazioni di servizio ed è attiva nell’esplorazione, nell’estrazione, nella raffinazione e nella commercializzazione di idrocarburi e prodotti petrolchimici.
Questi interessi energetici, che hanno favorito la militarizzazione della crisi nel Mediterraneo orientale, con i nuovi investimenti degli Stati Uniti nella base navale di Suda, a Creta, e l’invio di navi da guerra francesi a Mari, sulla costa meridionale dell’isola di Cipro, costituiscono uno dei motori dello scontro nella regione.
In questo contesto, anche l’intervento turco in Libia, che ha fruttato ad Ankara un prezioso accordo sui confini marittimi e il suo ingresso nel gioco dello sfruttamento dei depositi di idrocarburi al largo del Paese africano, dove secondo lo US Geological Survey potrebbero nascondersi milioni di barili di petrolio e migliaia di miliardi di metri cubi di gas naturale per un valore di centinaia di miliardi di dollari, è considerato funzionale alla penetrazione della Turchia in Nord Africa.
La convergenza di interessi tra Parigi e il Cairo riguardo la Libia, la prima interessata alle risorse energetiche del Paese e al suo ruolo nel contesto dell’instabilità nel Sahel e la seconda impegnata ad assicurarsi un confine sicuro e un peso nella politica del vicino, ha favorito la collaborazione franco-egiziana e l’appoggio a vario titolo al generale Khalifa Haftar, la cui narrativa antiterrorismo ne ha fatto un alleato naturale per entrambe le capitali, contro il Governo di Accordo Nazionale di Tripoli, sostenuto da Ankara.
L’espansionismo turco è così arrivato a toccare un’altra regione considerata da sempre all’interno dell’area di influenza dell’Eliseo, intorno a cui Parigi mantiene infatti una cintura di sicurezza composta da una serie di strutture militari di stanza in Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad, sostenute dalle basi permanenti in Senegal, Costa d’Avorio e Gabon. Con alcuni di questi Paesi inoltre, aderenti alla Comunità degli Stati del Sahel e del Sahara (CEN-SAD), nel 2016 l’Egitto ha firmato lo “accordo di Sharm El-Sheikh” per la cooperazione militare e antiterrorismo, che autorizza le forze egiziane a partecipare alla protezione dei confini con Libia e Sudan, nonché a condividere informazioni di intelligence per contrastare gruppi come Boko Haram, al-Qaeda e l’Isis.
In quest’area, Ankara ha ampliato la propria presenza economica e commerciale, importando miliardi di metri cubi di GNL dall’Algeria, diventata il quarto maggior fornitore di gas della Turchia e dove l’ex potenza coloniale francese resta il maggior esportatore dopo la Cina, ed esportando e investendo nel Paese diversi miliardi di dollari. Non solo: a luglio Ankara ha firmato vari accordi di cooperazione economica e in materia di difesa con il Niger, uno Stato chiave all’interno della regione del Sahel per gli interessi energetici e militari di Parigi. L’intesa permette alla Turchia di esplorare nuove risorse minerarie nel Paese africano, da dove proviene quasi il 30 per cento dell’uranio usato nelle centrali nucleari francesi. In più, l’accordo con Niamey prevede anche la formazione dei militari nigerini, seguendo il modello già adottato in Libia e Somalia, dove la Turchia coniuga la propria presenza militare con l’addestramento delle forze locali.
Proprio dal Corno d’Africa, dove nel 2017 Ankara inaugurò una base militare a Mogadiscio, la Turchia è sbarcata per la prima volta “armi e bagagli” nel continente, inserendosi in un contesto delicato e fondamentale soprattutto per l’Egitto. Penetrando dalle coste somale sempre più verso l’interno del continente, si incontra il primo Paese africano per investimenti turchi, proprio quell’Etiopia con cui il Cairo discute da anni sulla Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD), la mega-diga costruita dall’italiana Salini sul Nilo e che mette in pericolo la gestione delle risorse idriche egiziane e sudanesi, tanto da spingere l’Egitto a valutare un avvicinamento all’autoproclamata repubblica del Somaliland.
La regione è inoltre teatro da anni di una “guerra degli approdi” che coinvolge i principali attori della crisi in corso da più di tre anni nel Golfo: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar, le prime due tra le migliori alleate di Parigi e del Cairo in Medio Oriente e nel Mediterraneo e l’ultima imprescindibile finanziatrice di Ankara. La gestione dei maggiori porti dell’area, al cui apice si apre il canale di Suez, il cui raddoppio è stato inaugurato nel 2015 da al-Sisi alla presenza dell’allora presidente francese Francois Hollande, restituirebbe ai Paesi coinvolti il controllo di una delle principali vie marittime al mondo, lo stretto di Bab el-Mandeb, che collega il mar Rosso all’Oceano indiano e al mar Arabico.
Secondo il dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, nel 2018, ultimo anno per cui sono disponibili i dati, 6,2 milioni di barili di petrolio greggio e condensati sono passati ogni giorno da questo stretto nelle due direzioni, la maggior parte dirette in Europa, Stati Uniti e Asia attraverso il canale di Suez o l’oleodotto egiziano Sumed, capace di pompare fino a 2,5 milioni di bpd dal mar Rosso al Mediterraneo. Attraverso queste due strategiche infrastrutture egiziane sono passati circa il 9 per cento del petrolio totale scambiato via mare nel mondo nel 2017 e quasi l’8 per cento degli scambi globali di gas naturale liquefatto nel 2016.
Proprio per monitorare meglio la regione e la vicina Libia, il Cairo è in trattative da cinque anni per l’acquisto di un satellite spia dalla Francia, dopo la prima sonda per telecomunicazioni Tiba 1 fornita all’Egitto da Thales Alenia Space e Airbus Defence & Space, lanciata nel novembre scorso con un razzo vettore Ariane 5. Non a caso, il presidente egiziano si è recato a Parigi con il capo dell’intelligence, Abbas Kamel.
L’importanza strategica dell’Egitto nell’area è tale che, dopo Israele, il Cairo vi possiede ancora una solida supremazia militare, alimentata negli anni dall’aumento delle spese per la difesa nonostante la disastrosa situazione sociale nazionale.
La “punta dell’iceberg” della partnership strategica franco-egiziana
Il regime al potere al Cairo non ha mai frenato gli investimenti militari pur potendo contare sul più potente esercito arabo, forte dell’equivalente di 17 divisioni composte da circa 310 mila effettivi, di cui 200 mila coscritti, e quasi 375 mila riservisti; sulla decima forza aerea più numerosa al mondo, con 584 caccia da combattimento e 75 elicotteri d’attacco e sulla settima Marina militare più potente del pianeta, con 7 sottomarini, un cacciatorpediniere, 9 fregate, 7 corvette e 2 navi d’assalto anfibie.
In una nazione dove oltre il 27 per cento degli abitanti vive sotto la soglia di povertà, in risposta alle proteste per l’incremento dei prezzi ortofrutticoli, nel novembre di due anni fa al-Sisi intervenne al Forum Mondiale della Gioventù organizzato a Sharm al-Sheikh, mettendo polemicamente la popolazione davanti a un bivio: “costruire un Paese con uno Stato degno”, puntando sulle forze armate e la sicurezza, o “mangiare patate”, alimento base insieme al pane della maggior parte degli egiziani.
Giustificati dalla necessità di sostenere il regime egiziano nella lotta all’Isis nel Sinai e nel contrasto al jihadismo in Nord Africa, negli ultimi anni proprio gli affari riguardanti gli armamenti sono stati al centro dei rapporti tra Parigi e il Cairo. Secondo un recente rapporto del Parlamento francese, le esportazioni in Egitto di armi prodotte Oltralpe hanno superato persino quelle degli Stati Uniti nel periodo 2013-2017. Soltanto in quest’ultimo anno, la Francia consegnò al Cairo più di 1,4 miliardi di euro di attrezzature militari e di sicurezza, comprese navi da guerra, aerei da combattimento, veicoli blindati e tecnologie per la sorveglianza e il controllo della folla, in spregio alla brutale repressione del regime contro attivisti, oppositori e membri della società civile. Dal 2015, il Paese africano ha concluso quasi 20 miliardi di euro di contratti militari con Parigi, in particolare per l’acquisto di caccia Rafale, fregate, radar, missili e droni.
Non si tratta semplicemente di vendere armi, il sostegno d’Oltralpe al regime repressivo egiziano è anche di natura economica e non sembra destinato a interrompersi. La Francia rappresenta infatti il sesto investitore mondiale in Egitto, dove le aziende d’Oltralpe non sono soltanto impegnate nell’estrazione del gas naturale negli importanti giacimenti al largo del Mediterraneo ma anche nella realizzazione di progetti infrastrutturali, immobiliari, urbanistici e commerciali.
Negli ultimi cinque anni, l’interscambio tra i due Paesi è aumentato significativamente insieme agli investimenti, arrivati a un valore di 5 miliardi di dollari e a coinvolgere ben 160 aziende francesi. Inoltre, soltanto nel 2019, Macron e al-Sisi hanno firmato una quarantina tra accordi commerciali, protocolli di cooperazione e contratti di investimento con l’obiettivo di aumentare di altri 2 miliardi di dollari gli scambi commerciali.
Secondo il deputato egiziano Abdelrahim Ali, nel corso dell’ultimo colloquio tra i rispettivi presidenti, i due governi hanno confermato la volontà di accelerare i lavori per una serie di progetti strategici come la New El Alamein, la grande zona industriale intorno al Canale di Suez e varie iniziative urbanistiche, compresa quella per la nuova capitale amministrativa egiziana. L’Eliseo intende inoltre promuovere lo sbarco di importanti attività nel campo dell’industria automobilistica in Egitto e la creazione di impianti di lavorazione dei prodotti agroalimentari, oltre a finanziare diversi progetti nel campo dell’istruzione e dello sviluppo ferroviario. Tutto questo, secondo il deputato egiziano, è “solo la punta dell’iceberg” dell’intesa tra Parigi e il Cairo.
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