La fine della diplomazia: ecco perché dall’Ucraina al Medio Oriente prevale la legge del più forte
Corsa al riarmo, terrorismo, tecnologie intelligenti e minacce ibride. Il disordine globale ha stravolto i rapporti internazionali. Alimentando vecchie e nuove guerre
Sono tanti i fattori cui si può imputare il progressivo deterioramento della sicurezza globale cui si sta assistendo da diversi anni a questa parte. C’è senza dubbio la crisi di un equilibrio mondiale che sembra essere ancora in via di definizione da dopo il crollo del muro di Berlino, ci sono fattori globali come l’aumento del terrorismo internazionale, la crisi migratoria e quella climatica, la pandemia di Covid e altri elementi che hanno contribuito a deteriorare ulteriormente la solidità di molti Stati in contesti particolarmente complessi.
Ma non si può non considerare un altro elemento, in parte conseguenza di una sicurezza globale sempre più debole e in parte suo artefice, ovvero il progressivo indebolimento dello strumento della diplomazia, ormai messa sempre più spesso in secondo piano rispetto ad altre opzioni.
Se in un passato non eccessivamente remoto, durante la crisi dei missili cubani, Stati Uniti e Unione Sovietica sono passati nel giro di pochi giorni dallo sfiorare la guerra atomica a costituire un equilibrio duraturo, è stato grazie alla diplomazia. Se Yitzhak Rabin e Yasser Arafat si sono seduti al tavolo e hanno dato una svolta (purtroppo non decisiva) ai rapporti tra Israele e Palestina accordandosi sulla soluzione dei “due popoli, due Stati” è stato sempre grazie alla diplomazia. Ma se oggi vediamo in numerosi angoli del mondo Paesi che cercano di risolvere questioni di vario genere ricorrendo all’uso delle armi è anche perché non ritengono la diplomazia uno strumento utile da percorrere. E se la diplomazia non funziona e l’equilibrio mondiale non regge, i Paesi, per tutelarsi, si sentono più sicuri facendo ricorso alla legge del più forte.
Difficile stabilire con precisione la ragione per cui lo strumento diplomatico funzioni quantomeno in maniera meno efficace rispetto al passato, ma le radici sono verosimilmente da trovare nell’elemento forse alla base dell’attuale disordine mondiale: con il crollo del bipolarismo tra Nato e Patto di Varsavia che ha caratterizzato il periodo della Guerra Fredda non si è formato un nuovo ordine definito, e in questo contesto sono nate nuove minacce alla sicurezza globale e molte organizzazioni internazionali, Onu in primis, non hanno più ricoperto il ruolo che avevano in precedenza e non sono sempre state all’altezza delle nuove sfide che hanno dovuto affrontare, mentre in sempre più occasioni i Paesi hanno scelto strade diverse che non hanno coinvolto queste organizzazioni.
La “dottrina” Bush
Con il crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno iniziato a esercitare il ruolo di unica potenza rimasta, per quanto come abbiamo visto nel tempo sempre più Paesi hanno coltivato l’ambizione di esercitare un ruolo negli scacchieri regionali e in quello globale, così come si va sempre più delineando una rivalità globale tra Stati Uniti e Cina, con la Russia che non sembra voler abbandonare un ruolo di primo piano. In questo nuovo mondo che cerca di ridisegnare nuovi equilibri hanno però preso piede nuove minacce ibride, a partire dal terrorismo internazionale, qualcosa drammaticamente divenuto protagonista dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. E qualcosa che lascia alla diplomazia un ruolo spinoso: i gruppi terroristi sono, per definizione, realtà con cui qualsiasi trattativa può trasformarsi in un’arma a doppio taglio oltre che in qualcosa di molto spinoso.
Ma l’obiettivo degli Stati Uniti di fronte a queste minacce ibride e al drammatico attentato subito non fu semplicemente una guerra per mettere fuori gioco la specifica minaccia – al-Qaeda – che li aveva colpiti, né risolvere una specifica crisi: prese così piede la cosiddetta “dottrina Bush” che non solo dette inizio alla “guerra al terrorismo”, ma si pose l’obiettivo di esportare la democrazia in Paesi che questa forma di governo non l’avevano mai conosciuta.
E senza un lavoro politico e diplomatico efficace, così come senza un piano B qualora le cose non dovessero andare per il verso giusto, questo può essere un problema. Così, oggi, a oltre vent’anni dalle guerre in Afghanistan e in Iraq vediamo come a Kabul siano tornati i talebani mentre la debole democrazia irachena è esposta all’instabilità della regione e si è trovata a divenire terra fertile per la nascita dell’Isis. Se militarmente, tra il 2001 e il 2003, gli Stati Uniti hanno vinto senza appello in Afghanistan e Iraq, tutto il lavoro politico e diplomatico dei 20 anni successivi è risultato un insuccesso. E forse ha contribuito a mettere al margine il ruolo delle organizzazioni internazionali, sempre meno coinvolte in molti processi di pace.
Il vaso di Pandora a Kiev
Il vaso di Pandora che una volta aperto ha messo la diplomazia in una posizione difficilissima è arrivato il 24 febbraio 2022 con l’invasione russa dell’Ucraina su larga scala. Mosca ha iniziato una guerra senza un preciso casus belli, con obiettivi molto generici, alcuni dei quali possono però essere supposti. Uno di questi in realtà è stato pressoché palesato con l’annessione unilaterale di quattro oblast ucraini, che vanno ad aggiungersi all’annessione della Crimea del 2014: in entrambi i casi, modifiche territoriali non riconosciute dalla comunità internazionale.
Anche questa è una delle ragioni per cui non esistono vie d’uscita semplici dal conflitto in Ucraina, nonostante a quasi due anni dall’inizio della guerra la situazione sul campo sembra essere in stallo. E infatti, la soluzione che si leva più o meno timidamente da alcune parti è che vengano riconosciute alla Russia le sue conquiste territoriali in cambio della possibilità per Kiev di scegliere un futuro al fianco della Nato. Un piano che, al netto della necessaria accettazione da parte dei due contendenti, potrebbe fermare la guerra? Forse, ma creerebbe un precedente che di conflitti rischierebbe di aprirne altri ancora.
Se dovesse essere riconosciuto il principio secondo cui le guerre di conquista sono accettabili, rischieremmo di trovarci di fronte a un “liberi tutti” globale che potrebbe portare numerosi Paesi a risolvere i propri litigi territoriali non con la diplomazia e con il dialogo, non con la ricerca di una mediazione, ma per le vie militari.
La scommessa di Maduro
Proprio in questi giorni, lo scorso 3 dicembre, i cittadini del Venezuela sono stati chiamati a esprimersi su una serie di quesiti il cui unico filo conduttore era la volontà di riprendere il controllo della Guayana Esequiba, un territorio che fa parte della Guyana e che Caracas rivendica da oltre un secolo.
Non sappiamo se si tratti di una mossa propagandistica del presidente Maduro o di una mossa preparatoria in vista di un’azione militare, ma in ogni caso c’è da porsi una domanda: come mai in oltre un secolo di rivendicazione, il Venezuela sta alzando la tensione sull’argomento proprio oggi? La ragione può essere individuata proprio nel generale degrado della sicurezza globale cui stiamo assistendo, nella contestuale crisi della diplomazia, che da anni non riesce a porre le basi per una stabilità complessiva e dal 24 febbraio 2022 si trova a fronteggiare un ulteriore conflitto in cui trovare una soluzione che sia nel quadro del diritto internazionale e metta allo stesso tempo tutti d’accordo, sembra un’impresa particolarmente ardua.
Non c’è da stupirsi se dall’inizio della guerra in Ucraina abbiamo assistito alla destabilizzazione di molti Paesi africani, al più grave attacco mai compiuto da Hamas contro Israele che ha portato così a una nuova guerra a Gaza, al decisivo attacco dell’Azerbaigian contro la repubblica autoproclamata armena dell’Artsakh, che vari gruppi armati in Medio Oriente proseguano con attacchi più o meno ibridi e che in Guyana come in Kosovo i rischi di nuovi conflitti sembrano concreti. Così come non c’è da stupirsi se in tutti questi conflitti il grande assente, nel prevenirli, nel gestirli e nel cercare di concluderli, sembra essere la diplomazia.