I figli dei preti esistono, e io sono uno di loro
Vincent Doyle ha scoperto di essere figlio di un sacerdote quando aveva 28 anni. Ha creato il sito Coping International per offrire sostegno agli altri figli dei preti nel mondo
“Avevo 12 anni quando il mio padrino morì. In quel momento, non sapevo che in realtà quell’uomo era mio padre”. Vincent Doyle è uno psicoterapeuta e vive a Galway, in Irlanda. Ha scoperto di essere figlio di un sacerdote quando aveva 28 anni e, alcuni anni dopo, ha creato il sito Coping International (Children of Priests International) riconosciuto dalla Chiesa cattolica, che offre sostegno ai figli dei preti nel mondo.
La sua iniziativa è stata oggetto di un’inchiesta del Boston Globe, nella serie Spotlight, intitolata Father, My Father, firmata dal giornalista Michael Rezendes.
Doyle ha raccontato a TPI la sua storia, parlando anche della situazione dei figli dei preti in Italia. Ha voluto inoltre rivolgere attraverso il nostro giornale un appello a Papa Francesco, affinché affronti pubblicamente la questione dei figli dei preti.
Quando ha scoperto di essere figlio di un prete cattolico? Come si è sentito in quel momento?
Nel 2011 ho trovato una cartellina con vecchie poesie scritte su dei fogli di carta. Le ho lette e ho capito che erano state scritte dal mio padrino, Fr. JJ Doyle, che morì quando io avevo 12 anni. Ho sempre avuto un rapporto stretto con lui. Quando morì, non sapevo che quell’uomo in realtà era mio padre.
Le poesie mi hanno colpito profondamente, anche io ne avevo scritte da giovane e da adolescente. Il tono delle poesie di JJ era simile a quello che usavo io. Mentre le leggevo, andavo realizzando dentro di me. Mi sono girato verso mia madre, che sedeva in silenzio accanto a me. “Era mio padre, vero?”, le ho detto con stupore. Lei ha iniziato a piangere…e allora l’ho capito. Ha detto “sì”, e io l’ho abbracciata e le ho detto che le volevo bene. Ha custodito questo profondo segreto per 28 anni, con sofferenza.
Molto profondamente, dentro di me, lo sospettavo da 28 anni. Sono stato felice di esserne venuto a conoscenza.
In qualche modo lei è stato più fortunato di altri figli dei preti, perché ha potuto incontrare suo padre e trascorrere del tempo con lui. Che tipo di persona era?
Quando era vivo, io e mio padre trascorrevamo molto tempo insieme. Pensavo fosse il mio padrino, non sapevo fosse mio padre, ma il nostro legame andava oltre quel silenzio che c’era tra noi, entrambi sapevamo, in fondo. Ci amavamo talmente tanto che non c’era bisogno di parole.
Mio padre era un uomo della gente. Se i parrocchiani erano vecchi o disabili li aiutava persino con il giardinaggio, e ogni volta che uscivamo veniva regolarmente avvicinato dai poveri, a cui non rifiutava mai del denaro. Mi amava, amava mia madre e amava il sacerdozio. Amava dire la messa e soffrire con le persone che soffrivano. JJ era un padre amorevole in tutti i sensi; un bellissimo prete e un padre amorevole.
Come si è sentito quando ha incontrato altri figli di preti? Ha trovato qualche elemento in comune con loro sulla vostra infanzia? Avete condiviso sentimenti o sensazioni comuni?
Parlo raramente della mia storia personale, che riguarda solo me e mio padre. Penso sia importante che i figli dei preti non pensino che la segretezza o la piena pubblicità siano per loro le uniche due opzioni. Puoi annunciare di essere figlio di un prete e finirla qui. Ogni singola persona risponde in modo e con livelli differenti.
Io amo incontrare la gente e far riunire i figli dei preti. Sono felice del mio lavoro come psicoterapista e nel lavoro umanitario per Coping. Amo molto questo lavoro e vi dedico la mia vita. La più grande gioia per me è vedere la Chiesa che incontra il figlio di un sacerdote con compassione e riconosce a questo figlio dignità e valore, guardando oltre tutti gli altri interessi. Il clericalismo muore quando il figlio di un prete è riconosciuto in tutto e per tutto.
Di recente, il figlio di un prete mi ha detto di aver incontrato un cardinale, il vescovo di suo padre. Questo cardinale è stato più che compassionevole: ha pianto insieme a lui e ha risposto pienamente ai bisogni di quell’uomo. Questa
per me è gioia: la gioia comune non solo nel riunirsi come comunità di figli di preti e genitori, ma nell’incontro con la Chiesa universale, con i principi della Chiesa e del Santo Padre. Agli uomini che pensavamo ci avrebbero ignorati, ora importa! La Chiesa sta lentamente iniziando ad imparare, e questo per me è più di una gioia, è una cosa storica, è l’inizio di una riforma.
Perché ha deciso di creare una piattaforma per i figli dei preti di tutto il mondo?
La risposta è semplice. Una volta un prete mi ha detto: “sei sempre benvenuto nella Chiesa, non importa chi sia tuo padre”. Penso che sia vero, ma solo se tutti i figli dei preti sono ugualmente accolti. Poi ho pensato: “come fanno questi figli a sapere che sono i benvenuti nella Chiesa se la concezione comune nella società è che loro non sono benvenuti, e dovrebbero anzi restare in assoluto silenzio?”.
Allora mi sono rivolto alla Chiesa. Ho considerato che se essere pro-vita significa avere rispetto per la vita in tutte le sue fasi, dal grembo fino alla tomba (includendo anche la morte) è contro l’etica pro-vita della Chiesa cattolica stigmatizzare un figlio sulla base di una parentela. L’arcivescovo irlandese Diarmuid Martin si è detto completamente d’accordo con me e in seguito ho rivolto ai vescovi irlandesi una serie di domande teologiche, che costituiscono la base di Coping International.
La relazione tra Coping International e i vescovi irlandesi continua, è una relazione sana. Sta emergendo una nuova teologia pastorale, ma non una nuova teologia! È un riconoscimento affinché tutti i figli di sacerdoti abbiano pari dignità rispetto a tutti gli altri bambini. La teologia cattolica sostiene il valore di tutta la vita, quindi questo deve includere figli di sacerdoti, cardinali, arcivescovi, vescovi e suore, no? Non mi sentirò del tutto benvenuto nella mia Chiesa come praticante
cattolico fino a quando tutti i bambini avranno ricevuto un’uguale accoglienza. Tutti i bambini.
I vescovi irlandesi mi hanno aiutato a portare questa accoglienza a tutti i bambini, e non è stato facile! Vorrei
congratularmi pubblicamente con loro per il coraggioso lavoro. Loro esemplificano e impersonificano davvero tutto ciò che è grande nella salvaguardia dei bambini, per quanto riguarda i figli dei sacerdot in particolar modo. Il lavoro continua!
L’Italia è la patria del Cattolicesimo. Lei ha incontrato attraverso “Coping International” alcuni figli di preti italiani? Quanti figli di preti pensa che vivano nel nostro paese? E soprattutto, come vivono?
Questa è una domanda importante. A dicembre 2014 ho lanciato con il sostegno della chiesa il sito www.copinginternational.com, una risorsa online per i figli dei preti. Volontariamente, non ho detto nulla a nessuno e non ho parlato con la stampa. Ho lasciato il sito online per 30 mesi prima di far diventare la cosa pubblica con il Boston Globe, nell’inchiesta della serie Spotlight, intitolata Father, My Father, con il pluripremiato giornalista Michael Rezendes.
Ma perché rimanere in silenzio per 30 mesi? La ragione è semplice, ero alla ricerca di dati quantitativi e qualitativi! Volevo vedere quante persone stavano cercando aiuto online, dove e quante di loro fossero legate a questo argomento senza aver visto la notizia in un giornale internazionale, o qualcosa in televisione. Questo infatti avrebbe viziato i dati.
Tra dicembre 2014 e luglio 2017 (il Boston Globe ha pubblicato l’articolo il 16 agosto 2017) ci sono stati 9.397 accessi provenienti solo dall’Italia sul nostro sito web. Questo rappresenta la quantità di persone che cercavano aiuto sul tema dei figli dei sacerdoti, o le madri di bambini figli di preti in cerca di aiuto. Ora la domanda è: perché così tante persone sono andate su un motore di ricerca e hanno cercato frasi come “Sono figlio di un prete” o “Sono incinta e il padre è un prete” e così via? Perché così tante persone avrebbero cercato un’informazione su un tema così specifico in 30 mesi, se non per un interesse personale?
Per quanto riguarda il modo in cui i figli dei preti vivono, la situazione di per sé incoraggia la segretezza, e la segretezza crea trascuratezza. Se un bambino vive in segreto, lui o lei può soffrire di trascuratezza e/o danni psicologici o emotivi, che influenzano il suo benessere. Se la Chiesa in Italia non ha parlato pubblicamente dell’argomento, questa assenza di riconoscimento potrebbe essere interpretata in senso di facilitazione o incoraggiamento del silenzio, e cioè far intendere che il silenzio su questo tema è in qualche modo la norma o quanto previsto?
Sono sicuro che la Chiesa italiana non vuole sia così, sicuramente vogliono sostenere i bambini, tutti i bambini. Si può solo concludere che ci sono bambini che vivono nel silenzio, in Italia, e vengono trascurati emotivamente e/o psicologicamente. Spetta alla Chiesa in Italia dichiarare che riconoscerà e accetterà questi bambini e che loro potrebbero farsi avanti in sicurezza se lo desiderano.
Se la Chiesa si rifiuta di farlo, allora io chiedo, perché rifiutano, a meno che non sappiano di questi bambini e temano di riconoscerli? Quindi, cosa viene prima, i bisogni dell’adulto o del bambino? La Chiesa ha il dovere di prendersi cura di questi
figli e di non lasciarli a soffrire in silenzio.
Dal 2014 ad oggi ci sono stati 2663 risultati su www.copinginternational.com dalla Città del Vaticano. Sono in debito con la Santa Sede, poiché so che loro si preoccupano di questo e sono i principali ad avere un occhio attento su questo argomento.
In Italia esiste quindi una sorta di taboo sui figli dei preti che l’Irlanda ha abbattuto, e che il nostro paese invece ancora non riesce a demolire?
Il taboo che circonda i figli dei preti è diffuso in tutto il mondo ed è “sistemico”. Credo che i vescovi irlandesi siano stati i primi vescovi a parlare pubblicamente dell’argomento, ma Papa Francesco ha scritto su questo tema nel 2010, nel suo libro Il cielo e la terra. Allora era il cardinale Bergoglio, e ha riconosciuto il “diritto naturale del bambino come più importante dei diritti del prete”. Ha giustamente dichiarato che il prete deve prendersi cura del figlio. Comunque vorrei porre un’altra domanda, prima di rispondere alla tua.
Se il prete deve lasciare il sacerdozio per occuparsi di suo figlio, che opportunità d’impiego potrebbe aspettarsi, e quindi come adempie ai suoi obblighi?
Il diritto canonico non richiede che un prete lasci il sacerdozio se è padre di un bambino, perché non si tratta di un reato canonico, secondo una concezione condivisa. E se il prete ha una cinquantina d’anni, è stato sacerdote negli ultimi 20 anni, non ha una relazione con la madre del bambino ed è un buon parroco? Cosa farà per prendersi cura di suo figlio concretamente, che lavoro potrebbe cominciare a svolgere come ex prete, quali abilità potrebbe utilizzare?
La questione morale deve incontrare il realismo e il pragmatismo, altrimenti la cura pastorale, la teologia e la filosofia cessano di coesistere! È importante riconoscere che non si può rispondere alla domanda “cosa dovrebbe fare un prete se ha un figlio?” senza rispondere alla seconda domanda “come si prenderà cura di suo figlio?”. Queste domande sono ineludibili.
Ho parlato con molti ex preti che hanno presunto di dover lasciare il sacerdozio dopo aver avuto un figlio. Molti vivono in una situazione di indigenza, e così anche i loro figli.
Sono stato contattato di recente da un ex sacerdote romano. Mi ha detto che ama suo figlio, ma che la famiglia soffre la fame e che lui è preoccupato. Se la Chiesa costringe il prete a lasciare il sacerdozio, avrà un nuovo problema nei prossimi 20 anni: cioè bambini che hanno vissuto in povertà perché il padre non aveva soldi, lavoro o aspettative lavorative.
I vescovi irlandesi hanno risposto a questa domanda a dicembre 2017. Hanno detto che la decisione del prete deve essere presa con riguardo a: 1. il miglior interesse del bambino; 2. il dialogo e il rispetto per la madre del bambino; 3. il dialogo con i superiori ecclesiastici; 4. tenendo conto del diritto civile e di quello canonico. Per questo ritengo che i vescovi abbiano deciso che intendono guardare a ogni caso singolarmente, tenendo conto di tutte le circostanze di cui sopra e prendendo la decisione giusta per il bambino. In ogni situazione uno deve chiedersi: “cosa è giusto per il bambino?”. Non bisogna procedere per presupposti automatici.
Gli irlandesi hanno di certo ribaltato il taboo sui figli dei preti. Qualsiasi autorità ecclesiastica che rifiuta di esprimersi sulla situazione o almeno ascoltare e/o imparare di più sull’argomento, se lo ignora, contribuisce al continuo silenzio, che porta indirettamente a trascurare un numero sconosciuto di questi figli.
Pensa che la regola del celibato per i sacerdoti sarà cambiata in futuro? Questo cambiamento sarebbe positivo secondo lei?
Solo lo Spirito Santo può decidere cosa è giusto per la Chiesa. La Chiesa è divina e umana come Cristo. L’umano deve chiedere: “si può essere capaci di ciò che viene chiesto o previsto?” e a questa domanda bisogna rispondere collettivamente e individualmente.
Papa Paolo VI dichiarò nel 1967, quando parlava di coloro che sono stati “tristemente infedeli agli obblighi” che il celibato comporta, “la responsabilità [di non rimanere fedeli a celibato] non ricade sul celibato consacrato in sé ma su un giudizio di idoneità del candidato al sacerdozio che non è stato sempre adeguato o prudente nel momento opportuno, oppure cade sul modo in cui i sacri ministri vivono la loro vita di totale consacrazione”.
Sono d’accordo con papa Paolo VI, non è colpa del celibato ma sulla “sacralità con cui i ministri vivono la loro vita di totale consacrazione”. Quindi, se questa affermazione si applica al singolo sacerdote, si applica anche collettivamente come regola.
Dunque è richiesto un processo di discernimento continuo da parte di tutta la chiesa e degli individui. Entrambi, non uno solo di questi soggetti. La domanda “siamo collettivamente in grado di adempiere a questi obblighi [celibato]” deve avere una risposta dal corpo sacerdotale collettivo dal momento che siamo una chiesa universale, come anche dall’individuo.
Lei ha consegnato una lettera a Papa Francesco sui figli dei preti. Qual è stata la sua risposta? La Chiesa cattolica ha fatto dei progressi sul tema negli ultimi anni?
Sua Santità non ha risposto immediatamente, ma alcuni mesi dopo ho ricevuto una lettera con una benedizione e un endorsement su ciò che ci spinge nel nostro lavoro, da parte di Sua Santità. Ho ricevuto la sua lettera in modo umile, così come umilmente l’ho incontrato.
La Chiesa irlandese ha aperto la strada in termini di progresso su questo tema, così come l’UISG (Unione Internazionale delle Superiore Generali) e l’USG (Unione superiori generali) a Roma, i quali lo scorso anno hanno ratificato i principi di responsabilità dei vescovi irlandesi riguardo ai preti che hanno figli durante il sacerdozio.
Ho lavorato a stretto contatto con i vescovi irlandesi che sono stati rivoluzionari, e li ringrazio. Lo scorso settembre la Commissione pontificia per la salvaguardia dei minori ha accettato di considerare i bisogni dei figli dei sacerdoti. In sostanza, sì, la Chiesa ha fatto progressi su questo tema e la elogio per questo, ma non possiamo dirci pienamente soddisfatti.
Migliaia di bambini sono nati non solo dai sacerdoti, ma anche da vescovi e arcivescovi, cardinali, religiosi, uomini e donne. E continuano a nascere ogni giorno. Ciò che la Chiesa deve realizzare è questo: i figli dei sacerdoti sono inevitabili, maschio e femmina li ha creati (Genesi 1:27). La questione centrale per la Chiesa è la seguente: si può parlare dell’abuso oggettivamente, giustamente condannare e sradicarlo, fermarlo. Il “problema” associato ai figli dei sacerdoti, dall’altra
parte è che al centro c’è un essere umano e da una prospettiva pro-vita dobbiamo rispettare la vita in tutte le fasi e non possiamo stigmatizzarla sulla base della parentela.
Il Presidente della Pontificia Accademia per la Vita in Vaticano, l’Arcivescovo Vincenzo Paglia ha riconosciuto la questione che riguarda i figli dei preti come un problema pro-vita. Così, la Chiesa vive un conflitto di interessi, i propri e quelli del bambino. Cosa è più importante, le loro pratiche e la loro etica, o il bambino? Quali bisogni vengono per primi?
Pertanto, la Chiesa è lenta nel riconoscere questo problema, perché non solo deve supportare il bambino, ma non si può condannare in modo credibile la situazione poiché non si può condannare il concepimento di un bambino. Non si può associare un bambino con lo stigma o il “peccato”. Questo non è etico ed è contrario alla teologia cattolica. Nessun bambino viene dal peccato, i bambini vengono da Dio, quindi esiste un paradosso.
Ci sono domande molto più profonde cui la Chiesa ha già risposto. Dipende dal mondo e dai media, cui sono molto grato, porre le domande giuste.
Vorrei rivolgere una domanda a Sua Santità, Papa Francesco. Nel 2016, l’1,6 per cento degli accessi su Coping International proveniva da questa frase di ricerca: “sono incinta e il padre è un prete cattolico”. Ecco la mia domanda:
“Sua Santità, quando considera tutti i sacerdoti e religiosi (uomini e donne) del mondo e il sacrificio che loro sopportano individualmente, che è tra loro e Dio, considera quello dei figli segreti dei preti e del clero, che ereditano il sacrificio previsto per i loro genitori biologici?
Di chi è il sacrificio più grande? Se è quello del bambino, allora, sicuramente, il sacrificio senza una scelta non è per nulla un sacrificio, ma è un abuso. Per favore, consideri queste realtà contenute in questo articolo nei termini del Suo approccio di tolleranza zero verso l’abuso e, per favore, parli pubblicamente dei figli del clero e delle questioni concrete associate a questo fenomeno.
Resti fiducioso delle mie preghiere per Lei.
Con rispetto,
Vincent Doyle”
* Vincent Doyle è uno psicoterapeuta qualificato. Si è laureato in teologia al Saint Patrick’s College di Maynooth, in Irlanda. Ha conseguito un Master presso il Mater Dei Centre Catholic Education, DCU, a Dublino.