“La Russia ha costruito l’invasione dell’Ucraina con le fake news sui social: e Facebook è rimasta a guardare”
“Facebook ancora una volta non ha mantenuto la promessa di far rispettare le proprie regole. La giustificazione per la guerra russa contro l’Ucraina è stata costruita proprio su Facebook”. Queste durissime parole sono state pronunciate pochi giorni fa da Imran Ahmed, amministratore delegato del Center for Countering Digital Hate (CCDH), un’organizzazione no profit statunitense che si occupa del monitoraggio e del contrasto alla disinformazione e ai discorsi d’odio online.
L’accusa rivolta al social di Mark Zuckerberg e alla più ampia galassia della piattaforme di proprietà di Meta non fa però riferimento a quanto sta accadendo in queste settimane, con i CEO delle Big Tech tirati per la giacchetta da russi, ucraini e paesi occidentali con la richiesta di schierarsi e bloccare contenuti del fronte opposto.
La negligenza di Facebook, secondo quanto analizzato dal CCDH, va fatta risalire a quanto accaduto a partire dal 2019, quando Zuckerberg promise di “etichettare post provenienti da media controllati dallo stato” sia sul NewsFeed sia sulla Libreria Inserzioni, così da contrastare l’influenza di attori stranieri nelle elezioni Usa dell’anno successivo. I ricercatori statunitensi hanno però rilevato, analizzando 3.593 articoli postati dai media russi RT.com, Sputnik News, TASS e Ruptly, che il 91 per cento di questi post non è stato segnalato con alcuna etichetta.
Tutti questi media sono stati identificati dal Dipartimento di Stato Usa come “finanziati dal Cremlino” e “parte dell’ecosistema di disinformazione e propaganda della Russia”. Tra le migliaia di post diffusi e non segnalati da Facebook come contenuti propagandistici, ce n’erano molti che riguardavano proprio l’Ucraina. Per questo motivo, secondo l’organizzazione no profit, la noncuranza di Facebook avrebbe in qualche modo permesso alla Russia di preparare il terreno per l’attuale invasione, agevolando una propaganda volta a diffondere false informazioni e a screditare cittadini, organizzazioni e politici ucraini.
Tra gli articoli non segnalati da Facebook, ve ne sono diversi che riportavano informazioni di questo genere: “L’Ucraina ha pianificato un incidente militare sotto falsa bandiera, preparato da sabotatori addestrati dagli inglesi”; “I mercenari americani stanno preparando attacchi con armi chimiche”; “In Ucraina sono costantemente all’opera americani armati e affamati di guerra in abiti da combattimento”.
“Lo stato russo è coinvolto in una serie di operazioni manipolazione – ha dichiarato Imran Ahmed – L’effetto integrato della produzione di disinformazione da parte dei media e dei network che la diffondono sui social media ha l’intento di modificare la percezione dell’opinione pubblica occidentale sulle questioni politiche, agevolando così l’agenda di Putin, con chiare implicazioni per la nostra sicurezza nazionale e per l’ordine internazionale. Facebook, insomma, è stato utilizzato come arma da parte dello stato russo”.
Lo studio del CCDH esce in un momento in cui Meta, come le altre Big Tech, è sotto pressione da parte sia dell’Occidente sia della stessa Russia. Come ha scritto il New York Times, l’invasione russa dell’Ucraina ha evidenziato il ruolo geopolitico delle grandi piattaforme online, le cui regole sulla diffusione dei contenuti sono in grado di alterare la percezione dell’opinione pubblica sul corso degli eventi, specie a causa dell’enorme quantità di disinformazione messa in circolo dalle parti in causa.
Il Cremlino ha esplicitamente chiesto a Facebook e YouTube di bloccare post legati alla guerra; sull’altro fronte, sia il governo ucraino che quelli di Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia hanno chiesto a Apple, Meta, Google e Twitter di intraprendere azioni più decise, che vanno dalla cessazione dei rapporti economici con la Russia al blocco degli account di media, politici e istituzioni governative russe.
Alcune Big Tech hanno in parte risposto agli appelli: Apple ha infatti interrotto la vendita dei suoi prodotti in Russia, Google e Meta hanno bloccato le inserzioni pubblicitarie dei media controllati dallo stato russo e la compagnia di Zuckerberg ha anche oscurato l’accesso a Russia Today e Sputnik nell’Unione Europea.
Diversi attivisti e organizzazioni non governative ritengono però che le azioni delle Big Tech non siano sufficienti, e che le piattaforme digitali dovrebbero fare una scelta di campo netta in favore della democrazia, della pace e della società aperta, tagliando completamente i ponti con i regimi autoritari. “Queste aziende vogliono mantenere tutti i vantaggi legati alla loro attività di monopolizzazione delle comunicazioni mondiali, senza assumersi la responsabilità di scegliere da che parte stare quando entrano in gioco cruciali questioni geopolitiche”, ha dichiarato al New York Times Yael Eisenstat, ricercatore del Berggruen Institute, un think tank di Los Angeles.
D’altra parte, però, sono proprio le piattaforme digitali, come dimostrato in numerosi casi in passato, quelle su cui forme di resistenza al potere autoritario riescono a organizzarsi, per poi ramificarsi all’interno della società.
Il New York Times ha messo in risalto il caso di Telegram. L’app è infatti molto utilizzata in Russia e in Ucraina in relazione alla condivisione di immagini, video e informazioni sulla guerra, ma come nel caso di Facebook, è anche diventata un luogo in cui prolifera la disinformazione a scopo propagandistico. Pavel Durov, il fondatore di Telegram, qualche giorno fa aveva dichiarato di voler bloccare alcuni canali della piattaforma legati al conflitto bellico, paventando il rischio che la disinformazione potesse fomentare l’odio etnico e aggravare la situazione. Molti utenti, però, hanno risposto allarmati, evidenziando come Telegram sia per loro una delle pochissime fonti di informazione indipendente. Una “sollevazione” che ha indotto Durov a fare marcia indietro.
Se è quindi molto complesso trovare un equilibrio tra il contrasto alla disinformazione e la tutela non solo della libertà di espressione, ma anche dell’accesso a fonti di informazione indipendenti, quel che è certo è che Facebook, ancora una volta, si è mostrata negligente rispetto a compiti a cui essa stessa aveva dichiarato di voler adempiere.
Al di là della censura, infatti, resta aperta la possibilità di segnalare attraverso le etichette i contenuti che provengono da determinate fonti. In questo modo gli utenti possono comunque disporre di strumenti aggiuntivi che li mettano in grado di valutare l’attendibilità di quelle fonti, senza che i contenuti vengano rimossi del tutto. L’intera operazione di influenza e manipolazione dell’opinione pubblica può essere quindi significativamente minata attraverso un’attività di segnalazione dei contenuti ben eseguita.
Meta negli ultimi anni ha stretto accordi con numerose organizzazioni indipendenti di fact-checking, proprio al fine di agevolare il lavoro di segnalazione di contenuti sospetti e renderlo più trasparente. Lo studio del Center for Countering Digital Hate sui contenuti propagandistici dei media russi legati al Cremlino, specie su temi inerenti l’Ucraina, mostra però come le piattaforme di Meta siano ancora ben lontane dall’aver raggiunto risultati soddisfacenti su questo fronte.
Ciò vale a maggior ragione quando la disinformazione e i contenuti d’odio si diffondono in Paesi culturalmente e linguisticamente distanti dagli Usa, Paesi in cui Facebook, inoltre, non investe le risorse necessarie. Si tratta di elementi emersi con forza a seguito delle rivelazioni della ex product manager Frances Haugen. L’ultimo caso emblematico è quello dell’Etiopia, dove Facebook, come rivelato da un’inchiesta del Bureau of Investigative Journalism (TBIJ) e dell’Observer, non ha effettuato un’adeguata moderazione dei contenuti, permettendo così a fake news e discorsi d’odio di proliferare. E in un Paese come l’Etiopia, in preda da anni a violenti scontri etnici, la circolazione di materiale incendiario sui social network ha contribuito ad alimentare tensioni e violenze.