Facebook non fa sempre Primavera
Il pericolo di derive estreme nell'era dell'informazione senza filtri. Col risultato che tutti si sentono in diritto di fare tutto
L’Itamaraty di Oscar Niemeyer è stato violato. Il gioiello nazionale di Brasilia, la sede del ministero degli Esteri, è finito per essere sfregiato dalle pietrate.
A Rio de Janeiro il sambodromo, simbolo del folclore carioca, è rimasto devastato: disonorato da un manipolo inferocito di persone in preda a una furia eccitata.
Le strade della bella Salvador de Bahia, sono state trasformate nel teatro di una guerriglia urbana. E poi San Paolo, Porto Alegre, Fortaleza e tante altre città.
Da nord a sud di un Paese immenso, che scaraventa la collera accumulata nel tempo contro il potere considerato corrotto, inefficiente, ladrone.
Con “brillante” fantasia i media l’hanno già soprannominata la “primavera tropicale”. Ormai è così: basta darsi appuntamento sui social network, scendere in strada e manifestare, che di colpo arriva la primavera.
“Eu saì do Facebook” – io sono uscito da Facebook – era tra i cartelli più inflazionati nelle strade della protesta. Indirettamente invitava tutti quelli che seguivano gli avvenimenti sul computer a uscire di casa. Trasferirsi dal mondo virtuale a quello reale, per mettere un “mi piace” con il pollice in carne e ossa sotto una manifestazione che ancora fatica a trovare il suo titolo.
Tutto è cominciato per protestare contro gli aumenti ingiustificati delle tariffe per il trasporto urbano – che in Brasile tanto pubblico non è, poiché è spesso gestito da imprese private che ottengono una concessione dalle amministrazioni – la protesta ha poi canalizzato l’indignazione verso la Coppa del Mondo, colpevole di aver distratto 33 miliardi di Reais, circa 12.6 miliardi di Euro, dalle priorità del Paese: l’educazione scolastica, la sanità, le infrastrutture.
Più passano i giorni, più il tam-tam sulla Rete aumenta. L’indignazione per le reazioni delle forze dell’ordine, spesso esagerate, scaldano gli animi. Ci si dimentica il motivo per cui si è scesi in strada il giorno prima e l’obiettivo contro cui manifestare diventa sempre più astratto.
Dall’aumento del prezzo del trasporto pubblico si è passati ai soldi per gli stadi, fino ad arrivare all’anti-politica e ai partiti. Colpevoli di rubare le tasse dei contribuenti e di non far niente per migliorare la vita della gente. “È tutto. Il problema è tutto. Qui non funziona niente”, dicono.
Ma il Brasile non è la Tunisia, né l’Egitto o lo Yemen. È un Paese democratico, che arriva da 10 anni di forte crescita economica. È un Paese che non ha mai conosciuto nella sua storia una disoccupazione così bassa, da anni stabile intorno al 5 – 6 per cento.
E dove l’indice di Gini, che misura la distanza tra i più ricchi e i più poveri, si è abbassato da 58 (2003) a 54,7 (2009). Quando Lula e Dilma, nei loro discorsi pieni di retorica e propaganda, ricordano che 40 milioni di brasiliani sono usciti dalla povertà, non dicono il falso. E non era facile farlo.
L’opinione pubblica però è indignata dalle inefficienze, gli sprechi e la criminalità. Si è convinta che quegli stadi nuovi di zecca siano il simbolo di un insulto alle condizioni reali del Paese.
Che quei soldi potevano essere investiti per migliorare le necessità della gente, dimenticando forse che il Brasile, nonostante il grande balzo in avanti, rimane pur sempre una realtà emergente, che ha bisogno di maturare.
Di raffinare la sua organizzazione, oltre che epurare il marciume dalla sua politica. La distanza con il “primo mondo” non si calcola solo a colpi di Pil.
Prendiamo l’istruzione, da anni il tallone d’Achille del gigante verde-oro. Secondo l’Ocse il Brasile è il 15esimo Paese per spesa nell’educazione pubblica. Ogni anno vi dedica il 5,70 per cento del suo immenso Prodotto Interno Lordo (l’Italia arriva a mala pena al 4,3 per cento), eppure raccoglie ben poco.
Nel ranking Pisa, una classifica internazionale sulla qualità dell’insegnamento, il Brasile risulta solo 54esimo. I benestanti mandano volentieri i loro figli nelle scuole private, sborsando di tasca loro centinaia di Reais al mese.
Discorso simile vale per la sanità. Il Paese, che conta con 194 milioni di persone, può vantare un sistema pubblico gratuito e universale, al quale dedica l’8,7 per cento della sua ricchezza annuale (in Italia è il 7,1 per cento).
Eppure i cittadini che possono permetterselo, non pensano due volte a farsi un’assicurazione privata per stare il più lontano possibile dagli ospedali pubblici. La qualità dei servizi offerta è imbarazzante. Nelle sale d’attesa di un pronto soccorso si rischia di invecchiare.
Il Brasile non lesina sforzi economici per i servizi pubblici. Il problema, semmai, sta nei modelli di funzionamento e organizzazione, che sono spesso vecchi, inefficienti e costosi. E anche nella formazione di personale altamente qualificato, che fatica a esprimere una classe dirigente competitiva.
Come spiegava Barbara Bruns, della Banca Mondiale, all’Economist, le classi delle scuole pubbliche brasiliane sono già tra le più “finanziate” al mondo. Si arriva a un punto in cui investire più soldi in un modello obsoleto porta solo sprechi e non vantaggi. Come dire: lo sviluppo sociale e amministrativo non si compra. Si raggiunge. E ci vuole tempo.
Ma allora siamo sicuri che il denaro investito nella Coppa del Mondo, insieme all’anti-politica, siano i motori giusti di questa sorprendente protesta, oppure sono solo specchietti per le allodole dei populisti, che catturano l’attenzione della gente distratta sui social network?
L’impressione è che oltre all’indiscutibile pregio di democratizzare l’informazione, bisognerebbe riflettere di più anche sull’”effetto cascata” che sono in grado di generare. E soprattutto sulle derive estreme che possono causare.
Manifestare è un diritto in democrazia. Fare la guerra in strada no. Anche se le forze dell’ordine hanno usato il pugno di ferro.
Tra l’altro proteste che nascono in difesa di richieste nobili, come quella del Movimento Passe Livre (movimento biglietto gratis) rischiano di essere strumentalizzate da altri movimenti violenti. Il risultato è una grande confusione, che scredita le iniziative meritevoli di ascolto.
Pur nelle loro complesse diversità, nell’ultimo mese abbiamo assistito a due rivolte popolari, in due zone lontane tra loro, Turchia e Brasile, cominciate per un motivo circoscritto e terminate con l’assalto alla bastiglia.
Se c’è da avere paura della sordità e della fermezza del potere, sarà meglio cominciare ad averne pure delle derive estreme dell’opinione pubblica, non meno pericolose di tutte le altre.