Europa senza America: ecco cosa significa (e quanto costa) difendersi da soli

Il percorso di pace per l’Ucraina tra Usa e Russia, senza né Kiev né gli Alleati, cristallizza il graduale disimpegno di Washington dal Vecchio continente. Così l’Ue e gli altri Stati membri della Nato devono trovare una propria unità politica, economica, sociale e militare
Da tanto tempo si discute del rapporto tra l’Europa e gli Stati Uniti d’America, di questa alleanza e dei rischi per il Vecchio continente di affidarsi totalmente a Washington. Da altrettanto tempo si ragiona su quanto l’Europa dovrebbe essere autonoma, anche perché senza questa autonomia, qualsiasi porta chiusa o cambio di atteggiamento da Oltreoceano rischierebbe di lasciarci soli e deboli. Sempre da tutto questo tempo si pensa anche a quanto questa Europa debba trovare una propria strada di unità che le permetta di avere la forza politica, economica, sociale e militare per essere alleata degli Stati Uniti ma mantenendo una propria autonomia, senza un rapporto di dipendenza. Tuttavia le debolezze, i litigi e le diversità di vedute hanno posto innumerevoli volte paletti di vario genere che non hanno permesso all’Unione europea di essere un soggetto forte e unitario.
Interessi divergenti
Oggi, però, tutte queste ipotesi e questi propositi succedutisi nel tempo rischiano di farsi sotto molti aspetti delle vere e proprie necessità. Il graduale disimpegno americano dal teatro europeo si è cristallizzato nel percorso di pace per l’Ucraina svolto direttamente tra Washington e Mosca, marginalizzando se non addirittura escludendo l’Europa, che ne deve affrontare in prima linea strascichi, conseguenze e timori del conflitto, e mettendo in secondo piano anche Kiev: una decisione che rappresenta solo il più vistoso segnale di come l’amministrazione Trump non abbia alcun interesse a mantenere il Vecchio continente come teatro di primo piano e che, anzi, veda nell’Ue una zavorra quando non addirittura un problema.
«Formata per truffare gli Stati Uniti»; «Una delle più ostili e abusive autorità di tasse e tariffe al mondo», sono solo alcuni degli epiteti con cui Donald Trump ha descritto l’Unione europea nelle ultime settimane nell’ambito della guerra dei dazi lanciata su larga scala dalla Casa bianca e che non ha lasciato fuori il Vecchio continente. Qualcosa che mostra come, per quanto alleato di gran parte dei Paesi europei nella Nato, legato a essi da innumerevoli trattati e con una massiccia presenza in termini militari, imprenditoriali e tecnologici, Trump non sembra intenzionato ad approfondire con l’Ue il rapporto come partner ma, anzi, la veda quasi come un concorrente se non addirittura un rivale in partite specifiche. Ma se l’America sceglie di escludere l’Europa dai negoziati con l’Ucraina, se tratta direttamente con la Russia, che molti Paesi soprattutto dell’EEst vedono come una minaccia concreta, se inizia a circolare la voce su un possibile ridimensionamento del contingente Usa su questa sponda dell’Atlantico, se oltre a questo si annuncia una pioggia di dazi sui nostri prodotti, allora l’Europa deve prendere le sue contromisure, avendo ben chiaro che esse arrivano solo attraverso una formula: imparare a camminare sulle proprie gambe in tutti i campi.
Se l’Europa in questi anni, pur attenta in modo quasi maniacale a molti aspetti economici degli Stati membri e pur promossasi come soggetto regolatore di primo piano, non è mai riuscita a essere un unico forte soggetto politico, questo è accaduto in primis per divisioni e diverse vedute su vari temi da parte dei diversi Paesi, e l’attuale situazione, pur avendo messo in evidenza la necessità di trovare formule unitarie più efficaci, non le ha certo cancellate. Anzi, in alcuni casi le ha addirittura acuite. Se ad esempio il presidente francese Emmanuel Macron, a capo di uno Stato che senz’altro ha posto più volte nella sua storia recente il proprio interesse in contrasto con quello comune europeo (la chiusura del confine a Ventimiglia per fermare i migranti ce lo ricorda), dal 2022 porta avanti proposte e battaglie volte a creare un’Europa politicamente e militarmente autonoma dagli Stati Uniti, non può certo dirsi lo stesso, ad esempio, dell’Ungheria di Viktor Orban, che da sempre ha mostrato più che una mano tesa verso Mosca e mostrato molte divergenze con l’America pre-Trump e Bruxelles.
Un nuovo perimetro?
La nuova Europa che sta prendendo forma e cerca strade nuove per saper essere forte anche senza Washington a tenerci in tutto e per tutto sotto la sua ala protettiva potrebbe non avere dunque lo stesso perimetro dell’Unione europea: se ci sono casi come l’Ungheria ad avere un approccio più freddo, se c’è tutto il fianco est della Nato a scalpitare per un aumento delle spese militari, c’è anche chi, come il Regno Unito, lo stesso che con lo storico referendum sulla Brexit nel 2016 rompeva con Bruxelles e che storicamente aveva guardato con più attenzione all’Atlantico che al Canale della Manica, oggi sembra essere più che mai coinvolto in questo nuovo dialogo europeo in corso. È stato proprio il primo ministro Keir Starmer, la figura del Vecchio continente più proattiva in questa fase insieme a Macron, a convocare il gruppo definito dei “volenterosi”, aperto non solo ai Paesi europei, ma a tutta quella parte di Occidente che si appresta a convivere al fianco di un’America sempre più isolazionista, talvolta concorrente e talvolta a tratti aggressiva, come ha mostrato Trump parlando apertamente di mire espansionistiche verso due alleati come il Canada e la Groenlandia a sovranità danese. Così, il gruppo messo in piedi da Starmer non vede coinvolti solamente il Regno Unito e i rappresentanti di numerosi Paesi Ue, ma anche altri Stati membri della Nato come il Canada e la Turchia, presenti al summit di Londra del 2 marzo, e ha poi allargato questa coalizione a Paesi fuori dalla Ue e dall’Alleanza atlantica come il Giappone, l’Australia e il Regno Unito. L’obiettivo primario: sostegno all’Ucraina e la creazione di una proposta a trazione europea per porre fine alla guerra, con la disponibilità di inviare truppe di peacekeeping. Tradotto: un ruolo attivo nel dialogo che potrebbe porre fine alle ostilità dopo tre anni di guerra.
Da arbitro a giocatore
Tuttavia, le proposte e le buone intenzioni sono un passo che potrebbe non bastare. Lo sa molto bene l’Europa che, anno dopo anno, ha su molti campi lanciato idee lasciate cadere nel vuoto. A provare a dare maggiore peso è dunque arrivata dalla commissaria Ursula Von der Leyen la proposta che sta facendo molto discutere partiti e cancellerie del piano ReArm Europe, un piano da 800 miliardi di euro per permettere agli Stati membri investimenti in difesa. Questo progetto è, ad oggi, in gran parte da definire: si sa principalmente che vi saranno dei soldi a disposizione per la difesa degli Stati europei, ma come vi si potrà accedere, per quale tipo di progetti e di investimenti e con che priorità è ancora una materia da definire, che ci mostra tuttavia una cosa in modo molto chiaro: le alte sfere europee hanno bene a mente di aver messo la difesa in secondo piano per anni e, oggi, è necessario mettere l’acceleratore per colmare il divario con le maggiori potenze. Senza entrare nelle divisioni politiche scaturite da questo piano, il timore di molti osservatori favorevoli al riarmo, tuttavia, è che il piano porti i diversi Stati ad acquistare armi e mezzi dalle maggiori industrie globali, quella americana in primis, senza che si vada a investire per porre le basi di una vera e propria industria bellica europea in grado di mettersi in moto con capacità e ritmi di produzione autonomi.
Ma la necessità di investimenti non riguarda solo un settore divisivo come quello della difesa. L’Europa non si è mai voluta rendere autonoma dagli Stati Uniti, ad esempio, anche nel settore della Big tech, preferendo ritagliarsi il ruolo di regolatore in materia: un ruolo che nella Silicon Valley non risulta particolarmente gradito. Oggi, però, che i giganti della tecnologia made in Usa sono – Musk in testa – pienamente integrati nell’amministrazione americana (come dimostra simbolicamente la fotografia dei loro principali esponenti schierati uno di fianco all’altro durante il giuramento di Trump), le politiche di regolamentazione europee potrebbero non bastare a gestire l’impatto di un settore sempre più tendente all’oligopolio e che sta apertamente puntando a una deregolamentazione. L’assenza però di una forte industria high-tech, con tutte le maggiori aziende del settore sia in materia di produzione che di piattaforme lontane dall’Europa, potrebbe rendere totalmente insufficiente il ruolo di regolatore nel futuro prossimo. Lo vediamo proprio in questi giorni, in cui si discute sulla possibile adozione del sistema Starlink in Italia e a livello europeo: alle preoccupazioni sull’affidamento a un’azienda extra-europea di un segmento tanto delicato si affiancano le chiare difficoltà a trovare una reale alternativa a livello di satelliti, con tempi di attesa ancora indefiniti per l’operatività della costellazione europea IRIS2 e senza aziende nel Vecchio continente in grado di produrre satelliti alla velocità delle aziende d’Oltreoceano.
Un sentiero già tracciato
Che si tratti di difesa o di politica, l’allontanamento degli Usa dall’Europa non è qualcosa iniziato adesso. Trump, complice il suo modo di fare e la sua imprevedibilità, ha accelerato, reso più brusco e aggiunto maggiori rischi e preoccupazioni a un processo in corso da prima di lui: già sotto la presidenza di Barack Obama, Washington aveva iniziato a riorientare le proprie attenzioni verso il Pacifico a contrasto della crescita cinese e a discapito del teatro europeo, ritenuto in grado di gestire in autonomia la quasi totalità delle proprie questioni. L’inizio della guerra in Ucraina, tuttavia, ha portato l’amministrazione Biden a tenere nuovamente gli occhi puntati sul Vecchio continente e, in modo particolare, sul fianco est della Nato. Le cancellerie europee avevano tuttavia chiaro fin dal 22 febbraio 2022 che lo scoppio del conflitto metteva ancora di più in luce la dipendenza a livello di sicurezza militare dell’Europa da Washington: e se gli Usa avessero voltato le spalle al nostro continente, chi avrebbe badato alle preoccupazioni soprattutto dei Paesi dell’est? Se Stati come la Polonia hanno aumentato in maniera progressiva e vertiginosa il Pil in spese militari e leader come Macron hanno provato a promuovere iniziative autonome, per il resto poco in generale è successo.
Oggi, l’Europa si trova a confrontarsi con un partner oltreoceano come Donald Trump che oltre a promuovere la politica isolazionista dell’America First, mostra una considerazione minima delle istituzioni europee e tratta direttamente con la Russia, sperando anche di allontanarla dalla Cina, e lancia al Vecchio continente anche una guerra commerciale a suon di dazi. In attesa di capire se questo abbia un obiettivo specifico – Trump si è più volte mostrato molto abile nella politica del cosiddetto “escalate to de-escalate” – che possa portare a una conclusione di questo scontro, l’Europa non può permettersi di continuare a rinviare la creazione e la messa in campo di una serie di iniziative che la rendano sotto vari aspetti un soggetto politico forte e non un’aggregazione di Stati divisi. In che modo, starà alla classe politica deciderlo, in che forma anche, senza che il perimetro sia per forza quello della Ue. Ma al di là dell’idea che ognuno possa avere dell’integrazione europea, così come dei più recenti annunci politici – riarmo in primis –, è chiaro che si stia attraversando un momento che chiede all’Europa di farsi soggetto, col rischio che molti degli Stati membri vengano consegnati all’irrilevanza o alla marginalità. Trovare la formula non sarà facile, lo mostra la storia recente, non far prevalere la burocrazia e le divisioni interne è la prima vera sfida dei leader europei di oggi.