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“All’Europa serve una nuova re-industrializzazione”: colloquio con Luca Dal Fabbro, presidente di Iren

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“Negli ultimi 25 anni l’Europa non ha avuto una visione di lungo periodo. L’Ue ha perso il senso di sé e seguito un’ideologia basata solo sulla sostenibilità, dimenticando però temi cruciali come l’approvvigionamento di materie prime. Così abbiamo perso terreno rispetto a Cina e Usa. Ora dobbiamo tornare a fare politica industriale. Serve un piano per l’autonomia strategica. L’Italia? Ci servirebbe un Ministero del Futuro”

Presidente, la Cina e i Brics stanno investendo massicciamente in tecnologie verdi e materiali critici. In Europa, invece, abbiamo accumulato un forte ritardo in questo campo. Pensa che l’Ue possa realisticamente raggiungere un’autosufficienza nell’ambito delle materie prime strategiche o sarà inevitabilmente dipendente da altri attori globali?
«La Cina ci ha messo più di trent’anni e investimenti nell’ordine dei 100 miliardi di euro per conquistare la leadership in questo campo, in quanto il leader cinese Deng Xiaoping avviò il piano sulle terre rare negli anni Ottanta. Pechino ha dimostrato di avere una visione di lungo periodo. Questo è il punto centrale per ciò che ci riguarda: negli ultimi venticinque anni l’Europa non ha avuto, e non ha tutt’ora, una visione di lungo periodo. Per troppo tempo abbiamo sottovalutato il tema delle materie critiche. Il risultato è che oggi su questo fronte siamo fortemente esposti: ci sono materiali, di cui non disponiamo, che, se ci vengono a mancare, possono portare al blocco di un’intera filiera italiana o europea. Ora, colmare nel giro di pochi anni il gap che si è accumulato con la Cina è impossibile. Bisognerebbe trovare e avviare le miniere, rilevare le società che estraggono i materiali, che li spostano, che li commercializzano. Occorre invece ragionare su un orizzonte lungo: di dieci, venti o trent’anni. Oggi l’Europa dovrebbe elaborare un proprio piano strategico per raggiungere, non una indipendenza, ma almeno un’autonomia strategica, una maggiore resilienza. Detto in altri termini: bisogna tornare all’industria». 

Dove si è inceppato il meccanismo? Com’è che abbiamo smesso di fare industria?
«Negli ultimi venticinque anni l’Europa ha perso il senso di sé e del suo futuro industriale e ha seguito un’ideologia estremista. Io sono un grande sostenitore del concetto di “sostenibilità”, ma improntare tutta la nostra strategia industriale europea su una visione estrema della sostenibilità – dimenticandosi, o quasi, di temi come la sicurezza energetica, la sicurezza degli approvvigionamenti, la competitività dei nostri prodotti – ha fatto sì che oggi l’Europa sia in gravi difficoltà. Abbiamo delocalizzato gran parte delle produzioni strategiche dove costava meno, dai chip ai cellulari sino ad alcune forniture essenziali per la  difesa. E così abbiamo de-industrializzato l’Europa. Adesso è necessario tornare a fare una  politica di forte industrializzazione per prepararci ad affrontare un mercato che dipenderà sempre più da quei materiali di cui purtroppo siamo carenti. Pensiamo a cosa potrebbe capitare alle nostre industrie in caso di un blocco improvviso delle esportazioni di microchip da Taiwan».

Che tipo di danni ci sta creando tutto questo?
«Pesanti danni causati da una scarsa capacità di programmazione. Le faccio un esempio: se l’Europa sviluppa piani di investimento sul fotovoltaico da 20 miliardi di euro l’anno e incentiva l’installazione di pale eoliche e l’utilizzo di batterie, ma nello stesso tempo non  crea– a  monte di tutto– una filiera industriale per produrre nel continente grandi quantità di pannelli fotovoltaici, pale eoliche e batterie, commette un macroscopico errore.  Certamente si promuovono le energie rinnovabili, ma favorendo quei Paesi, come la Cina, che dispongono della produzione industriale nel settore». 

Di chi è la responsabilità di questo ritardo, di questa mancanza di visione?
«Dei policy maker, soprattutto. E direi che è un problema strutturale, che ci trasciniamo da tempo, a prescindere dai governi. Vede, l’Italia rappresenta meno dell’1% della popolazione mondiale, eppure fa parte G7. Lo sa perché? Perché abbiamo ancora un Pil che è tra i primi dieci al mondo e perché abbiamo una capacità nel “fare” che è riconosciuta ovunque. Abbiamo alle spalle una storia che ci rende “fabbrica del bello e del nuovo”. E abbiamo ancora delle potentissime capacità tecnologiche e delle consuetudini industriali di primissimo livello, L’importante ora è non perderle».

Come si può arrivare a una politica industriale europea, se l’Ue è così divisa? Serve un presidente del Consiglio europeo?
«Non siamo ancora arrivati a quello stadio. Penso che dovremo affrontare ancora due o tre crisi serie, prima di arrivarci. L’Ucraina è stato il primo banco di prova, la prima minaccia alla frontiera, ma presto ne arriveranno altre, perché l’Europa è come un vaso di coccio tra due vasi di ferro, quello americano e quello indo-cinese. Nei prossimi anni l’attenzione si sposterà sempre più verso il tratto cinese del Pacifico. Questo, però, non significa che il Mediterraneo giocherà un ruolo marginale: il futuro dell’Europa dipende dall’Africa. Questo deve essere chiaro. E non significa andare a depredare l’Africa, come abbiamo fatto in passato. Dobbiamo tornare a fare quel che faceva Enrico Mattei: mettere in campo un programma di co-sviluppo insieme ai Paesi africani. Bisogna dare esecuzione al Piano Mattei con un’accentuazione particolare al tema delle competenze. Nei prossimi anni avremo bisogno di lavoratori qualificati come ingegneri, elettricisti, idraulici, fisici, matematici e dovremo essere bravi ad attrarre le migliori risorse dall’Africa. Fino a una decina d’anni fa, un giovane indiano o cinese che voleva studiare matematica avanzata o fisica quantistica andava nelle migliori università degli Stati Uniti, dove poi rimaneva per fondare start up che poi in alcuni casi sarebbero diventate multinazionali. Nei prossimi anni i giovani talenti asiatici rimarranno nei propri Paesi d’origine, perché ormai Cina e India hanno uno stato di crescita e un ecosistema industriale che inizia a diventare paragonabile a quello americano».

Sta dicendo che anche in campo accademico Cina e India ci stanno superando?
«Negli ultimi anni l’Europa ha recuperato molto terreno rispetto agli Stati Uniti. Cina e India però stanno crescendo, stanno diventando superiori a tutti soprattutto in termini tecnologici. Diciamo che la competizione sul terreno della conoscenza non ci vede più in vantaggio».

In un discorso storico pronunciato nel 2023, l’allora consigliere per la Sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan disse che la globalizzazione ha indebolito gli Stati Uniti al loro interno, rendendo più vulnerabili le imprese americane, contribuendo alla de-industrializzazione del Paese e imponendo un cambio di passo sul predominio tecnologico e militare degli Usa. Significa che la globalizzazione, almeno per noi occidentali, ha portato più danni che benefici?
«La globalizzazione è stata alimentata da una visione di mercato liberista molto spinta che ha visto in prima linea proprio gli Stati Uniti. Quest’ultimi pensavano che tutti i Paesi si sarebbero adeguati, in termini di assetto geopolitico uniforme e di politica industriale, al motto “produco dove costa meno per vendere di più”. E invece non è andata così: molti Paesi hanno deciso di perseguire una propria strategia geopolitica. Così il mondo è diventato più instabile. Oggi è sempre più importante associare a una dimensione di globalizzazione industriale ed economica una dimensione di sicurezza, ad esempio quella relativa agli approvvigionamenti».

Viviamo in un’era di anarchia globale?
«È un mondo poliformico: ci sono le democrazie, le autocrazie, le democrature… Paesi con gradazioni diverse di democrazia e di diritti civili, Paesi che hanno spinto sul liberismo economico e altri che hanno privilegiato autonomie strategiche. Ma alla fine, al di là delle ideologie e dell’assetto politico governativo, la grande differenza che io vedo è tra i Paesi che hanno una propria visione di sé per il futuro e la proiettano, i Paesi che non sono in grado di formulare una propria visione di futuro e i Paesi che hanno una visione ma non dispongono delle risorse necessarie per proiettarla». 

L’Europa dove si colloca in questa classificazione?
«L’Europa deve avere una maggiore visione industriale e geopolitica. Sarebbe importante recuperare legami che, all’interno di una visione strategica di lungo periodo, avrebbero un’importanza cruciale. Un esempio su tutti: il rapporto con la vicina Africa. Come europei, dobbiamo promuovere accordi di collaborazione con gli Stati africani, dove c’è un’abbondanza di materie prime». 

Quali sono i materiali fondamentali di cui l’Europa avrebbe bisogno per conquistare quell’autonomia strategica di cui lei parla?
«Gliene cito alcuni: platino, oro, rame, zinco, neodimio, tantalio, grafite. Questi sono tutti elementi essenziali per la nostra industria».

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Perché sulle prime pagine dei giornali italiani non si parla praticamente mai di questi temi centrali?
«Perché non abbiamo una visione di futuro, parliamo solo dei problemi del presente. Non si parla di futuro, in Italia. Chi parla del futuro del lavoro, di quale futuro daremo ai nostri giovani tra vent’anni? Penso che dovremmo creare un Ministero del Futuro».

Lei si candiderebbe come ministro?
«No, guardi, sarei un pessimo politico. Cerco di fare bene l’industria e già questo è un mestiere impegnativo».

Il conflitto in Ucraina ha determinato un cambio di approccio da parte dei Paesi europei rispetto alla politica energetica, facendo emergere l’importanza cruciale dell’indipendenza da Paesi competitor dal punto di vista geopolitico. Prima della guerra in Ucraina, era stata la pandemia di Covid a sconvolgere le catene di fornitura globali. Da allora si è innescato un processo di de-globalizzazione che arriva fino al protezionismo promosso oggi da Trump. L’Unione europea, tuttavia, ha tradizionalmente puntato sul multilateralismo e sul libero mercato: ritiene che questa strategia debba essere aggiornata alla luce del nuovo frammentato assetto geopolitico mondiale?
«Guardiamo innanzitutto all’interesse dell’Italia. Noi siamo un Paese fortemente esportatore: nel 2024 siamo stati tra i primi quattro Paesi al mondo per export. Basta questo per capire che la de-globalizzazione e la chiusura dei mercati non sono nel nostro interesse nazionale. Sarebbe la nostra fine. È un po’ quel che sta avvenendo in Germania con l’automotive, che vive una pesantissima crisi perché sul mercato cinese si vendono sempre meno auto tedesche A tal riguardo mi chiedo perché i tedeschi non guardino al mercato africano: in Nigeria fra qualche anno avremo mega-città da decine di milioni di  abitanti. Il nostro interesse nazionale è avere buoni rapporti con tutti: con gli Stati Uniti, con la Cina, con i Paesi africani. Siamo un Paese piccolo: dobbiamo avere quella neutralità strategica necessaria per poter operare in tutti i mercati».

Mi dica tre azioni prioritarie che suggerirebbe ai governi europei.
«Primo: una politica comune, o quantomeno coordinata, sulle priorità industriali, dall’acciaio all’automotive, dalla chimica alla farmaceutica, dando strumenti all’industria per diventare più grandi e più forti come europei. Secondo: una nuova strategia europea su materie critiche, petrolio e gas, che guardi all’Ambiente ma anche all’autonomia strategica. Terzo: formazione, competenze, risorse, una politica del lavoro e della formazione sia interna sia esterna».

L’Intelligenza artificiale va vista come un’opportunità o una minaccia?
«Se in Europa la consideriamo come una minaccia e ci occupiamo solo di regolamentarla, la subiremo, come stiamo subendo oggi sui fronti dell’auto elettrica e delle materie critiche. Va bene la regolamentazione, ma dovremmo iniziare ad avere una visione industriale sull’Intelligenza artificiale puntando a creare dei campioni europei in quel settore».

Pensa che l’Ue dovrebbe promuovere una valuta digitale europea?
«Le valute digitali sono ormai molto diffuse nel mondo e non c’è un leader europeo nel settore. Avere player europei anche in questo settore può aiutare a ricreare quelle condizioni di leadership o semi-leadership che dobbiamo riguadagnarci».

L’Intelligenza artificiale e l’elettrificazione di vari ambiti, primo fra tutti la mobilità su strada, determineranno nei prossimi anni un esponenziale aumento della domanda energetica, in particolare di quella elettrica. È realistico pensare che le rinnovabili possano arrivare a sostenere da sole l’economia mondiale del futuro? Come immagina il settore energetico mondiale del 2050?
«Nel 2050 le rinnovabili saranno una parte importante del mix energetico. Avremo bisogno di reti elettriche nuove, di batterie e probabilmente anche di una fonte di energia che possa modulare l’energia intermittente delle rinnovabili. Le rinnovabili quindi saranno una parte importante ma non esaustiva».

Il nuovo nucleare può essere una strada?
«Nel campo del nucleare ci sono varie tecnologie in via di sviluppo, anche se con un orizzonte temporale che non è breve ma è piuttosto di medio e lungo periodo. Particolarmente interessante è la ricerca che si sta facendo sulla fusione, che peraltro vede l’Italia tra i Paesi più impegnati. Non dico a priori di no, ma deve essere un nucleare pulito e sicuro, che possa poi creare una filiera industriale europea ed italiana».

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