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Esclusivo TPI – L’inferno del Libano raccontato da chi fugge dalle bombe di Israele

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

Doha ha 27 anni ed è nata sotto i bombardamenti di Tel Aviv. Hajja ne ha 64 e ha dovuto abbandonare tutto per l’ennesima volta. Ibrahim invece è rimasto separato dai suoi cari. A causa dei raid israeliani, i civili sono senza servizi medici, cibo e acqua. Ecco le loro storie

Negli ultimi mesi, il Libano è tornato a vivere un incubo che sembrava relegato al passato: la guerra. L’intensificarsi delle operazioni militari da parte di Israele ha trasformato intere aree in teatri di conflitto, lasciando dietro di sé una scia di morte e distruzione.
Le conseguenze di questa escalation sono drammatiche: migliaia di morti, una crisi umanitaria crescente e milioni di sfollati che fuggono dalle zone colpite da Israele. La popolazione civile, già provata da anni di instabilità, si trova ora in una situazione disperata, affrontando non solo la minaccia dei bombardamenti, ma anche la scarsità di cibo, acqua e assistenza medica.

Allerta costante
Doha, una ragazza di 27 anni originaria di Tiro, coordina i progetti sociali presso l’ambasciata giapponese di Beirut. «Siamo abituati alla guerra, sono nata durante un conflitto. Israele ci colpisce da sempre», racconta a TPI. In questi giorni di violenza, i libanesi vivono in uno stato di allerta costante: «Abbiamo sempre una valigia pronta vicino alla porta con le cose più importanti. In qualsiasi momento potrebbe arrivare una chiamata dai soldati israeliani che ci intimano di sgombrare le nostre case perché bombarderanno», aggiunge Doha.
La paura è palpabile e le notti sono una prova di resistenza: «Non riusciamo a dormire. Gli aerei israeliani sono costantemente in volo, rompono la barriera del suono e ci ricordano la precarietà della nostra situazione. Sappiamo che dobbiamo stare lontani dalle finestre perché il “boom sonico” potrebbe frantumare i vetri sulle nostre teste, è già successo», prosegue. «Cercare di mantenere la calma diventa sempre più difficile mentre il rumore ci rimbomba nelle orecchie».

L’autogestione degli aiuti
Le famiglie di Tiro, della Valle della Beqaa e di Dahieh, a sud di Beirut, sono letteralmente in fuga dagli attacchi israeliani, trascinate dalla paura. Molti sfollati vivono ora in scuole o in abitazioni condivise, privi di beni di prima necessità. La scarsità di cibo e acqua potabile si fa sentire, mentre l’accesso ai servizi sanitari è estremamente limitato. Le organizzazioni internazionali non riescono a fronteggiare tempestivamente questi bisogni.
«Attualmente, non esiste un piano d’emergenza tempestivo per affrontare i danni causati dalla guerra», racconta Doha. «L’unica risposta concreta proviene da iniziative promosse da giovani ragazzi e ragazze del Libano. Le ong non si sono dimostrate pronte a rispondere in modo efficace alla crisi, ostacolate da una burocrazia che rallenta l’erogazione degli aiuti umanitari. Siamo stati noi giovani a organizzare raccolte fondi per dare una risposta immediata e concreta alla situazione. Gran parte degli sforzi per sostenere gli sfollati proviene, infatti, da iniziative private e dal coinvolgimento di giovani volontari. Abbiamo avviato un crowdfunding che ci permette di fornire cibo quotidianamente agli sfollati, che si trovano rifugiati nelle scuole o accolti da famiglie. Personalmente, ho in casa tre persone costrette a lasciare le loro abitazioni nella periferia di Beirut. È fondamentale che agiamo ora, poiché il bisogno di aiuto è urgente e non possiamo restare a guardare».

Fronte sud
L’esercito israeliano ha ordinato ai residenti dei vari villaggi del sud del Libano di lasciare le proprie abitazioni. Hajja Karima, un’insegnante di 64 anni di Tiro, ha vissuto in prima persona le numerose invasioni israeliane che hanno segnato la storia del Libano. Il suo racconto è quello di una vita segnata dalle violenze e dalle devastazioni dell’occupazione, è il racconto di un popolo che è costretto a fuggire dalla propria terra per proteggere i propri cari. Una testimonianza che rivela non solo la brutalità dell’occupazione, ma anche la determinazione di fronteggiare l’oppressione.
«Dai primi giorni di questa nuova guerra, io e tutta la mia famiglia, ci siamo trasferiti da Tiro alle montagne del Shouf, lasciando tutto ciò che avevamo, abbandonando la casa a cui eravamo tanto legati. In nessun luogo ci si può sentire al sicuro da Israele. Non volevo lasciare la mia casa, la mia città, ma l’ho fatto per i miei figli. Ho scelto di allontanarmi per proteggerli, mentre avrei dovuto morire lì, perché quella è la mia terra e la terra dei miei antenati. Israele ci colpisce costantemente, anche prima di questa guerra», racconta a TPI.
«Nel 1982, quando hanno invaso e occupato il sud del Libano, ero solo una ragazza. Ricordo ancora la resistenza, il coraggio di coloro che non si sono arresi. Mi ricordo di aver imparato a guidare per portare cibo alle famiglie le cui case erano state bombardate. Prima della loro invasione ufficiale nel 1982, Israele bombardava ciclicamente le nostre terre, perpetrando massacri e distruzioni», aggiunge Hajja. «Ricordo che arrivarono a colpire persino l’aeroporto di Beirut. Israele ci ha occupati fino al 2000, per diciotto lunghi anni di occupazione feroce. Ho dovuto fuggire più volte per evitare la leva militare, che colpiva anche le donne libanesi».
Nella narrazione di un passato segnato da cicli di violenza e oppressione, si staglia la figura di Hezbollah, nata come risposta alla brutalità dell’occupazione israeliana e diventata simbolo di resistenza e difesa per almeno una parte del popolo libanese. «Sapete quando è nato Hezbollah? Quattro anni dopo l’occupazione del sud del Libano. Se Israele non ci avesse invasi, Hezbollah non sarebbe mai esistito. E se non fosse stato per Hezbollah, il Libano sarebbe ancora sotto occupazione israeliana. Nel 2000, stremato dal conflitto con i combattenti di Hezbollah, Israele si è ritirato lentamente dal sud e noi siamo tornati liberi. Tuttavia nel 2006 abbiamo affrontato un’altra invasione. Ci siamo uniti e, in 48 giorni, siamo riusciti a respingerli», prosegue.
Emerge chiaramente dai racconti di chi, come Hajja Karima, ha vissuto e vive la guerra, la consapevolezza che la pace in Medio Oriente rimarrà un miraggio finché l’occupazione e la prepotenza continuerà a minare la dignità e la sicurezza dei popoli della regione. «Chiediamo solo giustizia e libertà. Non ci sarà mai pace in Medio Oriente finché Israele continuerà con questa politica di occupazione e prepotenza nei confronti dei vicini arabi», conclude.

Incubo capitale
Hanin, invece, è una giovane giornalista e videoreporter libanese originaria di Jbeil, che porta avanti il suo impegno giornalistico in un contesto di pericolo costante: «Attualmente vivo e lavoro a Beirut, ma la mia famiglia è originaria di Jbeil, una città a nord della capitale. Sono profondamente preoccupata per la loro sicurezza, soprattutto in questo momento», spiega a TPI. «L’altro giorno è stato bombardato un piccolo centro cristiano nei pressi di Batroun, non lontano da Jbeil, e questo ha aumentato notevolmente il mio timore. La situazione è estremamente incerta e non posso fare a meno di preoccuparmi per il benessere dei miei cari».
L’esperienza di rimanere bloccata tra i bombardamenti, testimonia la brutalità e la devastazione che si abbattono sui civili innocenti in una spirale di violenza inarrestabile. Le immagini crude e indimenticabili di decine di vite spezzate, rimangono impresse nella memoria di Hanin, testimoniando la crudeltà della guerra e la mancanza di distinzione tra bersagli militari e civili. Nella sua testimonianza, Hanin sfida la narrazione distorta e fuorviante che cerca di giustificare attacchi indiscriminati e violenze ingiustificate e rivela la verità cruda di una popolazione civile presa di mira in modo casuale e spietato.

«Un giorno, durante una serie di intensi bombardamenti, mi trovavo proprio lì. Stavo tornando da un servizio giornalistico dal Shouf e mi sono ritrovata bloccata in mezzo a quella devastazione. Ho visto decine e decine di civili morti, abbandonati a terra. Quelle immagini mi perseguiteranno per sempre», ricorda. «La narrazione secondo cui i combattenti di Hezbollah si nasconderebbero tra i civili è completamente errata e rappresenta solo un pretesto per giustificare la nostra morte. Hezbollah è posizionato lungo i confini con Israele, dove combatte direttamente. Non è tra la popolazione civile. Ho visto con i miei occhi che gli attacchi israeliani sono del tutto casuali: bombardano a destra e a sinistra, senza fare distinzione. Non c’è alcun criterio, solo una furia distruttiva che colpisce indiscriminatamente».

La dignità strappata via
Ibrahim, 33 anni, laureato in giurisprudenza, si ritrova oggi come un “project manager” disoccupato a causa del caos e dell’instabilità che dilaniano il Libano. Originario di Dahieh, alla periferia sud di Beirut, Ibrahim è uno dei tanti sfollati costretti a fuggire dalla propria casa in cerca di un rifugio sicuro. Attualmente ospitato da un’amica generosa che ha aperto le porte non solo a lui, ma anche ad altre anime in fuga.«Vivevo a Dahieh mentre la mia famiglia viveva nella Valle della Beqaa: siamo originari di lì», racconta a TPI. «Quando hanno bombardato entrambe le zone, ci siamo ritrovati per strada senza rifugio, dispersi e spinti a fuggire in cerca di sicurezza. Mio padre è da una parte, mio fratello da un’altra e mia madre altrove con due dei miei fratelli. La guerra ci ha separati».
Ibrahim ci offre uno sguardo intimo e toccante sull’esperienza dello sfollamento, un viaggio forzato che non solo strappa la sicurezza di un luogo, ma anche la dignità e il senso di appartenenza. Le parole di chi ha vissuto questa realtà ci invitano a riflettere sul dolore della perdita, sull’incertezza del futuro e sulla speranza di poter un giorno ritornare a casa, nonostante le ferite inflitte dalla guerra.
«Lo sfollamento è un’esperienza che ti strappa la dignità e ti priva di tutto», ci spiega. «Non so se la mia casa sia ancora in piedi o se sia stata distrutta dagli orrori dei bombardamenti. Ho sentito dire che la zona in cui abitavo è stata colpita, ma alcune abitazioni sono rimaste in piedi. La sensazione di non possedere più nulla è lancinante e dolorosa. Non desidero altro che poter tornare indietro, ma la realtà crudele della guerra mi ha costretto a lasciare tutto alle spalle».
Nonostante le avversità e la sofferenza, Ibrahim come gli altri, non ha alcuna intenzione di abbandonare il Libano: «Ho dedicato anni di studio alla giurisprudenza con il chiaro obiettivo di essere di aiuto a chi è meno fortunato. Noi libanesi abbiamo una forza incredibile; continuiamo a vivere», afferma, descrivendo così il suo quotidiano: «Dopo le distribuzioni di cibo e i soccorsi, la sera vado in palestra. Fino a quando non ci bombarderanno anche lì o al caffè dove ci riuniamo, continueremo a vivere. Non vogliamo perdere l’amore per la vita».

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