Arresti e censura: in Turchia i giornali non possono criticare i raid di Erdogan contro i curdi
Ankara precipita nelle classifiche sulla libertà di informazione e sul livello di democrazia
Turchia, con Erdogan la democrazia muore: vietato criticare i raid anti-curdi
L’ultimo, in ordine di tempo, si chiama Hakan Demir. Direttore del quotidiano di sinistra BirGun, è stato preso in custodia dalle forze di sicurezza turche per un tweet del suo giornale in cui vi era scritto che, nell’offensiva di Ankara nel nord della Siria, oltre ai terroristi erano stati colpiti anche civili curdi. Subito prima di Demir era toccato a Fatih Gökhan Diler, direttore del sito web Diken, colpevole di aver riportato una dichiarazione del portavoce delle Forze democratice siriane (SDF), la coalizione di milizie messe nel mirino dalla Turchia. Ma la lista di giornalisti finiti nei guai in Turchia per aver raccontato una realtà diversa da quella proposta dal governo di Ankara e dal suo presidente, il leader del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) Recep Tayyip Erdogan, è lunga.
Centinaia di nomi, come quello di Ahmet Altan, condannato all’ergastolo a febbraio del 2018 durante le purghe di Ankara dopo il tentato colpo di stato del 15 luglio del 2016; o quelli di Can Dundar ed Erdem Gul, firme del giornale laico Cumhuriyet, finite dietro le sbarre ancora prima, nel 2015.
“In Turchia la democrazia è tenuta in vita artificialmente, se non è già morta, e chiunque ne parla si ritrova in carcere”, ha scritto sul Boston Globe il turco Enes Kanter, che non è né un politico né un giornalista, bensì un giocatore di basket. Campione dei Boston Celtics, dagli Stati Uniti porta avanti una forma di resistenza contro Erdogan, il presidente che lui non esita a chiamare “dittatore”.
La “Fonte di pace” costata il carcere a 120 persone
A poche ore dal lancio dell’offensiva militare in Siria, avvenuto mercoledì 9 ottobre, 121 persone sono state arrestate nel paese con l’accusa di aver pubblicato sui social network messaggi critici nei confronti dell’operazione dell’esercito, la cosiddetta “Fonte di pace”. Cinquecento in totale, come confermato dal ministro dell’Interno Suleyman Soylu, sono indagate per aver definito la Turchia “un invasore” o per aver insultato a vario titolo la missione.
Non solo: il Committee to protect journalist (CPJ) ha svelato come, il 10 ottobre, la Procura di Istanbul abbia pubblicato una nota con la quale vieta le notizie di cronaca e i commenti su quanto accade in Siria: “Chiunque prenda di mira la pace sociale in Turchia, l’unità e la sicurezza” con “qualsiasi tipo di notizia suggestiva, pubblicazione o trasmissione scritta o visiva” o tramite “account di social media” sarà perseguito secondo il codice penale turco e la legge antiterrorismo.
Ranking democrazia: la Turchia è un “regime ibrido”
Che la democrazia, in Turchia, sia in pericolo lo certificano i dati. Quelli dell’Economist Intelligence Unit, ad esempio, che nel rapporto sull’Indice di democrazia nel 2018 ha collocato Ankara dieci posizioni più indietro dell’anno precedente, piazzandola al centodecimo posto (su 167) del ranking globale, dietro a Nigeria e Palestina e appena davanti a Gambia e Iraq.
La classifica, stilata sulla base di cinque indicatori (pluralismo e processi elettorali; libertà civili; funzionamento del governo; partecipazione politica; cultura politica), suddivide i paesi del mondo in quattro macro categorie: la Turchia finisce nel novero dei “regimi ibridi”, cioè né “democrazie piene” né “democrazie imperfette”, appena un gradino sopra ai “regimi autoritari”.
Tra le ragioni, “il passaggio a un sistema presidenziale di governo che conferisce poteri esecutivi di ampio respiro e indebolisce notevolmente il parlamento” (frutto del referendum del 2017) e le elezioni dell’anno successivo svolte “in uno stato di emergenza” e con “scarsa copertura mediatica garantita ai partiti di opposizione”.
I dati di Reporter senza frontiere (RSF), l’Ong francese che difende la libertà d’informazione, dipingono un quadro preoccupante: la Turchia è al 157esimo posto del World Press Freedom Index del 2019 (su 180 paesi), lo stesso dell’anno precedente, e fa peggio anche di Messico, Bielorussia e Ruanda. “La caccia alle streghe è arrivata al suo culmine dopo il golpe del 2016 – scrive RSF – La Turchia è il più grande carceriere mondiale di giornalisti”, un paese dove “trascorrere più di un anno in prigione prima del processo è diventata la norma”.
Dietro le sbarre, stando ai dati del CPJ, nel 2018 ci sono finiti 68 cronisti; due anni prima, nell’anno clou delle purghe contro i presunti gulenisti (i seguaci del predicatore Fethullah Gülen, che Ankara considera responsabile del tentato golpe), erano stati 86. Anche su base storica i numeri confermano la stretta di Ankara: il numero di giornalisti arrestati è cresciuto in maniera pressoché continua dal 2004 (l’anno successivo all’elezione di Erdogan come primo ministro), mentre nei dieci anni precedenti il dato era diminuito in maniera altrettanto costante.