Erdogan può essere reazionario quanto vuole, ma così non fermerà mai la violenza in Turchia
Bianca Benvenuti spiega su TPI il clima d'insicurezza in cui versa il paese, tra il partito di governo Apk, il Pkk, l'organizzazione del terrore gulenista e l'Isis
Sono 41 in totale le vittime della duplice esplosione avvenuta nei pressi della Vodafone Arena di Istanbul, al termine della partita tra il Besiktas e il Bursaspor, nella serata di sabato 10 dicembre 2016 (qui un riassunto).
L’attacco aveva come obiettivo principale le forze di polizia, schierate per garantire l’ordine alla fine dell’incontro sportivo. Più di 30 poliziotti sono rimasti uccisi, mentre sono 7 le vittime accertate tra i civili, sebbene non siano ancora state divulgate le loro identità.
Un attacco nel cuore di Istanbul
A poche ore dall’attacco, non tardano ad arrivare le prime accuse. Il primo ministro Binali Yildirim punta da subito il dito contro il Pkk.
“La mia gente non deve aver dubbi circa il fatto che porteremo avanti la battaglia contro il terrore fino alla fine”, dichiara il presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan, prima di proclamare un giorno di lutto nazionale per i martiri dello stadio del Besiktas.
L’attacco di sabato è solo l’ultimo in una triste lista: sono 372 le vittime e 1837 i feriti dei 17 attacchi avvenuti in Turchia nell’ultimo anno e mezzo. Questa conta non include le conseguenze altrettanto severe della guerra aperta in corso nel sudest della Turchia, tra i guerriglieri del Partito del lavoratori del Kurdistan (Pkk) e Ankara.
Il governo incolpa tre organizzazioni dell’insicurezza del paese: l’Isis, il Pkk e quella che è dispregiativamente chiamata organizzazione del “terrore gulenista”, accusata di aver orchestrato il tentativo di colpo di stato del 15 luglio 2016.
Nel caos in cui versa la Turchia, è difficile determinare quale dei tre gruppi e quale rivendicazione si celi dietro questi attacchi. Lo stesso Erdogan ha dichiarato che a questo punto non è più nell’interesse di Ankara determinarne i fautori. I tre sono gruppi terroristici che minano la stabilità della repubblica turca e come tali vanno eliminati.
Con il dichiarato obiettivo di evitare il panico di massa, il governo ha anche emanato un bando alle trasmissioni (per non dire censura) che scatta automaticamente per televisioni, radio e stampa a seguito di ogni evento marcato come attacco terroristico.
La narrazione degli attentati è completamente in mano al governo, ossia al Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp), che ricorre a una retorica scandita dal frequente uso di termini come martire e vendetta. Nel paese monta una comprensibile paura, accompagnata dalla crescente rabbia, a cui l’Akp promette di dare una risposta. Nel frattempo, è in parte proprio l’uso di questa retorica ad aumentare la polarizzazione non solo tra le forze politiche, ma anche nella società turca.
Chi c’è dietro l’attacco di sabato 10 dicembre 2016
L’attentato di sabato è stato presto rivendicato da i Falchi del Kurdistan (Tak), un gruppo armato fuoriuscito dal Pkk nei primi anni 2000 per la sua linea di non scendere a compromessi con lo stato centrale. Malgrado lo stesso Tak dichiari di non aver legami diretti con il Pkk, per il governo non ci sono differenze tra le due organizzazioni.
Questo attacco si colloca in un continuum di violenza, ricominciata nel luglio 2015 con la fine del cessate del fuoco tra Ankara e il Pkk e il conseguente naufragio dei trattati di pace, che avevano fatto per la prima volta sperare in una risoluzione pacifica della questione curda in Turchia.
Negli ultimi mesi, l’Akp ha avuto una linea molto dura anche nei confronti del partito filocurdo in parlamento. Dopo l’arresto dei suoi coleader Selahattin Demirtaş e Figen Yuksekdag a inizio novembre, a seguito dell’attacco contro lo stadio del Besiktas altri 118 membri del Partito Democratico del Popolo (Hdp) sono stati arrestati con l’accusa di propaganda e legami con il Pkk.
L’attentato di sabato conferma una tendenza storica nella lotta armata del Pkk contro il governo centrale. La radicalizzazione della violenza di Ankara, unita alla delegittimazione della componente politica del movimento curdo, determina inevitabilmente una speculare radicalizzazione delle componenti più intransigenti della resistenza curda.
Per questa ragione, la linea del governo dell’Akp di fare “di tutti i terroristi un fascio” può aver facile presa su una popolazione frustrata dalla crescente instabilità interna, ma difficilmente riuscirà a fermare la spirale di violenza nel paese.
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* A cura di Bianca Benvenuti, collaboratrice dell’Istituto Affari Internazionali