Vi racconto la mia prigionia nelle carceri turche per un tweet contro Erdogan
L'attivista e giornalista turco Kazim Kizil ha trascorso 85 giorni nel carcere turco di Menemen per aver incitato l'odio popolare contro Erdogan tramite un tweet. A TPI ha raccontato la sua storia
Kazim Kizil è un attivista e giornalista indipendente turco che il 17 aprile scorso è stato arrestato dalla polizia turca a Smirne, mentre riprendeva le proteste popolari sorte in seguito all’esito del referendum che ha sancito la vittoria del presidente Recep Tayyip Erdogan.
Il sì alla riforma ha trasformato la Turchia da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale.
L’attivista è stato accusato di aver violato le leggi insultando il presidente, incitando l’odio popolare tramite un tweet : “Il nostro popolo, con questo risultato, si dirige verso le strade :))” e ha così trascorso 85 giorni nelle carceri turche fino al 10 luglio quando è stato scarcerato.
A TPI ha raccontato la sua storia e i suoi mesi di prigionia in una delle peggiori carceri del sistema penitenziario turco, quella del Tipo-T, situata a Menemen, un quartiere di Smirne.
Ho trascorso 85 giorni in totale; 4 giorni in custodia cautelare, 2 giorni in isolamento e 79 giorni in reparto.
Sono stato incarcerato nella prigione di Menemen, Tipo-T.
Quando sono stato preso in custodia mi sono state mosse due accuse: la prima è quella di essermi opposto alle legge 2911 sulle dimostrazioni pubbliche organizzate, l’altra è quella di aver incitato le persone all’ostilità, alimentando l’odio popolare contro il governo.
La seconda accusa si è poi trasformata in: insulto al presidente Erdogan. Il procuratore ha voluto il mio arresto per questo motivo. Nonostante mi fosse stata notificata questa nuova accusa non mi è stato illustrato quale sia stato il mio comportamento che ha portato alla formulazione dell’accusa, né le mie dichiarazioni in merito sono state annotate.
In questo modo mi è stato negato il diritto a un processo equo e giusto e alla difesa.
Solo al mio 65esimo giorno di carcere mi è stato detto di essere stato giudicato a causa dei miei tweet su Twitter.
Il mio reparto era progettato per ospitare 10 persone ma ben presto il numero dei detenuti ha raggiunto quota 14 con delle cuccette aggiuntive. Poi siamo arrivati a 20 e alcuni di noi, me compreso, hanno finito per dormire sul pavimento. Vivere con 20 detenuti in uno spazio pensato per 10 persone mi ha causato molte difficoltà fisiche e psicologiche.
Le condizioni igieniche erano precarie: mancava acqua pulita e il cibo era poco e di pessima qualità, molto lontano dai minimi standard previsti per i detenuti. Anche l’accesso alla salute era ostacolato: si poteva andare dal medico ogni due settimane e in condizioni di emergenza il suo intervento arrivava tardi o non avveniva affatto.
Alcune guardie carcerarie hanno avuto un comportamento repressivo e provocatorio. Ogni volta che è stato possibile hanno cercato di mettermi in difficoltà psicologica e fisica. Anche il direttore del carcere ha avuto un comportamento simile. Tuttavia queste pressioni sono notevolmente diminuite grazie al sostegno delle persone che hanno seguito la mia vicenda dall’esterno e grazie all’influenza dei deputati di opposizione e degli avvocati che mi hanno fatto visita.
Ho avuto invece un ottimo rapporto con i miei concellini che mi hanno dimostrato solidarietà fin da quando sono entrato.
L’unica cosa a cui pensavo era come sopravvivere in quel posto con il minor danno possibile per la mia testa e il mio corpo. Se mi fossi ammalato sarebbe stato un problema. Per superare la pressione ho cercato di non stare mai inattivo: ho letto e scritto appena possibile. Ho cercato di mantenere i contatti con l’esterno.
Oltre questo ho cercato di non farmi condizionare dal tempo che trascorrevo lì dentro maturando irrealistiche speranze di uscire.
Pensavo a quando sarei stato fuori e avrei ripreso a fare documentari e video con la mia macchina fotografica.
A partire dal 17 luglio, stando ai numeri forniti dall’Unione dei giornalisti della Turchia, sono 157 i giornalisti in carcere. Pochi giorni fa ne è stato arrestato un altro.
Negli ultimi anni in Turchia i diritti umani sono quasi un’utopia. Soprattutto dopo la dichiarazione dello stato di emergenza, anche i diritti umani fondamentali sono stati sospesi. Giornalisti, accademici, artisti e in generale diversi settori della società sono sotto pressione. Migliaia di persone sono licenziate senza motivazioni, prese in custodia arbitraria, arrestate e messe in prigione.
Purtroppo in tutto il paese domina un terribile clima di paura.
Non sono mai stato un pessimista. Tuttavia, non vivo di illusioni. Quando penso alla situazione attuale credo che non sarà sostenibile a lungo, soprattutto quando i diritti umani vengono calpestati in questo modo.
Ci sarà sempre resistenza dove c’è oppressione.
Anche se non succederà nel breve termine, la situazione in Turchia migliorerà.
Parliamo di un concetto molto profondo e filosofico.
Un buon esempio può essere rappresentato da quanto ho vissuto in carcere. Come sapete, le prigioni sono luoghi molto angusti dove per trascorrere il tempo si fa anche un po’ di allentamento. La distanza massima che si può compiere è di dieci passi, poi c’è il muro e bisogna tornare indietro: il tempo passa facendo avanti e indietro in questo modo.
Ecco, per me la libertà è andare oltre quei 10 passi. Naturalmente “fare un passo” per me ha un significato maggiore di una semplicità attività fisica.