L’accordo tra Emirati Arabi e Israele non cambia nulla per i palestinesi: ecco a chi fa comodo davvero
L’intesa, spacciata per un accordo di pace, ha molto più a che fare con i conflitti in corso in Medio Oriente, nel Mediterraneo orientale e nel Golfo che con la questione palestinese
La normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e gli Emirati Arabi, mediata dagli Stati Uniti e annunciata dal presidente Donald Trump, si inserisce nel più ampio quadro dei conflitti asimmetrici in Medio Oriente e ha forse più a che fare con gli interessi strategici delle potenze regionali che con la questione palestinese.
Se infatti l’accordo prevede il solo congelamento delle annessioni dei territori occupati previste nell’ambito del piano di pace statunitense, l’intesa assume maggior valore sullo scenario mediorientale, del Mediterraneo e delle dispute interne al Consiglio di Cooperazione del Golfo e rappresenta un punto a favore di Trump da sfruttare nella campagna elettorale per le presidenziali, più che sul piano del conflitto israelo-palestinese, tanto da essere rigettato dai principali movimenti come Fatah e Hamas.
Una lunga strada verso la normalizzazione
Il percorso verso la normalizzazione dei rapporti israelo-emiratini, frutto di due mesi di negoziati anche diretti, è in realtà cominciato ormai diversi anni fa, con il progressivo aumento della cooperazione economica e in materia di sicurezza tra i due Paesi. Cinque anni fa, Tel Aviv è arrivata persino ad aprire una missione diplomatica israeliana ad Abu Dhabi, ospitata nella sede dell’International Renewable Energy Agency (IRENA), insieme a un ufficio commerciale a Dubai.
Se le voci di contatti bilaterali informali, avvenuti soprattutto negli Stati Uniti, si sono susseguite per anni, i segnali arrivati negli ultimi mesi, alla luce dell’attuale accordo, segnano un itinerario dall’esito inequivocabile. I funzionari del Paese arabo si rivolgono infatti ormai regolarmente in modo diretto al pubblico israeliano. Lo scorso settembre, il ministro emiratino degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Abdullah bin Zayed, ha twittato “Shana Tovah” durante il capodanno ebraico, e a gennaio ha condannato in arabo l’Olocausto, sempre su Twitter.
A maggio, la compagnia aerea Etihad Airways ha effettuato il primo volo commerciale diretto da Abu Dhabi a Tel Aviv per fornire aiuti ai palestinesi affetti dal coronavirus, un ambito in cui Israele ed Emirati Arabi hanno anche annunciato una solida collaborazione. Inoltre, il 13 giugno l’ambasciatore degli Emirati Arabi negli Stati Uniti, Yousef al-Otaiba, ha firmato un articolo pubblicato in ebraico sul quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, in cui si rivolgeva direttamente al pubblico, ammonendolo sui rischi di un’annessione territoriale unilaterale e sulle sue implicazioni nel mettere a repentaglio le relazioni con il mondo arabo.
All’editoriale seguì poi una dichiarazione scritta in ebraico dalla direttrice per le comunicazioni del ministero degli Esteri emiratino, Hend al-Otaiba, che chiedeva al pubblico israeliano di ripensare i piani di annessione. Proprio la funzionaria emiratina annunciò due settimane dopo su Twitter un “accordo tra due società private negli Emirati Arabi Uniti con due aziende in Israele per sviluppare una tecnologia di ricerca per contrastare la COVID-19″. Infine, il mese scorso il ministro di Stato per gli Affari Esteri degli Emirati Arabi, Anwar Gargash, si è rivolto alla conferenza annuale del Comitato ebraico americano, dove ha parlato apertamente di una potenziale normalizzazione dei rapporti con Israele.
La politica di Abu Dhabi mira a presentare gli Emirati come un’alternativa ai due Paesi vicini più coinvolti nelle relazioni con Israele, Egitto e Giordania, che nonostante i trattati di pace con lo Stato ebraico non sembrano essere in grado di gestire efficacemente i rapporti con Tel Aviv a nome del mondo arabo, né tanto meno dei palestinesi. Gli ultimi interventi diplomatici e l’accordo stesso pongono non a caso l’accento sul contrasto alle previste annessioni nei territori occupati, una preoccupazione che da parte emiratina riguarda però più il quadro mediorientale che le condizioni dei palestinesi.
Il significato nel quadro del Medio Oriente
Abu Dhabi considera infatti l’eventuale mossa israeliana, per ora soltanto congelata dall’accordo mediato dagli Stati Uniti, come una minaccia agli equilibri regionali e ai propri interessi diretti. In primis, l’annessione danneggerebbe direttamente la Giordania, uno dei più importanti alleati degli Emirati Arabi nella regione, e poi provocherebbe un’obbligata reazione da parte dell’Arabia Saudita, tuttora vero dominus del Golfo e principale sostegno del regime al potere nel vicino Egitto, costringendo il fronte sunnita guidato da Riad a spostare la propria attenzione dalla minaccia iraniana a quella “sionista”, ben più comprensibile per le opinioni pubbliche locali dopo decenni di guerre e propaganda martellante.
Inoltre, una mossa simile offrirebbe argomenti convincenti all’Iran e ai suoi alleati nella regione, aumentando al contempo il ruolo della Turchia, il cui presidente Recep Tayyip Erdogan si presenta da tempo come il “difensore” di Gerusalemme. Non a caso, nel suo messaggio in arabo sul ritorno di Hagia Sofia a luogo di culto islamico, il capo di Stato turco ha definito questo passo come parte del “ripristino della libertà” nella moschea di Al-Aqsa.
L’intesa annunciata da Donald Trump infatti non va soltanto guardata con il prisma del contenimento dell’influenza iraniana in Medio Oriente, un obiettivo che accomuna da anni Tel Aviv e le principali capitali arabe, ma anche nel contesto della competizione nel Mediterraneo e all’interno del mondo sunnita e del Consiglio di Cooperazione del Golfo, che coinvolge in particolare il Qatar e la Turchia, altro attore sempre meno vicino alle posizioni israeliane.
I principali fronti che vedono impegnati gli Emirati Arabi Uniti nella regione, trovano Abu Dhabi sempre più spesso in competizione con Ankara e con il suo principale sponsor, il Qatar. Dalla Libia alla Siria, dal Mediterraneo orientale al Corno d’Africa, i conflitti asimmetrici che contrappongono Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed Egitto contro Qatar e Turchia finiscono infatti per coinvolgere inevitabilmente lo Stato ebraico, oltre che l’Europa.
Da tempo, gli Emirati Arabi stanno infatti ponendo le basi per una maggiore influenza nel Mediterraneo orientale, soprattutto in funzione anti-turca, impegnandosi nei teatri di conflitto e intervenendo nei progetti infrastrutturali ed energetici. Ne sono la prova il sostegno di Abu Dhabi al gasdotto EastMed, che potrebbe danneggiare economicamente il Qatar, così come la partecipazione degli Emirati alle esercitazioni militari annuali guidate dalla Grecia a cui prendono parte anche Italia, Israele, Cipro e Stati Uniti.
A sua volta, il contenimento della Turchia non solo nel Mediterraneo ma anche nel Mar Rosso, accomuna gli interessi di Abu Dhabi a quelli dell’Arabia Saudita, dell’Egitto e del Bahrein, impegnate ormai da oltre tre anni in una disputa irrisolta con il Qatar all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo.
Gli effetti e le cause sulla disputa interna al Golfo
A giugno, il Consiglio ha “celebrato” il terzo anno del boicottaggio diplomatico ed economico contro il Qatar decretato dal “Quartetto” composto da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto, una spaccatura che ha avuto inevitabili conseguenze sulle più ampie relazioni estere dei Paesi coinvolti, comprese quelle con gli Stati Uniti e Israele.
Considerano che tutte le parti hanno cominciato da anni a intrattenere rapporti informali con lo Stato ebraico, la decisione del Qatar di non imitare i propri competitor regionali nel coordinarsi in maniera palese con Israele ha forse accelerato l’accordo con Abu Dhabi.
Sebbene lo Stato ebraico non sia direttamente coinvolto nella disputa, intrattiene separatamente rapporti non trascurabili con ciascun attore. Se negli ultimi anni i legami tra Abu Dhabi, Riad e Tel Aviv si sono ampliati in virtù di una simile visione del contesto strategico regionale, la politica di Israele nei confronti del Qatar è rimasta più ambigua, anche per i legami sempre più stretti tra Doha e Ankara, con un’alternanza di aperture e dichiarazioni poco amichevoli.
Il principale punto di convergenza tra Israele e Qatar riguarda al momento la striscia di Gaza. I due Paesi hanno infatti approfondito in questo senso la cooperazione bilaterale sin dalla crisi del 2014, spinti dall’obiettivo comune di trasferire aiuti umanitari ai palestinesi rimasti bloccati nel territorio costiero, nella speranza da parte dello Stato ebraico che le miserevoli condizioni di vita portino a una rivolta della popolazione contro Hamas. A questo proposito, il direttore del Mossad, Yossi Cohen, ha visitato a febbraio Doha per garantire gli aiuti finanziari a Gaza nei primi giorni della pandemia di coronavirus. Tuttavia, l’interesse di Israele per questa relazione, rimasta molto più sotto traccia rispetto a quella con Abu Dhabi, sembra essere per lo più strumentale.
L’esposizione, anche mediatica, dei rapporti finora informali con gli altri Stati del Golfo potrebbe invece aver accelerato l’accordo mediato dagli Stati Uniti. La potenziale annessione dei territori occupati da parte di Israele avrebbe potuto infatti mettere a repentaglio anni di avvicinamenti tra lo Stato ebraico e i Paesi del Golfo, funzionali agli interessi e alle politiche di tutte le parti coinvolte. Insomma, Abu Dhabi potrebbe essersi mossa anche per evitare di dover interrompere questi contatti, ormai avvenuti sempre più alla luce del sole.
Paradossalmente infatti, la scelta di Doha di non mettere troppo sotto i riflettori i colloqui con gli israeliani avrebbe permesso al Qatar, in caso di una mossa unilaterale da parte dello Stato ebraico, di non interrompere i contatti, a tutto svantaggio dei suoi rivali del Golfo. Inoltre, per quanto riguarda i rapporti “pubblici” tra Tel Aviv e Doha, l’emirato avrebbe sempre potuto nascondersi dietro la necessaria cooperazione per fornire assistenza ai palestinesi di Gaza.
L’accordo rende invece gli Emirati Arabi il primo Stato del Golfo a normalizzare ufficialmente i rapporti con Israele, dando ad Abu Dhabi un vantaggio su tutti gli altri Paesi della regione in termini di collaborazione tecnologica, in particolare nei settori della ricerca, della medicina, del commercio e del turismo, e in materia di sicurezza.
Verso una pace senza giustizia?
Come visto, gli interessi degli Emirati Arabi alla conciliazione con Israele riguardano ben poco la questione palestinese. Non a caso infatti si tratta di un “processo di normalizzazione” e non “di pace”, per il semplice fatto che non c’è mai stata una guerra tra i due Paesi. Se oltre 40 anni fa, dopo diversi conflitti armati, Israele si è riconciliato con il suo principale avversario regionale l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti non erano nemmeno una nazione indipendente quando il vertice della Lega Araba, tenutosi nel 1967 a Khartoum, dichiarò i suoi famosi “Tre no”: “nessuna pace, nessun riconoscimento, nessun negoziato” con lo Stato ebraico.
Forse proprio su questa base, l’élite del Paese è stata in grado di liberarsi dai preconcetti che in passato hanno ostacolato i rapporti del mondo arabo con Israele, non certo però abbracciando un ideale spinta verso la pace e a protezione dei diritti dei palestinesi. La convergenza di interessi tra Abu Dhabi e Tel Aviv, mascherata da tutela dei diritti nei territori occupati e mirante al solo impedimento dell’annessione unilaterale israeliana, serve per lo più le ambizioni regionali degli Emirati Arabi, favorendo al contempo la politica dell’attuale governo dello Stato ebraico, che intende escludere il resto della comunità internazionale dal conflitto con i palestinesi.
Se lasciare la soluzione direttamente alle due parti, come nel caso di altre guerre del secolo scorso, può sembrare la migliore strada da percorrere per la pace, l’attuale squilibrio delle forze e del potere tra Israele e i palestinesi potrebbe prima o poi portare a una conclusione del conflitto, ma quale? L’attuale accordo e intese simili in futuro non favoriscono una soluzione a due Stati con pari dignità. Questo genere di integrazione di Israele in Medio Oriente può forse rappresentare un passo verso la pace, a prezzo di rinfocolare conflitti di più ampia portata, ma non verso la giustizia.