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Home » Esteri

Le elezioni Usa saranno un bivio tra guerra e pace

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Credit: AP

Nella campagna per le presidenziali la politica estera avrà un’importanza centrale. I conflitti in Ucraina e Medio Oriente sono un punto a sfavore per Biden. Che non riesce a farle finire. Trump invece promette che con lui tornerà il sereno. Ma non spiega come ci riuscirà

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, la guerra tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza e il botta e risposta tra lo Stato ebraico e l’Iran: per il Washington Post, segnano «un disperato allineamento tra Russia, Cina, Iran e Corea del Nord», con il minimo comune denominatore politico della ricerca d’un nuovo ordine mondiale alternativo, ma anche con reciproci sostegni militari ed economici.

Pechino, Teheran e Pyongyang non applicano sanzioni contro Mosca. E i droni iraniani lanciati contro Israele sono gli stessi che la Russia ogni notte lancia contro l’Ucraina, che non ha, o non ha più, i mezzi per difendersene, perché Washington da sei mesi non le fornisce armamenti. 

La terrificante successione di eventi drammatici sulla scena internazionale segna – constatiamo – anche un disperato disallineamento nelle scelte di politica estera degli Stati Uniti, che ci avevano invece abituato, almeno fino a otto anni or sono, a scelte bipartisan. 

Per averne l’immagine icastica, basta guardare alla notte tra sabato 13 e domenica 14 aprile, la notte della risposta dell’Iran all’attacco di Israele di due settimane prima sul consolato iraniano a Damasco (14 le vittime, fra cui un generale dei pasdaran). Le centinaia di missili e droni lanciati dalla Repubblica islamica contro lo Stato ebraico vengono quasi tutti intercettati e fanno danni limitati, ma s’abbattono invece sulla campagna elettorale per Usa 2024. 

La notte del raid
Il presidente Joe Biden annulla tutti i programmi del fine settimana e segue in diretta gli eventi che possono incendiare il mondo dalla Situation Room della Casa Bianca: con lui, ci sono il team per la sicurezza nazionale, il segretario di Stato Antony Blinken, il capo del Pentagono Lloyd Austin, i vertici militari; la vice Kamala Harris è collegata in video. 

Invece, l’ex presidente Donald Trump, candidato “in pectore” alla nomination repubblicana, prima scrive sul suo social Truth «Israele è sotto attacco. Con me presidente non sarebbe mai successo», poi fa un discorso a un comizio in Pennsylvania, come da programma, e critica il rivale: «L’attacco dell’Iran contro Israele è segno della debolezza degli Stati Uniti guidati da Biden». Trump, cioè, cerca di trarre vantaggio dalla situazione per mettere in difficoltà il presidente: altro che sostenerlo, nel segno della sicurezza nazionale. 

Eppure, l’ondata di missili e droni iraniani, insolitamente annunciata alla partenza e non a cose fatte dall’agenzia iraniana Irna, tiene il mondo intero con il fiato sospeso e fa schizzare in alto il rischio di un allargamento del conflitto. Missili e droni non partono solo dall’Iran, ma anche da Yemen, Libano, Siria e Iraq, dove operano milizie che rispondono a Teheran. 

Israele ha difese anti-aeree efficaci contro missili e droni – questi ultimi, se lanciati dall’Iran, impiegano ore a giungere sui loro obiettivi e lasciano quindi un tempo di reazione sufficiente –. Ma, nonostante lo Stato ebraico fosse da due settimane in stato d’allarme, c’era l’eventualità che un attacco così massiccio potesse “bucare” le difese. Per questo, Stati Uniti, Regno Unito e Francia contribuiscono a intercettare gli ordigni iraniani. E anche la Giordania protegge il proprio spazio aereo. 

A conti fatti, l’impatto dell’attacco è minimo. «Li abbiamo respinti: insieme vinceremo», commenta il premier israeliano Benjamin Netanyahu. 

Biden, nonostante i loro rapporti siano pessimi, gli telefona: i due parlano 25 minuti. Il presidente manifesta l’incrollabile sostegno degli Usa a Israele, ma avverte il premier di non essere favorevole a un contrattacco contro Teheran: se ci fosse, Israele non potrebbe contare sul supporto diplomatico e militare americano. 

Visioni opposte
Nella campagna elettorale per Usa 2024 le guerre in Ucraina e in Medio Oriente sono due handicap per Biden, che non riesce a farle finire, e dei bonus per Trump, che promette di farle finire, senza mai dire come, e che millanta che con lui non sarebbero mai cominciate, senza mai spiegare perché.

Più di altre volte, in Usa 2024 c’è spazio per la politica estera. Biden punta sul sostegno a Kiev, per cui i repubblicani gli negano gli aiuti, e critica – fin qui sterilmente – Israele per le stragi di civili a Gaza. Il presidente sconta una certa stanchezza dell’opinione pubblica sull’Ucraina e la delusione di arabo-americani e giovani sul Medio Oriente. 

Trump dice che la guerra in Ucraina finirà il giorno dopo che sarà presidente, mentre l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza e contro l’Iran ha il suo pieno avallo. A Mosca, Vladimir Putin, che ha appena avuto l’ennesimo mandato presidenziale, e a Gerusalemme Benjamin Netanyahu lo aspettano come una manna. Invece, l’Europa ne teme il ritorno: al Trump 2, che nega l’aiuto agli alleati “morosi”, la Nato potrebbe non sopravvivere. 

Dopo averlo intervistato, nella sua nuova veste giornalistica, Nigel Farage, il padre della Brexit, trumpiano convinto, dice che l’ex presidente «odia l’Ue così tanto da farmi apparire un “eurofilo”» e ne predice la vittoria: «Sarà una grande cosa». 

La tela del tycoon
A Bruxelles, sponda Nato e sponda Ue, non la pensano così. Ma c’è chi fa il doppio gioco: Trump, di questi tempi, chiama a raccolta amici e alleati. Riceve nella sua dimora di Mar-a-lago in Florida Viktor Orban, premier ungherese, un guastafeste nell’Unione, e il figlio del suo emulo brasiliano Jair Messias Bolsonaro (il padre, cui è stato sequestrato il passaporto, non può uscire dal Paese); chiama al telefono l’uomo forte saudita, il principe ereditario Mohammed bin Salman; ha come emissario in Europa alle convention dei conservatori il suo ex guru Steven Bannon. 

Ci si lamenta, a ragione, delle ingerenze russe e cinesi nelle campagne elettorali occidentali, europee o americane, ma pure diplomazie sperimentate non si peritano di ingerenze: il ministro degli Esteri, ed ex premier, britannico David Cameroin fa tappa a Mar-a-lago prima di incontrare a Washington il segretario di Stato Usa Blinken.

Ufficialmente, la missione di Cameron vuole fornire sostegno al presidente Volodymyr Zelensky, che ripete che il suo Paese perderà la guerra con la Russia, se gli Stati Uniti non torneranno a dare aiuti all’Ucraina (attualmente i repubblicani li bloccano in Congresso). Cameron, un conservatore, che politicamente sta con i repubblicani, vorrebbe indurli ad approvare un pacchetto da 60 miliardi di dollari fermo da novembre: su questo fronte, torna a Londra con le pive nel sacco. 

Ma l’incontro con Trump ha anche a che fare con le relazioni fra Stati Uniti e Regno Unito dopo le elezioni del 5 novembre. Con il piccolo, ma non trascurabile, dettaglio che, quando forse Trump tornerà alla Casa Bianca, Cameron potrebbe non essere più al Foreign Office: le elezioni politiche britanniche sono attese entro fine anno e tutti i sondaggi danno i laburisti vincitori e i tories sconfitti. 

«Era un incontro privato: non posso fornire dettagli», dice Cameron del colloquio con Trump, facendo una conferenza stampa congiunta con Blinken. E, mentre gli spunta un naso da Pinocchio, aggiunge che l’incontro è stato «completamente appropriato» e che è una prassi per il suo governo incontrare candidati di altri Paesi in vista di elezioni imminenti. 

Da Mosca a Tel Aviv
Fra i repubblicani della Camera circolano, per ammissione di loro esponenti di alto rango, messaggi “filo-russi” e sono diffuse posizioni filo-israeliane oltranziste. Ma Jason Miller, un consigliere della campagna di Trump, liquida come «fake news» il piano di pace del magnate per l’Ucraina riferito dal Washington Post, con la cessione a Mosca da parte di Kiev della Crimea e del Donbass. 

Miller puntualizza che Trump non definirà un piano di pace finché non sarà in carica e non potrà valutare a fondo tutte le opzioni. E aggiunge: «Trump è l’unico a parlare di fermare le uccisioni Biden parla di ulteriori uccisioni». 

Sul conflitto in Medio Oriente, l’ex presidente polemizza direttamente con il suo successore: dice, esagerando, che Biden è «al 100%» dalla parte dei palestinesi: «Chiunque vota per lui non ama Israele e francamente bisognerebbe chiedergli: come può un ebreo votare Biden o un democratico visto che sono al 100% dalla parte dei palestinesi?». 

Intervistato da un’emittente conservatrice, Trump sembra non capacitarsi: «È incredibile che storicamente gli ebrei votino democratico… Non lo capisco… Sono stato di gran lunga il più filo-israeliano di qualsiasi altro presidente» Usa. 

Quanto al piano di pace controverso sull’Ucraina, esso, secondo il Washington Post, consiste nell’indurre l’Ucraina a lasciare alla Russia la Crimea e la regione di confine del Donbass, attualmente occupata e annessa. Per le fonti del giornale, l’ex presidente considera che sia l’Ucraina sia la Russia «vogliano salvare la faccia e avere una via di uscita», anche se la pace “alla Trump” pare sostanzialmente una vittoria per i russi. 

L’ex presidente è convinto che gli abitanti di alcune province ucraine preferiscano essere russi. Affermazioni che trovano conferma nei ricordi della sua ex consigliera Fiona Hill in un nuovo libro sulla sicurezza nazionale statunitense minacciata da Russia e Cina: quand’era presidente, Trump «mise in chiaro» che secondo lui l’Ucraina, e certamente la Crimea, «deve fare parte della Russia».

Hill, responsabile per gli affari europei e russi nel Consiglio di sicurezza nazionale Usa tra il 2017 e il 2019, parla a David Sanger Hill, giornalista del New York Times, autore di “New Cold Wars: China’s Rise, Russia’s Invasion, and America’s Struggle to Defend the West”: il presidente «non riusciva davvero a capacitarsi dell’idea che l’Ucraina fosse uno Stato indipendente». 

All’idea di pace di Trump, lontana dalla «pace giusta» di cui parla l’Amministrazione Biden, si pone in antitesi un editoriale del New York Times, per cui l’Ucraina sta difendendo «la sua democrazia e il suo territorio dalla Russia» e ha bisogno degli Usa.

L’editoriale esorta lo speaker della Camera Mike Johnson, che è una marionetta di Trump, ad agire e a sbloccare gli aiuti: se la Russia «imporrà la sua volontà all’Ucraina, la credibilità e la leadership americana subiranno un duro colpo». Ma questo è, in fondo, quel che il magnate vuole: uno smacco per Biden, più che una vittoria per Putin. 

Per il Nyt, Trump e i «suoi seguaci possono sostenere che la sicurezza dell’Ucraina, o addirittura dell’Europa, non è un problema degli Stati Uniti». Ma una vittoria della Russia in Ucraina avrebbe come conseguenza un mondo in cui i sistemi autoritari «si sentono liberi di spegnere il dissenso e occupare territori…. Questa è una minaccia alla sicurezza dell’America e del mondo». 

Il caso Johnson
Quanto sta avvenendo, in questi giorni, alla Camera Usa è un “test case” della tentazione trumpiana di subordinare la sicurezza internazionale, e anche statunitense, ai giochi di potere domestici,; ma anche delle controindicazioni elettorali di un progetto del genere.

Nel fine settimana, la Camera ha sbloccato, dopo mesi di stallo, un pacchetto d’aiuti internazionali e altri provvedimenti. Le misure prevedono 95 miliardi di aiuti per l’Ucraina (oltre 60), Israele (26, di cui nove per aiuti umanitari) e Taiwan e l’Indo- Pacifico (8,1), proposti a novembre dall’Amministrazione Biden e tenuti finora fermi dall’opposizione repubblicana.

Lo speaker della Camera, il repubblicano e trumpiano Mike Johnson ha avuto sostegno bipartisan sul pacchetto, che ha “contentini” sia per i democratici che per i repubblicani, nonostante l’ostilità di alcuni esponenti ultra-trumpiani del suo partito, che adesso minacciano di sfiduciarlo. Johnson era stato, la settimana scorsa, a Mar-a-lago a “prendere ordini” da Trump, che gli aveva dato il suo avallo.

Appare improbabile che abbia ora agito senza l’accordo del magnate, che potrebbe preferire dare via libera agli aiuti piuttosto che correre il rischio di apparire responsabile d’una disfatta dell’Ucraina che, a corto di munizioni e difese anti-aeree, sta subendo devastanti attacchi notturni russi su postazioni militari e infrastrutture energetiche e industriali.

Il direttore della Cia Bill Burns ha recentemente affermato che senza il sostegno militare degli Stati Uniti l’Ucraina potrebbe perdere il conflitto con la Russia entro fine anno. Fra i provvedimenti varati dalla Camera, insieme al pacchetto degli aiuti, c’è una legge che mira a imporre entro nove mesi la vendita di TikTok, attualmente di proprietà cinese, perché possa continuare a operare negli Stati Uniti – un contentino ai repubblicani: una misura del genere era già stata approvata a marzo dalla Camera e affossata dal Senato – e l’estensione per due anni dell’autorizzazione a controverse pratiche anti-spionaggio cui gli apparati di sicurezza tengono molto, ma che, secondo i critici di destra e di sinistra, compromettono la privacy dei cittadini.

Vi sono pure disposizioni per utilizzare in funzione pro-Ucraina gli asset russi congelati e per imporre nuove sanzioni a Mosca, Teheran e Pechino. Lo speaker Johnson ha sfidato il rischio di sfiducia della fronda ‘trumpiana’ mettendo ai voti il maxi pacchetto di aiuti esteri già approvato dal Senato due mesi or sono, ma scorporato in quattro distinte misure.

La mossa – sostenuta dalla Casa Bianca – consentiva a tutti di esprimere il proprio dissenso (i repubblicani sugli aiuti all’Ucraina, i progressisti su quelli a Israele), senza però compromettere l’esito finale con maggioranze bipartisan garantite dall’appoggio determinante dei democratici. Come nel test sul voto di procedura di venerdì: 316 a 94, con 165 sì democratici e 151 repubblicani.

La vicenda è un esempio lampante di come la politica statunitense fatichi, oggi, ad allungare lo sguardo al di là dei muri e degli steccati di casa propria. Conta solo l’esito delle presidenziali, stando ad assistere “al disperato – ma potenzialmente disastroso, ndr – allineamento tra Russia, Cina, Iran e Corea del Nord”.

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