L’eterna promessa: è ancora possibile un Esercito europeo?
Annettere le forze armate dei 27 Stati membri consentirebbe all’Ue di essere più autonoma rispetto alla Nato e di risparmiare fino a 75 miliardi. Ma non tutti sono favorevoli. E prima servirebbe una vera politica estera comune
«È giunto il momento che l’Europa faccia un passo avanti». Suona il campanello d’allarme a Bruxelles, dove le crescenti tensioni geopolitiche e lo spettro di Donald Trump hanno riportato alla ribalta un vecchio dilemma: quello della necessità di una difesa comune europea.
«Negli ultimi decenni il mondo non è mai stato così pericoloso», ha dichiarato Ursula von der Leyen lo scorso febbraio, in un discorso in cui ha invocato «un passo in avanti» sul fronte della difesa. Secondo la presidente uscente della Commissione europea, le guerre degli ultimi anni hanno infranto molte delle «illusioni» in cui l’Ue credeva. Per il futuro l’ex ministra della Difesa tedesca, in corsa per un secondo mandato alla guida dell’esecutivo europeo, ha promesso di introdurre un nuovo commissario europeo alla Difesa e di dare la priorità agli acquisti congiunti di armamenti.
Pochi giorni dopo, è stata presentata la Strategia industriale per la difesa dell’Unione europea (Edis), la prima nella storia dell’Ue. «La brutale guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina ha riportato in Europa una guerra ad alta intensità. Dopo decenni di sottinvestimento, dobbiamo investire di più nella difesa, ma dobbiamo farlo meglio e insieme», ha affermato Josep Borrell, capo della diplomazia europea, durante la presentazione dell’atteso piano per il futuro dell’industria bellica europea, tornata da qualche mese nelle grazie degli investitori.
Gli sponsor politici
Nonostante una battuta d’arresto nelle scorse settimane, da inizio anno i principali produttori di armamenti hanno visto il valore di mercato lievitare di decine di miliardi di euro. A inizio aprile, un paniere di azioni di aziende europee seguite da Goldman Sachs aveva registrato una crescita del 40 per cento. Un interesse che si è accompagnato agli impegni di Bruxelles per fare in modo che i Paesi membri acquistino più armi internamente e meno dall’estero, in particolare dagli Stati Uniti.
Oltre a provvedimenti per stimolare la produzione europea di armamenti, il piano, presentato lo scorso 5 marzo, prevede misure per garantire la disponibilità tempestiva di armi e favorire lo sviluppo di legami più stretti con le imprese ucraine del settore. Proposte ambiziose ma limitate agli ambiti di competenza della Commissione, come il mercato interno.
Non si parla invece di uno dei cavalli di battaglia dei promotori dell’integrazione europea: l’esercito europeo. Un’idea risalente agli anni Cinquanta, tornata periodicamente in auge sotto forme diverse. A rilanciarla negli ultimi anni sono stati sia Emmanuel Macron che Angela Merkel ma anche, più di recente, il leader del Partito popolare europeo, Manfred Weber. «Vogliamo la Nato, ma dobbiamo anche essere abbastanza forti da poterci difendere senza di essa in tempi di Trump», ha detto il conservatore tedesco, in risposta ai ripetuti attacchi dell’ex presidente statunitense.
Di nuovo candidato alla Casa Bianca, Trump ha minacciato a più riprese che non interverrà a difesa degli alleati europei se questi non aumenteranno le spese militari. «Indipendentemente da chi verrà eletto in America, l’Europa deve essere in grado di reggersi da sola in politica estera e di difendersi in modo indipendente», ha aggiunto Weber in un’intervista a Politico lo scorso gennaio. La necessità di un’Europa in grado di difendersi in maniera indipendente ha spinto Weber a valutare anche l’ipotesi di un deterrente nucleare europeo, per quanto in una prospettiva di lungo termine. «L’Europa deve costruire la deterrenza, dobbiamo essere in grado di difenderci», ha affermato. «Sappiamo tutti che quando arriva il momento critico l’opzione nucleare è quella veramente decisiva».
Anche l’Italia ha espresso il suo sostegno all’idea di un esercito europeo, tramite il ministro degli Esteri Antonio Tajani. «Io credo che si debba cominciare a lavorare seriamente in Europa per dare vita finalmente a un sistema di difesa europeo, a un vero esercito europeo», ha detto il capo della Farnesina, anche lui esponente del Partito popolare europeo.
Ostacoli
L’esercito comune, peraltro, non può essere creato «dal giorno alla notte», hanno ammesso Tajani e Weber in una lettera pubblicata su La Stampa.
Ma secondo alcuni Paesi membri il problema non sono solo i tempi. «La Danimarca non è favorevole alla creazione di un esercito europeo», ha detto il ministero della Difesa danese in risposta alle dichiarazioni di Weber e Tajani, ricordando il ruolo dell’Alleanza atlantica. «La Nato è la pietra angolare della nostra sicurezza collettiva e la difesa rimane una questione di sovranità nazionale: non esiste un esercito della Nato o dell’Ue, ma una stretta cooperazione di difesa tra alleati e Stati membri».
«L’istituzione di questa difesa comune, quadro necessario per lo sviluppo di un esercito europeo, richiederebbe una decisione unanime del Consiglio», ha affermato a sua volta il ministero della Difesa spagnolo. «Se raggiungere questo requisito era quasi impossibile nel 1992, quando l’Ue era composta da 12 Stati membri, una decisione da parte di un’Ue di 27 o più Paesi sarebbe molto difficile da prendere in futuro: in questo contesto l’idea è irrealistica o insostenibile nel prossimo futuro».
Madrid, piuttosto, ha messo in risalto la “Capacità di dispiegamento rapido”, un’iniziativa che mira a schierare fino a 5mila soldati entro il 2025. La prima esercitazione ha avuto luogo a ottobre proprio in Spagna, dove nove Paesi europei, tra cui l’Italia, hanno inviato in totale 2.800 uomini. Il progetto è visto da alcuni come un primo passo verso la creazione di una forza di intervento europeo, aggiuntiva rispetto alle forze armate europee. Ma l’entità ridotta del contingente non può che incidere in maniera limitata sulle capacità militari europee.
Un’altra iniziativa già operativa è quella dei Gruppi tattici dell’Unione europea. Si tratta di battaglioni composti da 1.500 uomini provenienti a rotazione dagli Stati membri e posti sotto la supervisione del Consiglio europeo, che devono poter essere dispiegati entro dieci giorni dalla mobilitazione. Operativi dal 2007, finora è sempre mancato il consenso per impiegarli in un teatro di operazioni.
Secondo alcuni osservatori, l’esempio che più si avvicina all’ideale di esercito europeo è da trovare nella collaborazione militare tra Germania e Paesi Bassi. Poco più di un anno fa i due Paesi hanno celebrato l’integrazione delle truppe di terra olandesi con quelle tedesche. Il piano, che esclude le forze speciali olandesi, prevede una forza totale di 50mila soldati, di cui 8mila provenienti dai Paesi Bassi. Secondo Kajsa Ollongren, ministra della Difesa olandese, entrambi i governi potranno continuare a decidere autonomamente riguardo al spiegamento delle proprie forze armate.
Le uniche difficoltà, secondo il comandante dell’esercito olandese Martin Wijnen, sono rappresentate dalle differenze culturali: «Se un comandante tedesco prende una decisione, la discussione finisce», ha detto Wijnen al Parlamento olandese, mentre «nei Paesi Bassi, se un comandante prende una decisione, la discussione inizia».
Inefficienze
Secondo i più scettici, la difficoltà di integrare le forze armate è solo uno dei motivi per cui l’ipotesi di un esercito europeo non è praticabile. In un articolo su Foreign Policy, il professor Bart Szewczyk, ha definito l’idea un «miraggio» a cui sarebbe preferibile «rafforzare le capacità nazionali e responsabilizzare gli Stati membri». Szewczyk, docente a Sciences Po e senior fellow presso il think tank statunitense German Marshall Fund, ritiene che l’Unione dovrebbe continuare a coordinarsi con Paesi Nato extra-Ue come Regno Unito e Norvegia, oltre agli Stati Uniti, il cui impegno nei confronti dell’Europa potrebbe cambiare dopo le elezioni di novembre. Da questo punto di vista, la duplicazione dei sistemi e le inefficienze che Bruxelles punta a eliminare rappresenterebbero un vantaggio.
«Duplicazioni tra i Paesi dovrebbero essere viste come un meccanismo di sicurezza o un’assicurazione aggiuntiva: se un Paese sceglie di non partecipare, come ha fatto la Germania durante l’intervento della Nato in Libia, altri possono colmare il vuoto», ha scritto il professore, aggiungendo che le «inefficienze» dovute ai molteplici comandi nazionali garantiscono invece «la flessibilità e la sicurezza necessarie per impiegare tali eserciti in coalizioni e configurazioni diverse a seconda delle necessità».
A Bruxelles la lotta a queste inefficienze è invece una priorità. Attualmente, ha affermato la Commissione, quasi l’80 per cento delle armi viene acquistato da aziende straniere e oltre il 60 per cento da imprese statunitensi. In base alla strategia Edis presentata a marzo, la Commissione vuole che entro il 2030 la metà della spesa nella difesa sia destinata ad aziende locali. Una percentuale che dovrebbe salire al 60 per cento entro il 2035, mentre entro il 2030 almeno il 40 per cento degli armamenti dovrà essere acquistato congiuntamente dai Paesi europei.
Con 233 miliardi di euro, i Paesi dell’Ue spendono per la difesa quasi quanto la Cina. Ma la frammentazione delle forze armate, secondo i sostenitori di una maggiore integrazione, si accompagna a enormi inefficienze. Come ricorda la fondazione dei Verdi tedeschi Heinrich Böll, i Paesi europei hanno diciassette diversi tipi di carri armati mentre gli Stati Uniti ne hanno uno solo. A fronte di sei tipi diversi di aerei da combattimento statunitensi, l’Europa ne ha venti.
Il Parlamento europeo ha stimato che, se unissero le forze, i Paesi dell’Ue potrebbero risparmiare tra i 24,5 e i 75,5 miliardi di euro all’anno. «In molti segmenti dovremo fare il lavoro da soli», ha detto il commissario per il Mercato interno e i Servizi, il francese Thierry Breton. «Questo è ciò che viene definito prontezza difensiva e autonomia strategica. Ma ovviamente lo facciamo anche con i nostri alleati», ha detto, spiegando che l’industria statunitense non può soddisfare tutte le esigenze europee, soprattutto riguardo le munizioni.
Super Mario
Anche Mario Draghi ha posto l’accento sulla necessità di un sistema difensivo europeo «integrato e adeguato». L’ex presidente del Consiglio italiano, incaricato dalla Commissione di redigere una relazione sul futuro della competitività europea, ha citato quello della difesa come esempio di settore in cui «la mancanza di scala sta ostacolando lo sviluppo della capacità industriale europea».
«I primi cinque attori negli Stati Uniti rappresentano l’80 per cento del mercato, mentre in Europa ne costituiscono solo il 45 per cento. Questa differenza deriva in gran parte dal fatto che nell’Ue la spesa per la difesa è frammentata», ha osservato Draghi nel suo discorso del 16 aprile, in cui ha lamentato l’assenza di una «strategia per proteggere le nostre industrie tradizionali in un contesto globale in cui non tutti giocano alle stesse condizioni».
L’ex premier ha puntato il dito contro le politiche di Stati Uniti e Cina e gli errori commessi dalle istituzioni europee dopo la crisi dei debito sovrano del 2011, all’epoca in cui lui era a capo della Banca centrale europea: i Paesi membri, ha sottolineato, avevano perseguito una «strategia deliberata per cercare di abbassare i costi dei salari l’uno rispetto all’altro», ma l’effetto «è stato solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare il nostro modello sociale».
Riguardo la difesa, il problema indicato da Draghi è che i governi «non fanno molti acquisti insieme (gli appalti congiunti rappresentano meno del 20 per cento della spesa) e non si concentrano abbastanza sul nostro mercato: quasi l’80 per cento degli acquisti negli ultimi due anni sono stati effettuati al di fuori dell’Unione europea». «Per soddisfare le nuove esigenze di difesa e sicurezza – secondo l’ex presidente della Bce – dobbiamo intensificare i nostri appalti congiunti, aumentare il coordinamento delle nostre spese e l’interoperabilità delle nostre attrezzature, e ridurre sostanzialmente le nostre dipendenze internazionali».
Tra le proposte della Commissione, che dovranno superare il vaglio del Parlamento europeo e degli Stati membri, c’è anche quella di agevolare le vendite delle aziende europee imitando il sistema statunitense, in cui le scorte di armi possono essere usate per velocizzare le vendite. Questo potrebbe aumentare la pressione competitiva per le aziende statunitensi.
Piani ambiziosi accompagnati però da un impegno finanziario limitato: gli 1,5 miliardi di euro previsti dal Programma europeo di investimenti nel settore della difesa (Edip). Nelle speranze del commissario Breton, il fondo dovrebbe arrivare in futuro a 100 miliardi di euro.
Uno dei punti chiave per la Commissione è che l’Ucraina sarà trattata quasi come un membro dell’Unione, che potrà partecipare agli acquisti a livello europeo e, tramite le sue aziende, accedere ai fondi Edip. Recentemente von der Leyen ha assicurato che gli sforzi per rafforzare la difesa europea non significano che l’Ue si allontanerà dalla Nato. «La sovranità europea è necessaria, ma non andrà mai a scapito dei nostri alleati e amici e non influenzerà mai l’importanza e la necessità della Nato», ha detto il 17 aprile scorso, rispondendo ai timori di possibili sovrapposizioni tra la nuova politica europea per il settore della difesa e l’azione dell’Alleanza atlantica.