Il doppio gioco di Israele (e Netanyahu) con Hamas
Per anni il Qatar ha inviato ogni mese milioni di dollari a Gaza con il consenso di Tel Aviv. Finanziando di fatto Hamas. Il capo del governo ha incoraggiato questa politica volta a dividere la Striscia e la Cisgiordania e a indebolire l’Anp
Se le guerre hanno sempre permesso di mettere da parte alcuni scandali politici, l’attacco in corso a Gaza ha servito senz’altro gli interessi del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, a partire dalla forte battuta d’arresto subita dalla crescente mobilitazione popolare contro i tentativi autoritari del suo governo di indebolire l’apparato giudiziario. E se a finire sotto lo scrutinio impietoso della lente politica finora sono stati i fallimenti dell’intelligence che hanno permesso alle fazioni armate palestinesi di compiere il pogrom del “Sabato Nero” contro più di 1.200 ebrei, in gran parte pacifici e indifesi, sono molte altre le accuse rivolte dalla società civile contro Netanyahu, tra cui la consolidata politica di finanziamenti indiretti al governo di Hamas negli ultimi due decenni; una questione ancora ignorata da gran parte della stampa internazionale.
Il canale qatariota
A farla riemergere nel mondo occidentale è stata un’inchiesta del New York Times pubblicata a dicembre, secondo cui «pochi giorni prima degli attacchi mortali del 7 ottobre contro Israele, «il capo del Mossad si trovava a Doha per incontrare alcuni rappresentanti del governo qatariota, che per anni avrebbe inviato milioni di dollari al mese verso la Striscia di Gaza – soldi che servivano a sostenere il governo locale di Hamas», implicando che Netanyahu non solo avrebbe tollerato questo invio di denaro, ma lo avrebbe promosso attivamente.
In una lettera segreta inviata al governo del Qatar nel 2018 e visionata da una cerchia ristretta di funzionari, come ha scritto invece a maggio il portale israeliano Ynet, Netanyahu avrebbe sollecitato al Qatar un trasferimento di denaro a Gaza, spiegando che il finanziamento avrebbe «disincentivato le organizzazioni terroristiche a condurre attacchi, prevenuto una crisi umanitaria», definendolo «vitale per preservare la stabilità della regione». «Questi finanziamenti», aggiunge il giornale, «che avrebbero consentito a Hamas di evolversi da semplice organizzazione terroristica a un impero militare dotato di battaglioni, un’estesa rete sotterranea di tunnel e una potenza di fuoco equivalente a quella di un piccolo esercito, sarebbero avvenuti in due periodi di tempo distinti». La tesi di fondo emersa da queste inchieste, è che tra il 2007 e il 2014 il Qatar avrebbe erogato fondi ad Hamas lontano dallo sguardo indiscreto di qualsiasi organismo di supervisione o di revisione internazionale, in coordinamento con gli Stati Uniti e Israele.
Dalla guerra di Gaza del 2014 però tutto è cambiato. Subito dopo infatti, Stati Uniti, Nazioni Unite, Israele e Qatar mettono in piedi un nuovo sistema per consegnare 30 milioni di dollari alla Striscia ogni mese. Un terzo di questi soldi serviva ad acquistare carburante da Israele, necessario ad alimentare la centrale elettrica di Gaza; un altro terzo per erogare i salari dei dipendenti pubblici e i restanti 10 milioni per pagare sussidi da 100 dollari a circa 100mila famiglie gazawi bisognose.
Fino al 2018, i fondi del Qatar venivano consegnati a Gaza con cadenza irregolare e trasferiti con il benestare di Israele e dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), ma l’Anp fece sapere che non avrebbe più acconsentito a finanziare Hamas, preferendo assistere piuttosto al collasso dell’organizzazione terroristica.
Fu allora che Netanyahu decise che sarebbe stato meglio se i soldi a Gaza fossero consegnati sotto la supervisione diretta di Israele piuttosto che dell’Anp, «per assicurarsi che finissero per cause umanitarie», come ha riferito un membro del Likud nel 2019 citando il primo ministro israeliano. Secondo Udi Levi, il comandante del Mossad incaricato di combattere la guerra al terrorismo fino al 2016, «questo schema faceva parte della politica di Israele per comprarsi il silenzio di Hamas. L’organizzazione dichiarò che i 30 milioni di dollari al mese sarebbero stati consegnati direttamente alla fazione al potere. Era naif pensare che Hamas avrebbe utilizzato quel denaro per aiutare la popolazione di Gaza».
Il Qatar tuttavia non era molto soddisfatto del nuovo accordo. «Facevano il doppio gioco e lo stanno facendo anche adesso», aggiunge Levi. «Stiamo parlando del più grosso finanziatore del terrorismo globale, ma nel 2018 il Qatar temeva che finanziare Hamas – designato come organizzazione terroristica – avrebbe irritato le istituzioni internazionali». Nel frattempo, siamo nel novembre del 2018, l’allora ministro della Difesa israeliano Avigdor Liberman dà le dimissioni in segno di protesta per il cessate il fuoco a Gaza.
«Da una parte stiamo approvando una nuova legge per trattenere i fondi all’Anp per aver finanziato i terroristi», dichiara, «dall’altra stiamo permettendo ad altri fondi di entrare a Gaza. È una scelta infelice ed è la prima volta che Israele finanzia il terrorismo contro se stesso». «Chiunque affermi che esistono controlli su dove finiscono quei soldi, afferma una sciocchezza, per usare un eufemismo».
Netanyahu comprende la situazione difficile del Qatar e invia una lettera urgente a Doha, ma il governo gli chiede ulteriori garanzie. «C’era la sensazione che fossero necessari gli americani per chiudere l’accordo», sostiene Levy. L’allora segretario al Tesoro Usa Steve Mnuchin, ebreo e a capo delle finanze nella campagna per la rielezione di Donald Trump, acconsente alla richiesta di Netanyahu e invia un’ulteriore lettera a Doha, proveniente questa volta da Washington, garantendo che i fondi per Hamas non sarebbero stati considerati finanziamento al terrorismo. Da allora, gli agenti dell’intelligence israeliana si sarebbero recati ogni mese a Gaza con un ufficiale qatariota per trasportare delle “valigette” piene di denaro.
Belazel Smotrich, attuale ministro delle Finanze del governo Netanyahu, ha riassunto così questa strategia: «L’Autorità nazionale palestinese è un fardello. Hamas una risorsa». Secondo il New York Times, «nel dicembre 2012 Netanyahu avrebbe riferito a microfoni spenti al noto giornalista israeliano Dan Margalit, che era importante mantenere Hamas al potere come contrappeso all’Anp in Cisgiordania. Secondo Margalit, il primo ministro israeliano gli avrebbe detto che avere due rivali forti – alludendo a Hamas – avrebbe allentato la pressione nei suoi confronti per promuovere la creazione di uno Stato palestinese; Netanyahu però ha sempre smentito queste affermazioni.
Alla radici dell’errore
Ma la strategia cinica del “divide et impera” del premier israeliano non ha nulla di nuovo anzi, affonda le sue radici in un lontano passato. Nello studio del 2006 intitolato “La gabbia d’acciaio”, lo storico Rashid Khalidi parla di Hamas come dei «protégés dell’occupazione israeliana», pedine di un progetto condiviso tra Israele e la sua superpotenza protettrice, gli Stati Uniti. Secondo Khalidi, «l’Impero britannico aveva gettato le basi di un modello per i successivi finanziamenti decennali degli Usa alla Fratellanza musulmana e ai gruppi islamisti in tutto il Medio Oriente come contrappeso alle organizzazioni percepite come radicali, nazionaliste, e anti-americane». I regimi arabi conservatori alleati con gli Stati Uniti, come Giordania e Arabia Saudita, hanno sempre adottato politiche simili. «Per oltre vent’anni dall’occupazione della Cisgiordania e di Gaza nel 1967, Israele ha fatto la stessa cosa con il braccio palestinese della Fratellanza musulmana e il suo ramo a Gaza, Hamas, per controbilanciare il nazionalismo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), al punto in cui l’occupazione militare israeliana incoraggiava i delinquenti della Fratellanza a minacciare i sostenitori dell’Olp», racconta Khalidi. Secondo i documenti dell’Istituto Israeliano per il Contrasto al Terrorismo, Hamas nasce dalle cellule della Fratellanza Musulmana, fondata in Egitto nel 1928.
Prima della Guerra dei Sei Giorni del 1967, i movimenti islamici in Israele e Palestina erano descritti come «deboli e dormienti». Tuttavia, la vittoria schiacciante di Israele contro i suoi nemici arabi innesca un cambiamento storico. A partire dal 1967, la fama di Hamas e dei Fratelli Musulmani – dovuta in gran parte alle loro attività tra le fasce meno abbienti della Striscia – cresce a dismisura. Il cardine del successo dei movimenti islamisti è rappresentato dallo sviluppo di un’infrastruttura sociale, religiosa, educativa e culturale, meglio nota come Da’wah; una rete nata per alleviare le difficoltà dei numerosi rifugiati palestinesi che vivevano nei campi in condizioni precarie. L’influenza sociale diventa così influenza politica, prima nella Striscia di Gaza e poi in Cisgiordania. Il riconoscimento legale di Hamas in Israele arriva nel 1978, quando lo sceicco Ahmed Yassin, leader spirituale del movimento, lo registra come Associazione Islamica sotto il nome di Al-Mujamma al-Islami. Questo status legale consentì ad Hamas di espandere la sua base di supporto attraverso la propaganda religiosa e i servizi sociali. Secondo alcuni funzionari dell’amministrazione statunitense, i finanziamenti per Hamas provenivano dagli Stati produttori di petrolio e, sia direttamente che indirettamente, da Israele. Mentre l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) era laica e di sinistra e promuoveva il nazionalismo palestinese, Hamas voleva uno Stato islamico transnazionale, molto simile all’Iran di Khomeini.
A cogliere di sorpresa i leader israeliani fu l’improvvisa fioritura di numerosi movimenti islamici dopo la rivoluzione iraniana; insieme alla nascita della resistenza armata vis-à-vis del neonato Hezbollah contro Israele nel sud del Libano. Un ulteriore fattore di crescita di Hamas fu il fatto che l’Olp spostò la sua base operativa a Beirut durante gli anni Ottanta, consentendo all’organizzazione islamica di aumentare la propria influenza nei Territori occupati. Con l’inizio dell’Intifada, il numero di membri e azioni violente di Hamas aumentarono rapidamente e di pari passo. Il gruppo aveva sempre abbracciato la dottrina della lotta armata, solo che non era stata mai stata veramente applicata su larga scala. La repressione verso i gruppi islamici inoltre era molto più lasca rispetto a quella contro le organizzazioni politiche come Fatah. Con il trionfo della rivoluzione di Khomeini in Iran e la nascita del terrorismo di Hezbollah, sostenuto dall’Iran, in Libano, Hamas iniziò a rafforzarsi sia a Gaza che in Cisgiordania, affidandosi sempre più al terrore per resistere all’occupazione israeliana.
Diverse fonti dell’intelligence statunitense hanno accertato che Israele foraggiava il gruppo in quel periodo. Un funzionario Usa ha riferito al New York Times che non solo Hamas veniva finanziato come «contrappeso» all’Olp, ma che il sostegno israeliano aveva un altro scopo: «Aiutare a identificare e indirizzare verso gli agenti israeliani i membri di Hamas ritenuti dei pericolosi terroristi». «Infiltrando Hamas», secondo la fonte citata, «gli informatori israeliani potevano ascoltare i dibattiti sulla politica e identificare i membri estremisti di Hamas». Alla fine però, grazie allo sviluppo di un sistema di controspionaggio molto efficace, molti dei collaboratori di Israele furono eliminati o fucilati. Gli atti di violenza terroristica divennero il dogma centrale di Hamas che, a differenza dell’Olp, non era disposto a compromettersi in alcun modo con lo Stato ebraico, rifiutandosi di accettare la sua stessa esistenza.
Anche in questo caso, alcuni dall’altra parte vedevano dei benefici nel prolungare il sostegno ad Hamas: «Il pensiero di parte dell’establishment israeliano di destra era che Hamas e gli altri, se avessero ottenuto il potere, si sarebbero rifiutati di partecipare al processo di pace e avrebbero respinto qualsiasi proposta di accordo», ha riferito un altro funzionario del governo Usa, che ha chiesto di rimanere anonimo. «In questo modo, Israele sarebbe rimasta l’unica democrazia nella regione con cui gli Stati Uniti potevano dialogare», ha aggiunto. Come ha dichiarato l’ex funzionario dell’antiterrorismo presso il dipartimento di Stato Usa, Larry Johnson, «gli israeliani sono i loro peggiori nemici quando si tratta di combattere il terrorismo». «Sono come un uomo che si dà fuoco ai capelli e poi cerca di spegnerlo colpendosi con un martello», ha spiegato Johnson. «Fanno più per incitare e sostenere il terrorismo che per frenarlo».
Due facce della stessa medaglia
Netanyahu può dunque vantare pochi meriti quanto a innovazione nella sua strategia. Non solo le sue politiche di sostegno ad Hamas esistono da decenni e hanno radici nelle tattiche di dominio imperialista sviluppate dall’Impero britannico (mantenute poi in vita dagli Stati Uniti), ma esiste una linea di continuità diretta che va dai regimi imperiali che rafforzavano i governi conservatori e le fazioni religiose più zelanti, all’attuale collegamento tra Israele, Qatar e Hamas. Questa politica non rappresenta tra l’altro l’unica reliquia del passato in questo conflitto.
Gli stessi metodi applicati da Israele per combattere la guerra in corso da oltre 10 mesi nella Striscia – bombardamenti dove i civili uccisi superano di gran lunga le morti tra i combattenti – sono una tattica già utilizzata nei bombardamenti di massa condotti da tutte le parti in conflitto durante la Seconda guerra mondiale.
La punizione collettiva dei civili tuttavia non ha fermato il sostegno dei residenti di Gaza verso Hamas. Al contrario, l’unico effetto sortito è stato l’aumento del risentimento tra i palestinesi; né la campagna è riuscita a smantellare il gruppo ufficialmente bersagliato. Oltre 300 giorni di guerra hanno dimostrato come Israele possa anche distruggere Gaza, ma non può distruggere Hamas, anzi. Tanto che il gruppo non è mai stato popolare come oggi.
Dati questi precedenti storici, è chiaro come Hamas e Netanyahu rappresentino due facce della stessa medaglia. La vera fonte di questa guerra senza fine è l’obiettivo di lunga data dello Stato israeliano di dominare i palestinesi, e i finanziamenti ad Hamas non rappresentano altro che un mezzo per raggiungere questo scopo. L’unico modo per risolvere il problema è realizzare che l’obiettivo della campagna di dominio è di per sé insostenibile. Mettendo da parte tale scopo, Israele e gli Stati Uniti dovrebbero piuttosto incentivare l’unità politica palestinese, condizione essenziale per una soluzione a due Stati.