Le donne irachene sfidano l’Isis con lo sport
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La lotta per la parità comincia dalle palestre e dai campi sportivi. Così le ragazze a Baghdad e in Kurdistan affrontano una cultura bigotta fondata su ignoranza e maschilismo. Il reportage dell’inviata di TPI in Iraq
«Questo è il secondo posto più pericoloso di tutto l’Iraq». Mentre Kareem – giornalista locale e interprete – fa questa osservazione, la Toyota grigia su cui viaggiamo sfreccia veloce su una strada che buca il deserto lungo le montagne di Hamrin, nel governatorato di Diyala. La prima domanda che vorrei fargli, «perché?», trova risposta osservando il paesaggio fuori dal finestrino: lo sguardo fatica a tenere il conto delle piccole torri di vedetta circondate da bandiere sbiadite e sfilacciate, sacchi di sabbia e filo spinato, rialzate su cumuli di terra arida. È lungo queste vallate che redivive milizie del sedicente Stato islamico si nascondono e tentano assalti armati all’esercito iracheno. La presenza dell’Isis e di una guerra mai finita pare di percepirla nell’aria. Così mi limito a osservare: «Poteva andarci peggio, poteva essere il primo posto più pericoloso di tutto l’Iraq».
È lungo questa infinita e monotona strada che da Baghdad conduce a Sulaymaniyya, nel nord-est del Paese, che si capisce l’importanza di andare avanti, senza rallentare e senza preoccuparsi di eventuali rischi e paure. In certi luoghi, in certi momenti, è l’unica possibilità. E forse è proprio così che fanno le donne irachene che ho incontrato in questo viaggio. Come Paiman Berzinge, personal trainer e scalatrice, che gestisce la Chwar Chra Gym, una palestra di Sulaymaniyya, in una zona del Kurdistan non lontana dal confine con l’Iran, in cui uomini e donne si allenano assieme.
Qualsiasi donna decida di praticare uno sport in questo Paese, però, deve fare i conti con l’ostilità, l’incomprensione e gli insulti di buona parte della società. Non solo: è Paiman a raccontare che alcune ragazze che si erano unite al suo team di scalata lungo le montagne curde sono state uccise, picchiate o segregate in casa per punizione dalle loro famiglie. Perché ritengono inaccettabile che una donna trascorra la notte fuori con un gruppo composto anche da uomini. «Nella cultura irachena la donna è ancora considerata una schiava», racconta Paiman. «Quando ho iniziato la mia carriera erano tutti contro di me ma ho sempre creduto in quello che facevo»: lo dice con determinazione, mentre accusa il governo di non fare nulla per aiutare l’emancipazione femminile, nemmeno punire o perseguitare gli autori di omicidi e stupri. Per questo la domanda con cui decido di salutarla, «sei felice?», ha una risposta amara: «Non posso esserlo perché conosco persone a cui è vietato uscire di casa, che non possono praticare sport, conosco donne insultate, violentate, uccise, imprigionate e ricattate»…
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