Donne in piazza: in Iran scoppia la rivoluzione del velo
Le proteste per la morte di Mahsa Amini, uccisa dalla polizia perché non abbastanza coperta, dilagano in tutto il Paese. Qui la repressione ha già provocato oltre 70 morti. Ma dalla folla sale un grido: “Stavolta non molliamo”
Farzad risponde immediatamente, la sua voce esprime la calma dei saggi. Si accende una sigaretta e rilascia subito la sua confessione: «Sarà dura per me ammettere quel che sto per dire, ma sono vecchio e stanco, è ora di assumerci le nostre responsabilità: è colpa nostra, ci siamo fatti fregare». È solo, a Mashhad, città di oltre tre milioni di persone nel nord est di un Iran sottosopra, squadernato da proteste che puntano alla rivoluzione: il simbolo di quelle piazze stracolme di grida di libertà è il coraggio delle donne che declamano il nome di Mahsa Amini esibendo la sua fotografia come un’icona, per dimostrare al mondo ciò per cui si stanno battendo, ma accanto allo schieramento femminile c’è un popolo intero che adesso vuole un riscatto atteso da decenni.
La loro penitenza è andata ben oltre i sacrifici e i diritti negati e sono decisi a sfidare la repressione della polizia morale per riscrivere l’epilogo di una storia millenaria tradita dal fondamentalismo del regime religioso al potere. E Farzad, a 72 anni «suonati» – come piace dire a lui – tifa per la piazza.
Per raccontare le città messe a ferro e fuoco della Persia velata di oggi, Farzad torna a quando, 29enne, la voce di quel subbuglio era la sua: «Io insegnavo letteratura ed ero in prima fila per ribellarmi alla corruzione. L’Iran è un Paese molto complicato da capire. All’epoca, prima del ’79, c’era una monarchia con a capo lo scià e il nostro Paese era il più grande alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente. I soldi guadagnati dalla vendita del greggio permisero di comprare molte armi, principalmente proprio dall’America, e di trasformare l’esercito iraniano nella milizia più forte di tutta la regione. Quello era l’Iran che piaceva agli americani». Occidentalizzazione repentina, sfarzi e corruzione avevano convinto tutti che fosse arrivato il tempo del colpo di Stato: la monarchia non era più tollerabile, il malcontento dilagava.
Poi arrivarono le cassette che costruirono il leader. «Fu l’inganno più ben riuscito della storia», racconta il professore a TPI. «Khomeini, uno dei religiosi più conosciuti per i suoi studi sulla dottrina ma con un seguito risicato, riuscì a catechizzare il Paese attraverso le prediche incise sui nastri e divulgate di casa in casa. Lui si trovava in esilio (in Iraq e poi a Parigi, ndr), ma fu l’esponente del clero sciita che condusse la battaglia politica più agguerrita e convincente contro lo scià». Il professore lo puntualizza con enfasi, dice di sentirsi in colpa, si accusa di non essere stato in grado di vedere. «Se io oggi fossi un giovane, non perdonerei la mia generazione. Ma siamo pur sempre i loro padri e i loro nonni…».
Scattò il referendum, la fine della monarchia e la proclamazione della Repubblica Islamica fu sancita con il 98 per cento dei consensi. Khomeini assunse il ruolo di giurista supremo, la carica più importante dell’Iran. «È importante che voi capiate che quella rivoluzione è stata avviata con la speranza di spazzare via la monarchia dittatoriale», ma che poi è sfociata «solo in un’altra dittatura, basata su un’interpretazione della religione improntata sulla negazione della libertà». E così, lo spirito del 1979 si è trasformato in un bagaglio di sogni infranti, dove «il regime disegna e impone un Islam lontano anni luce dalla cultura iraniana». A tramandarla ci hanno pensato i genitori e i nonni dei giovani d’oggi: «Abbiamo raccontato tutto, abbiamo fatto vedere le fotografie di quel che era la Persia, abbiamo tramandato i ricordi per far capire alle giovani generazioni che un altro Iran esisteva ed è possibile, per trasmettere loro quella libertà che all’esterno, per le strade, il regime ha tentato di cancellare».
Ci sono due Iran, in effetti. Quello ufficiale, opprimente, dei dettami imposti dal fanatismo e quello reale, dentro le case, dove il ricordo di ciò che era diventa reale. Ma a porte chiuse. Non è solo una rivoluzione giovanile quella in corso in queste settimane di ribellione. È molto di più: «Io ho 81 anni, sono musulmana convinta, il chador l’ho sempre indossato anche durante il periodo dello scià. In questi giorni, per strada, non l’ho tolto, ma ho marciato accanto ai ragazzi sventolando il mio fazzoletto bianco e facendo spuntare la frangetta dalla fronte. Perché io il chador ho scelto di indossarlo: così facendo, con imposizioni dittatoriali, il regime fa passare anche me, che credo e mi copro per scelta, per una fondamentalista fanatica. E questa immagine della fede non la posso accettare».
Le parole di Fatì, che sta a Teheran, sono continuamente inceppate da una linea traballante. Il buio delle reti Internet, dei social, delle reti telefoniche è una tattica che il governo del presidente Ebrahim Raisi utilizza ormai da anni, una censura accentuata negli ultimi mesi, quando ha dovuto prendere atto che dalla sua non aveva neppure il consenso degli uomini, su cui al contrario contava. E questo è il vero schiaffo. Bruciare il velo è bruciare il regime che ha utilizzato l’hijiab come rappresentazione della propria ideologia.«Stavolta non molliamo, finisce tutto: o vinciamo oppure finiamo come l’Afghanistan», spiega Reza a TPI. Sua moglie è una giornalista: non la vede da giorni. «Gli agenti del Ministero dell’Informazione hanno fatto irruzione a casa nostra, l’hanno perquisita da cima a fondo, hanno portato via ogni dispositivo elettronico e incarcerato mia moglie: la continuano a interrogare. Sventolavano dei fogli dicendo che avevano un mandato, quei fogli però non ce li hanno fatti nemmeno leggere. Man mano che la protesta si allarga, stiamo tentando di distruggere le telecamere di sicurezza, così da non essere riconosciuti. Negli ultimi giorni però il governo sta usando le ambulanze per far raggiungere ai militari il cuore delle manifestazioni, picchiando, sparando e incarcerando». La paura della repressione, la paura di morire è tanta. Ma quella di ripiombare in una prigione sociale lo è di più.
«Abbiamo due vantaggi», racconta a TPI Massud, 28 anni. «Un popolo istruito, perché qui lo studio conta tantissimo, e il fatto che alcuni agenti della polizia morale, la Ershad, iniziano a schierarsi dalla nostra parte. In alcune città sono arretrati, in altre sono rimasti di fronte alle donne con i capelli al vento senza muovere un dito. Noi ci stiamo dando il cambio, facciamo la staffetta, presidiamo le piazze giorno e notte». Un leader? No, non c’è, non ufficialmente. «Si tratta di una rivoluzione orizzontale, di popolo e per il popolo dopo che per mesi, nel tentativo di arginare il malcontento, il regime ha tentato di affamare le famiglie che non potevano permettersi neanche di comprare un pezzo di barbarì (il pane tipico iraniano)».Arresti, scontri, torture, vittime. I cittadini ridotti alla fame mentre il governo finanzia il sostegno militare in Siria. I diritti umani violati migliaia di volte. Discriminazioni, aggressioni, uccisioni, persecuzioni, violenze. E per strada, la piazza che risponde strillando una parola scomoda: «Libertà!». È la rivoluzione. È la resistenza.