I discorsi dell’odio nascosti nel linguaggio dei nuovi media
Una ricerca comparativa sull’hate speech tra diversi paesi europei per combattere razzismo e pregiudizio
“Bruciate gli zingari”, “i negri non li vogliamo”, “i clandestini ci rubano il lavoro”, sono tre esempi di cosa sia il discorso d’odio. Tuttavia, non sempre l’hate speech è così manifesto, a volte è più subdolo, e diffonde stereotipi e pregiudizi alimentando un clima di paura e razzismo.
Ed è proprio intorno all’hate speech che si è articolato il progetto europeo PRISM, Preventing Redressing Inhibiting hate Speech in new Media. Ci si è concentrati in particolare sul propagarsi dei discorsi d’odio online, con attenzione specifica ai social media che più di altri mezzi alimentano il network di connessione continua tra gli utenti.
I ricercatori europei coinvolti nella ricerca hanno fotografato una percezione e diffusione differente del fenomeno dell’hate speech. In Gran Bretagna, Roxana Preotescu di ROTA sottolinea come “il Regno Unito xenofobo e che prova un sentimento di odio razziale non è purtroppo un fenomeno nuovo”. La ricerca di un capro espiatorio sembra perciò essere una modalità ricorrente di azione “un clima che perpetra un approccio ostile, tende a cercare un nemico, nel caso del Regno Unito si tratta del migrante, solitamente islamico”.
Il taglio giornalistico dei media svolge inoltre un ruolo fondamentale poiché “assimilando richiedenti asilo, rifugiati a tutte le categorie di migranti si manipola l’informazione e di conseguenza la società è spaventata dal fenomeno dei migranti irregolari” anche perché lo conosce in maniera distorta. La manipolazione si associa alla strumentalizzazione dell’informazione, infatti “tra le ragioni dell’incremento dell’hate speech online vi sono senz’altro la recessione economica e la disoccupazione. A seguito di questa sfavorevole congiuntura socio-economica si è infatti incrementato l’approccio razzista nei confronti delle minoranze etniche e religiose in Spagna” un’altra forma del suddetto capro espiatorio secondo Malin Rohia, dell’Università di Barcellona.
“Lo spettro del target destinatario di hate speech è purtroppo ampio, e comprende rom, ebrei, persone LGBT, musulmani e rifugiati” sottolinea Angela Sima di FDPSR, Romania. Si tratta del medesimo target identificato in Gran Bretagna dove, storicamente, sono stati oggetto di discriminazione gli irlandesi, gli asiatici, e gli afro-caraibici. Ma di recente l’ostilità si è indirizzata anche verso chi proviene dall’est Europa e verso i musulmani. Questi ultimi sono oggetto di discriminazione anche in Spagna dove “l’Islamofobia sia nel discorso pubblico che politico si è notevolmente incrementata. Alcuni report hanno infatti constatato come questo fenomeno abbia avuto una diffusione maggiore nei nuovi media e nei social network.
A livello europeo vi è stato un incremento degli episodi di hate speech. In particolare in seguito a fatti di cronaca nera come gli attacchi a Charlie Hebdo a Parigi e all’aeroporto di Bruxelles “che hanno incrementato lo stereotipo verso alcuni gruppi etnici, aumentando l’hate speech”, i dati evidenziati dalla Preotescu di ROTA sono stati confermati da Tell Mama (che monitora e misura gli incidenti contro i musulmani) che ha rilavato come “dopo l’attacco del 2005 a Londra, gli episodi di hate crimes verso i cittadini musulmani si siano incrementati di 6 volte, crescendo del 281% in conseguenza all’attacco a Charlie Hebdo”.
In termini di ricostruzione del fenomeno, in Italia l’UNAR aveva registrato, nel 2014, 347 casi di espressioni razziste sui social, di cui 185 (oltre il 50%) su Facebook, le altre su Twitter e Youtube. L’ipotesi avanzata da Monia Giovannetti di Cittalia è che “giovani e professionisti concordano sul fatto che la rete e soprattutto i social network facilitano la sensazione di anonimato e impunità e che l’hate speech online è un fenomeno ordinario e di uso”. Ed aggiunge “sia i giovani che i professionisti sottolineano l’esigenza di maggiore sensibilizzazione sul tema e di formazione ad un uso più consapevole ed etico di internet, a partire dalle scuole”.
L’elemento della formazione è uno dei punti centrali sull’hate speech, ed è chiarito anche da Nadia Rabhi de La ligue pour l’einsegnement, “bisogna fornire ai giovani gli strumenti ed i metodi per utilizzare i media. Lavorare con loro per renderli consapevoli del mezzo online”. Il contrasto all’hate speech parte innanzitutto dalla conoscenza, poiché al netto di essa si sviluppa l’istintiva paura dell’altro da sé e questo genera conflitti, tensioni, ed un immotivato odio.
Di Piera F. Mastantuono