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Dentro l’Economist degli Agnelli

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Chi sono, come assumono e come lavorano al celebre settimanale londinese acquisito nel 2015 dalla holding di John Elkann

Mentre gli altri giornali vedono i profitti in edicola crollare, loro resistono. Mentre gli altri vivono l’online come un catastrofico tsunami, loro l’onda la cavalcano. Mentre per noi il giornalismo in lingua inglese rimane una frontiera, loro inaugurano la prima app che parla anche cinese. E promettono di cominciare a pubblicare anche in altre lingue.

Insomma, lasciate che in Bocconi gli economisti mormorino che per gli Agnelli si tratta solo di un “trophy asset”, un biglietto da visita per presentarsi al meglio sul palcoscenico imprenditoriale internazionale.

Entrare nella redazione a “The Economist Plaza”, in quel palazzo fra Green Park e l’hotel Ritz nel pieno centro della City, fa lo stesso venire i brividi.

Ammirare la vista a volo d’uccello sul parlamento di Westminster dall’ufficio di Tom Wainwright, il caporedattore della sezione britannica, fa lo stesso sembrare la centralissima sede un torreggiante panoptikon da cui quei titani del giornalismo internazionale osservano e raccontano la vita attorno a loro. 

Valutato attorno ai 150 milioni di sterline, il complesso d’uffici dovrà essere ceduto per finanziare l’operazione con cui lo stesso “Economist Group” rileva le azioni targate Pearson non direttamente acquistate da casa Agnelli.

Al giornale non apprezzano e per ora preferiscono non pensarci, anche perché nessuno sa dove i manager intendano ricollocare gli uffici.

La holding guidata da John Elkann, dal canto suo, ha rafforzato la propria posizione nel gruppo passando da una quota del 4.7 per cento alla maggioranza relativa del 43 per cento, mettendo sul tavolo 469 milioni di sterline. Il gruppo Pearson, dopo la vendita del Financial Times ai giapponesi di Nikkei per 844 milioni qualche mese fa, è uscito definitivamente di scena per concentrarsi sulla digitalizzazione del core business di editoria scolastica e formazione.

Vendita della sede a parte, l’arrivo degli Agnelli viene vissuto con generale soddisfazione all’interno di “The Economist”. La decisione di limitare il proprio potere di voto in assemblea dei soci al 20 per cento, nonostante la quota azionaria del 43, ha rassicurato gli alti quadri del giornale.

Lo stesso vale per la nuova regola che impedisce di detenere una quota superiore al 50 per cento della società, un’altra forma di tutela dell’indipendenza del settimanale. Secondo “The Guardian”, Exor avrebbe pagato un prezzo eccessivo per ottenere la maggioranza relativa dell’azionariato, in particolare alla luce di queste forti limitazioni sul suo potere decisionale.

Ogni settimana settanta giornalisti di “The Economist” confezionano una rivista che vende un milione e seicento mila copie, fra cartaceo e digitale. La clientela è globale: soltanto un ottavo dei lettori risiede in Inghilterra, attorno al venti per cento in Europa continentale, quasi il sessanta negli Stati Uniti.

Il mercato asiatico, su cui si concentrano le speranze di continuare una crescita ormai a rischio saturazione, assorbe per ora soltanto il dieci per cento delle vendite. Seguono America Latina, Medio Oriente ed Africa. Secondo l’ex direttore Rupert Pennant-Rea, i lettori di “The Economist” “guadagnano e capiscono più della media ma hanno a disposizione meno tempo degli altri”.

Lettura obbligatoria di un’élite istruita e cosmopolita, il giornale fornisce analisi concise che danno un quadro della situazione internazionale. Il suo pubblico, generalmente urbano e altolocato, lo percepisce anche un po’ come uno status symbol.

La redazione dell’Economist a St James, Londra

Ma chi sono i giornalisti di “The Economist? Il dato più sorprendente, soprattutto in relazione al mondo del giornalismo italiano, è la bassa età media dei redattori.

Anche se la maggior parte sta fra i trenta e i quaranta, non è inusuale imbattersi in autori ventenni che ricoprono ruoli di primo piano. L’attuale corrispondente dall’Africa ha soli ventisette anni e già a ventitré scriveva nella sezione britannica. Lo stesso vale per Jeremy Cliffe, responsabile della rubrica di politica inglese “Bagehot” intitolata al terzo direttore del settimanale.

Bill Emmot, poi divenuto direttore nel 1993, cominciò anch’egli ventenne come corrispondente dal Giappone a inizio anni ‘80. “All’Economist non ci sono strutture ossificate e l’accesso al giornale è a tutti gli effetti meritocratico”, spiega proprio Emmot, “può succedere che giovani particolarmente brillanti vengano assunti direttamente dopo gli studi all’università”.

Funziona così: ogni anno le varie sezioni di “The Economist” lanciano un bando in cui offrono un periodo di praticantato, in genere molto ben retribuito. I candidati, oltre a curriculum vitae e lettera di presentazione, devono inviare un articolo “adatto alla pubblicazione nel giornale”.

I prescelti vengono esaminati nella sede, dove si presentano con una serie di proposte di articolo che vengono vagliate dal caporedattore. Chi passa comincia fin da subito a pubblicare, senza tanta gavetta o assistenza ai giornalisti più esperti.

Le nuove reclute – che comunque non guadagnano meno di un terzo dei 100.000 euro normalmente portati a casa da un medio quadro nel giornale – rappresentando un significativo risparmio per la società.

“E’ una rivista fatta da giovani che fanno finta di essere vecchi”, ha detto il giornalista americano Michael Lewis a “The Atlantic”, “se solo i lettori americani potessero scorgere i visetti brufolosi dei loro guru di economia e politica internazionale scapperebbero a gambe levate a disdire le sottoscrizioni”.

Altri detrattori sottolineano come il numero assai ristretto di giornalisti costringa il giornale a fare ampio uso di fonti secondarie, rielaborandole sì con maestria e acume, ma comunque aggiungendo poco di nuovo alle storie trattate.

Quanto alla meritocrazia, molti lamentano che la maggior parte dei giornalisti provengano dai canali di formazione privilegiati delle élite inglesi, Oxford e Cambridge, oppure dalle altrettanto esclusive Harvard e Stanford negli Stati Uniti.

“Che ci vuoi fare, sono le università migliori”, dice il giornalista di Financial Times e Repubblica John Llyod, “io mio figlio l’ho mandato a Oxford, dove l’insegnamento one-to-one da una marcia in più; comunque la tendenza va spiegata anche in rapporto a fattori ambientali: si tratta di giovani cresciuti in famiglie colte che hanno avuto accesso alle scuole private”.

La novità più recente, tuttavia, è il progressivo ingresso di giornalisti non anglosassoni, fra cui sei tedeschi, qualche francese e un indiano. La stessa Zanny Minton Beddoes, la prima donna direttrice del giornale, è per metà tedesca. La conferma della sua nomina è arrivata dal “board of trustees”, un organo garante dell’indipendenza del giornale composto da quattro rappresentanti con potere di veto sulla scelta del direttore e sui cambi dell’assetto societario. 

“The Economist Group” non è però soltanto il settimanale. La holding comprende anche la “Intelligence Unit”, un centro di ricerca e analisi finalizzata alla consulenza imprenditoriale. Attraverso una rete internazionale di 100 specialisti e 650 collaboratori locali, l’azienda vanta una competenza da insider nelle realtà economico-industriali dove opera.

In Cina, per esempio, rapporti diretti con il “National Bureau of Statistics” le permetterebbero di fornire ai propri clienti informazioni esclusive su un mercato altrimenti indecifrabile sulla base dei dati disponibili pubblicamente.

A quanto risulta a “TPI”, i giornalisti di “The Economist” non fanno uso dell’azienda sorella per raccogliere dati e informazioni per il settimanale, ma ne rispettano la piena indipendenza all’interno del gruppo. 

L’Intelligence Unit, anche grazie alle controllate di recente acquisizione Bazian e Clearstate specializzate in ricerca sanitaria, ha contribuito con 48 milioni di sterline agli introiti complessivi della holding nell’anno fiscale 2014-2015, confermandosi secondo business dopo il settimanale.

Segue il giornale CQ Roll Call, specializzato nelle dinamiche di politica e lobbying del Congresso Americano (assomiglia al più noto concorrente “Politico”), con 46 milioni, poi le attività minori “Eurofinance”, il bimensile di costume “Intelligent Life”, e l’agenzia di marketing digitale TVC che è in forte crescita.

Anima e corpo del gruppo rimane comunque “The Economist”, che nonostante il calo significativo degli introiti pubblicitari ha registrato ricavi da 230 milioni garantendo al gruppo un profitto netto di 60 milioni di sterline nell’ultimo anno. Fondamentale l’aumento dei margini di profitto sulla singola copia, ottenuto tagliando i costi di distribuzione e limitando le spese di marketing.

“Vogliamo incoraggiare i lettori ad acquistare il nostro prodotto su Ipad, molto meglio leggerci lì piuttosto che su alberi morti che decuplicano i nostri costi di distribuzione”, dice un redattore spiegando l’urgenza della transizione al digitale.

Rendere il settimanale il più possibile indipendente dalle inserzioni pubblicitarie puntando sul reddito diretto delle sottoscrizioni a pagamento è l’aspirazione del Management del Gruppo, secondo il quale la strategia di “The Guardian” di mettere tutti i contenuti in chiaro online è purissima follia (e i rispettivi bilanci lo confermano).

Ai tempi dei duri attacchi del settimanale contro Silvio Berlusconi, l’ex cav aveva definito i suoi giornalisti “una banda di comunisti”.

“Il Giornale” ci impiegò poco a fargli eco paragonando l’ex direttore Bill Emmot a Lenin (un po’ di somiglianza fisica in effetti c’è, anche se il primo ha uno sguardo decisamente più affabile).

Malgrado Karl Marx leggesse il settimanale nei primi anni dopo la fondazione, avvenuta nel settembre 1843, la loro vis polemica colpiva decisamente fuori bersaglio.

“The Economist” si è sempre distinto per la sua chiara adesione ad un filone culturale radicalmente opposto, quello liberale.

Il fondatore James Wilson era un devoto di Adam Smith e della sua mano invisibile, nonché qualche anno più tardi di John Stuart Mill e della sua declinazione più politica della dottrina liberale.

Questi due punti di riferimento, cui se ne aggiungevano altri come David Ricardo o l’utilitarista James Mill padre di John Stuart, ben riflettono le posizioni mantenute ad oggi dal settimanale.

Da una parte l’opposizione ad ogni tipo di interferenza con i mercati, ma dall’altra la promozione attiva dell’indipendenza individuale anche su questioni spinose come aborto, prostituzione o matrimoni gay, di cui “The Economist” fu precoce sostenitore. 

Vedi: “Le copertine dell’Economist”                                                                          

L’atto costitutivo del giornale si inserisce proprio nel contesto di una battaglia a favore del “laissez faire”. Fra gli anni trenta e quaranta dell’800 una carestia rendeva insopportabile il dettato delle “Corn Laws”, le leggi protezioniste che limitavano l’importazione di grano dall’estero per tutelare i produttori locali.

Ben presto un movimento abolizionista si sviluppò nella cittadina di Manchester, per poi diffondersi in tutto il paese spinto dai prezzi troppo alti per il pane. Il cappellaio scozzese James Wilson decise di fondare il giornale per sostenere la campagna, per poi continuare a dirigerlo con la stessa filosofia anche dopo la soppressione delle leggi.

“Da allora il giornale ha sempre tenuto la barra dritta”, dice il giornalista del Financial Times John Llyod, “restando fedele all’impostazione culturale delle origini”.

Non sorprende allora che Margaret Thatcher, vissuta negli ultimi anni all’hotel Ritz a pochi passi dalla sede, presentasse ineguagliate affinità elettive con il giornale. “The Economist” le dedicò infatti una copertina a dir poco celebrativa in occasione della sua morte nell’aprile 2013, mentre altrove a Londra i detrattori organizzavano irriguardosi sit-in di festeggiamento.

“I giornali falliscono quando non hanno un’identità chiara”, chiosa Ruth Dudley Edwards nel libro “Alla ricerca della ragione”, “ma con l’Economist non c’è mai stata confusione a riguardo”.

Gli articoli del settimanale prendono sempre posizione in maniera trasparente, senza lasciare spazio ad ambiguità. La regola dell’anonimato, per cui nessuno degli articoli è firmato dall’autore, contribuisce a creare l’impressione che il giornale sia scritto da una sola mano.

Viene da chiedersi se i giornalisti più blasonati risentano talvolta il collettivismo della testata: “niente affatto, è la cosa più bella del giornale. Rafforza il senso di appartenenza al settimanale rendendo il clima lavorativo estremamente piacevole e la collaborazione fra colleghi solerte e rilassata. Proprio in questo momento sto mettendo insieme un lavoro a cui hanno contribuito quattro persone diverse, pensa come sarebbe complicato se dovessi decidere come farlo firmare”.

L’anonimato è anche un’ottima strategia per tutelare i giornalisti dell’Economist da eventuali rappresaglie dei bersagli della testata: “puoi prendertela coi dittatori senza che ti bandiscano dal paese”, dice scherzoso un redattore. I detrattori, tuttavia, interpretano l’anonimato e i toni saccenti del giornale come una strategia per mascherare un livello d’analisi di gran lunga inferiore rispetto a quello che il marchio “The Economist” lascerebbe immaginare.

La riluttanza a concedersi il beneficio del dubbio nei propri pezzi d’opinione – ogni disaccordo viene fugato negli accesi dibattiti nell’ufficio del direttore – costringe talvolta l’Economist a ritornare clamorosamente sui propri passi.

E’ il caso della campagna di sostegno alla guerra in Iraq, culminata con un editoriale dell’Agosto 2002 intitolato “The Case For War” e poi rinnegata dal settimanale a più riprese in particolare dopo l’ascesa dell’ISIS.

“Le tragedie delle guerre Balcaniche plasmarono la nostra attitudine nei confronti di Saddam Hussein”, spiega l’ex direttore Bill Emmot, “quei massacri a inizio anni novanta avrebbero dovuto sollecitare un intervento più solerte, e invece finirono per distorcere il nostro giudizio sull’Iraq dieci anni più tardi”.

L’influenza del settimanale negli Stati Uniti è molto forte, anche se originariamente la sezione americana era destinata al pubblico inglese. Nata all’indomani dell’attacco a Pearl Harbour nel 1941, doveva informare sulla natura dell’alleato d’oltreoceano ma col tempo si è trasformata in una rampa di lancio per l’internazionalizzazione del settimanale e per il boom della diffusione qualche decennio più tardi. 

Le nuove frontiere sono oggi i mercati asiatici e le opportunità offerte dalla digitalizzazione dell’industria dei media. Lo conferma la nuovissima app “Global Economist Business Review”, disponibile anche in cinese e dedicata a tecnologia e finanza.

Già qualche mese prima della scalata di John Elkann, inoltre, l’Economist aveva lanciato la app “Espresso” per invadere gli smart-phone con sintetici briefing mattutini. Definiti dal giornale “shot di analisi globale”, gli aggiornamenti sono la prima espressione quotidiana del settimanale in 171 anni di storia.

L’applicazione, già scaricata 800.000 volte in pochi mesi, è inclusa nella sottoscrizione al giornale ma può anche essere acquistata singolarmente. L’idea è riuscire interpretare il minimalismo giornalistico New Age affiancandolo alle classiche analisi di approfondimento settimanale. 

Quanto alle sfide editoriali, in queste settimane l’Economist si sta impegnando per promuovere l’integrazione massiccia di migranti e rifugiati. Ben presto dovrà affrontare la battaglia europeista per tenere il Regno Unito all’interno dell’Unione.

In occasione dell’endorsement per le politiche 2015 il settimanale era stato chiaro: con Cameron rischiamo l’Europa, con Miliband il bilancio statale e l’economia. Meglio optare per il conservatore, come d’altronde l’Economist ha fatto la maggior parte delle volte nella sua storia pluridecennale, tanto non è plausibile pensare che Londra scelga davvero di abbandonare Bruxelles.

Il giornale di Londra si prepara di nuovo a combattere, da italiano, ma come sempre senza paura di sbagliare. 

Questo articolo è uscito sul mensile italiano “Prima Comunicazione”

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