Dalla foresta alle nostre tavole: ci stiamo mangiando l’Amazzonia
Carne da allevamento, soia e legno. Dalle terre disboscate del Brasile all’Italia. Grazie a un sistema di sfruttamento ai limiti della schiavitù. Che coinvolge migliaia di aziende. E alimenta il ciclo criminale dietro al business della deforestazione
Un primo passo è stato fatto. Nei giorni scorsi il Parlamento europeo ha raggiunto un accordo con gli Stati membri per bloccare l’importazione dei prodotti agricoli che hanno un diretto impatto sulla deforestazione. Per ora è una buona intenzione, occorrerà vedere i fatti. Sul banco degli imputati da anni c’è la soia, il legume coltivato in Brasile, molto spesso in terre sottratte alla foresta, con un impatto ambientale e sociale devastante. Il flusso commerciale parte dai fiumi che solcano l’Amazzonia, attraversa porti fluviali gestiti dai grandi traders delle commodities agricole e passa nei villaggi indigeni. Non ha solo un impatto sulla foresta e, dunque, sui cambiamenti climatici. Dietro le produzioni intensive c’è spesso un sistema di sfruttamento ai limiti della schiavitù, che coinvolge migliaia di aziende agricole brasiliane.
Accanto agli affari sporchi del legno estratto illegalmente, dei manzi allevati sulle terre desolate ottenute bruciando la foresta e della soia – quasi sempre transgenica – coltivata da qualche anno c’è però un nuovo nemico dell’ambiente. È il potassio, elemento chiave del ciclo criminale del disboscamento che rende possibile la coltivazione dove prima c’era la foresta primaria. Il sottosuolo amazzonico ne è ricco, nel cuore di aree indigene che rischiano di scomparire. Lo scopriamo alla fine di un percorso che parte da Porto Velho, città di confine tra la foresta ancora in piedi e quella fascia che corre nel sud dell’Amazzonia, chiamata “l’arco della deforestazione”.
Cuore verde, lavoro schiavo
Li chiamavano “desbravadores”, parola difficile da tradurre. Pionieri, apripista, esploratori. Ma anche contadini strappati alla loro terra, mandati ad affrontare una foresta immensa, per loro sconosciuta, partiti con il miraggio della terra promessa, per poi trovarsi ridotti in schiavitù. È una parola da tenere a mente percorrendo le strade che tagliano l’arco sud dell’Amazzonia brasiliana, il fronte del fuoco – e dell’agricoltura criminale – che circonda il bacino pluviale polmone della terra. Porto Velho, 500 mila abitanti, è nata così nel 1907, con l’arrivo di centinaia di uomini mandati ad affrontare quell’ambiente ostile. Estraevano il caucciù all’epoca, la gomma elastica necessaria per la nascita dell’industria automobilistica. Venivano utilizzati per costruire un’opera inutile e folle, una ferrovia nel cuore della foresta, la Madeira-Mamoré. Tra loro c’erano tanti italiani, emigrati in Brasile per sfuggire alla nostra fame di inizio Novecento, la cui sorte venne raccontata dal giurista, etnografo e fotografo Ermanno Stradelli. Era l’epoca del “ciclo da borracha”, quando gli inglesi gestivano la logistica fluviale dell’Amazzonia e i padroni bianchi del Brasile iniziavano l’opera di invasione dell’area verde nel nord del Paese.
Oggi, dopo più di cento anni, quell’epoca è raccontata nei musei e nei libri di storia. L’estrazione del caucciù si è spostata dall’inizio del secolo scorso nel sud est asiatico, la ferrovia Madeira-Mamoré è appena un miraggio, testimoniato da una vecchia locomotiva esposta nel centro di Porto Velho, la capitale dello stato di Rondônia, nella parte sud del bacino amazzonico.
Il progetto di sfruttamento criminale dell’Amazzonia e della sua gente, però, non si è mai fermato.
Il 4 luglio scorso gli agenti della sezione specializzata del Ministero pubblico federale del Brasile sono entrati in una fazenda nell’area rurale di Porto Velho. “Operazione riscatto” era il nome dell’indagine. In quella terra si coltiva soia, su decine di ettari strappati alla foresta. «Ventinove persone, due minori, sono stati liberati», spiega con parole asciutte il comunicato stampa dell’organo giudiziario. Erano schiavi. In quei giorni, complessivamente, sono stati 337 i lavoratori riscattati da condizioni inumane in diverse aziende agricole nel centro e nord del Brasile. Una schiavitù contemporanea, basata sul meccanismo del debito, speculare al destino dei “desbravadores” di cento anni fa. Sono uomini in buona parte provenienti dall’area del Nord est, dove i latifondi hanno storicamente impedito lo sviluppo di un’agricoltura familiare e sostenibile, provocando fame e ingiustizie. Partono diretti verso quello che la retorica della destra brasiliana ancora oggi definisce come una sorta di Eldorado, la foresta da conquistare. Vengono mandati armati solo di motoseghe ad affrontare il labirinto verde, la giungla ancora vergine; poi entrano nelle fazendas per piantare la soia, in condizioni terrificanti. Devono comprare tutto, il posto dove dormire, il cibo, i medicinali per affrontare la malaria, la cachaça per ubriacarsi la notte cercando di dimenticare le famiglie lontane. Tutto venduto dal padrone. A fine mese il conto è sempre superiore alla paga e non possono allontanarsi fino a quando non saldano il debito. Mai. Il lavoro finisce solo con la malattia e con la morte.
Di casi come questi di schiavitù da debito solo nel 2022 ne sono stati scoperti 1.363 in tutto il Brasile. Le aziende segnalate nella lista nera del Ministero del Lavoro sono centinaia. Ed è solo la punta dell’iceberg. In Rondônia c’è la “Fazenda Santa Rita de Cássia” ai margini della strada BR-364 che attraversa l’arco sud dell’Amazzonia. In Pará, lo stato nella zona est della foresta, ci sono segherie per lo sfruttamento illegale del legno estratto dalle zone indigene, aziende agricole cresciute ai margini delle aree protette, come la “Fazenda Boa Sorte”, della “buona sorte”, o la “Bom Jesus”, il “buon Gesù”. Un elenco che occuperebbe interamente queste pagine.
La via della soia
In un recente seminario dei grandi trader di commodities agricole in Olanda, un ricercatore ha dovuto ammettere un dato crudo e tragico: solo il 22 per cento della soia consumata in Europa proviene da una filiera equa e sostenibile. Il numero, ribaltato, ci certifica che il 78 per cento del consumo del legume si basa su prodotti di aziende che spesso utilizzano il lavoro schiavo, installate in aree sottratte illegalmente alla foresta, su terre disboscate con il fuoco e mantenute fertili grazie all’uso intensivo di fertilizzati, anticrittogamici e sementi geneticamente modificate. La terra nuda che rimane dopo un’incendio di una foresta primaria è quasi sterile, inospitale, e per essere sfruttata ha bisogno di interventi chimici pesanti.
Dietro questo modello c’è un vero e proprio sistema, un ciclo della soia, che ricalca quello del caucciù. Il primo fronte, quello dei “desbravadores”, è composto molto spesso da gruppi di disperati, lavoratori assoldati da segherie specializzate nell’estrazione illegale di legno pregiato. C’è poi il fuoco che distrugge gli alberi poco interessanti per lo sfruttamento economico; si passa all’allevamento, che per un paio d’anni utilizza il pasto erboso. E infine la soia, con l’uso intensivo di fertilizzanti, come il potassio.
Un ciclo, che ha una logistica, una protezione politica, un mercato internazionale, un sistema finanziario di supporto.
Se cento anni fa si sognava una ferrovia nel cuore dell’Amazzonia per trasportare il caucciù, oggi sono due gli assi per movimentare i prodotti del ciclo criminale di sfruttamento della foresta. Il legno, la carne bovina dei pascoli nati dopo il disboscamento e, soprattutto, l’enorme flusso di soia attraversano la foresta usando i fiumi su enormi chiatte e le strade che tagliano il territorio.
Il sistema Maggi
Il lungo fiume di Porto Velho – attraversato dal Rio Madeira – è un susseguirsi di approdi per i battelli che solcano la rete fluviale dell’Amazzonia. Poco fuori la città sono ormeggiate diverse chiatte. Partono in fila indiana, viste dall’alto appaiono come un serpente che si snoda verso nord. Portano milioni di tonnellate di soia, arrivata nella capitale dello stato di Rondônia via camion. I carichi escono dalle fazendas vicine a Porto Velho, dal Mato Grosso, dalla zona sud del Parà collegata con il porto grazie alla Transamazzonica. Dopo giorni di navigazione le chiatte sbarcano a Itacoatiara, vicino Manaus, capitale dello stato di Amazonas, il vero cuore della foresta. L’intera gestione di questa logistica è stata impiantata vent’anni fa da uno dei principali gruppi brasiliani di produzione e trading della soia, Maggi, famiglia con lontane origini italiane. Da Itacoatiara il viaggio poi prosegue verso l’Europa. Da qui prende il largo gran parte della soia che proviene da quelle terre rubate alla foresta, dopo il ciclo del fuoco, del disboscamento, dell’allevamento bovino e dell’utilizzo intensivo per l’agricoltura. Nell’elenco dei mercantili partiti dal fiume delle Amazzoni, c’è anche la rotta che porta verso l’Italia. Punto di sbarco: Venezia, vero e proprio hub della soia brasiliana. Nel 2022 questa rotta ha avuto un incremento del 117 per cento (dati Antaq, Agenzia nazionale trasporti acquatici del Brasile). I cereali – quasi esclusivamente soia – sbarcati a Venezia provenienti dai porti sudamericani quest’anno hanno raggiunto la cifra record di 167 mila tonnellate, nei primi nove mesi di quest’anno. Di queste un terzo è arrivato da Itaoatiara, il porto fluviale dove confluiscono le produzioni che provengono dal sud dell’Amazzonia.
La strada della soia è a doppia via. Da sud a nord viaggia il prodotto delle fazendas, il percorso inverso è destinato al potassio, l’elemento che servirà a rendere fertili le terre rubate alla foresta in un’azione predatoria che dura da decenni. È un affare gigantesco quello dei fertilizzanti, divenuto ancora più attraente dopo la guerra di invasione della Russia nei confronti dell’Ucraina: da queste zone provenivano gran parte del potassio utilizzato a livello mondiale. Ma ora il Brasile sta puntando molte risorse sull’estrazione del prezioso minerale, proprio per alimentare il ciclo della soia. Ed è qui che spunta il nuovo pericolo per la foresta.
Il potassio è il nuovo oro
Sull’argine del Rio Madeira, a pochi chilometri dalla confluenza nel Rio Amazonas e dal porto di Itacoatiara, una società canadese ha trovato un’enorme giacimento di potassio. Nel 2008 aveva avuto una concessione per una ricerca mineraria nell’area e, poco dopo, ha scoperto il filone. La società Potássio do Brasil Ltda – controllata dalla Forbes & Manhattan Resources Inc. – nei mesi scorsi ha concluso un accordo con il gruppo Maggi per il trasporto del potassio attraverso il Rio Madeira, utilizzando i porti di Itacoatiara e Porto Velho. Dunque un patto tra i produttori agricoli e la società mineraria pronta a estrarre il potassio nel cuore della foresta. Non in un’area qualsiasi, ma in zone indigene.
Il progetto non prevede solo l’estrazione del minerale, ma anche la realizzazione di un impianto industriale, di una strada, di un sistema di adduzione dell’acqua del fiume e di una linea di trasporto per il potassio. E, come sempre avviene quando opere del genere si aprono nel cuore dell’Amazzonia, attorno all’installazione potrebbe crescere un borgo, con l’arrivo dei lavoratori, con conseguenza devastanti per le popolazioni indigene dell’area.
Il giornale brasiliano online Amazonia Real ha raccontato come la società mineraria sia riuscita a impossessarsi delle terre della zona: «L’impresa ha assediato la comunità indigena affinché i terreni fossero venduti», si legge in un reportage dello scorso marzo firmato dalla giornalista Elaíze Farias. Uno dei pochi indigeni che ha resistito non vendendo la propria terra, Milton Ribeiro, ha raccontato l’incubo che sta vivendo: «Sono circondato dall’impresa, ho paura perché sto su un’isola, i miei vicini alla fine hanno venduto, ma io sono rimasto», ha raccontato ad Amazonia Real. A maggio, il Tribunale federale ha annullato la vendita delle terre dagli indigeni dell’alto Rio Madeira alla Potássio do Brasil, accogliendo la richiesta del Ministero pubblico, che aveva aperto un fascicolo dopo la pubblicazione del reportage.
L’avvio del progetto era stato facilitato dal mancato riconoscimento di parte delle aree indigene della zona. La costituzione brasiliana prevede che lo Stato omologhi con atti specifici le terre abitate dalle popolazioni native che, a partire da quel momento, diventano intoccabili. Il progetto in questo caso aveva avuto un primo via libera perché venivano prese in considerazione solo due aree indigene riconosciute, Jauary e Paracuhuba, che distano una decina di chilometri dalla zona di estrazione del potassio. Ma anche nei due municipi dove era previsto l’impianto di estrazione, Soares e Urucurituba, c’è una storica presenza indigena, anche se mai ufficializzata. Nonostante questo, i giudici brasiliani hanno ritenuto che l’impatto dell’estrazione del potassio fosse un rischio per la sopravvivenza delle culture native locali. Per ora, dunque, il progetto è stato fermato, ma la società canadese non ha nessuna intenzione di abbandonarlo definitivamente.
L’estrazione mineraria è in realtà un nemico antico della foresta. La ricerca dell’oro, ad esempio, porta a contaminazioni devastanti dei fiumi e a vere e proprie guerre nei confronti degli indigeni. Ma il potassio potrebbe essere un ulteriore acceleratore. L’unione con il sistema dell’agricoltura intensiva e della logistica della soia è un’alleanza pronta alla conquista di altre terre sottratte alla foresta.