Io, siriana di Aleppo, vi racconto la nostra guerra
Cosa vuol dire raccontare un conflitto quando i morti hanno nomi familiari e i luoghi devastati sono scritti nel tuo DNA? La testimonianza di Asmae Dachan per TPI
L’ultimo ricordo che ho di Aleppo è l’immagine di un tramonto estivo. La luce del sole calante che dipingeva case e macerie di un insolito colore arancio, gli stormi che si alzavano in volo a ogni sparo, a ogni esplosione.
L’auto procedeva veloce sulla strada dissestata, piena di voragini grandi come crateri. La metamorfosi dovuta alla bombe.
Mi sono voltata più volte, con la dolorosa sensazione di dover dare l’addio alla mia città appena conosciuta. Ho scattato le ultime foto e poi nascosto l’attrezzatura, prima di cambiare mezzo e compagni di viaggio e di avvicinarmi alla frontiera.
Era l’agosto del 2013, io ero ad Aleppo mentre nella città di Ghouta, vicino Damasco, veniva commesso un massacro con l’uso, poi confermato dall’Onu, di armi chimiche.
Raccontare la mia guerra
Sono passati più di tre anni e quella sensazione di addio si è tramutata in realtà. L’anno successivo Aleppo era diventata impenetrabile e mi sono dovuta fermare in periferia, con la delusione e la rabbia di chi riesce a vedere la propria meta, ma non si può avvicinare ulteriormente.
Dopo l’estate del 2014 la Siria l’ho potuta vedere solo da lontano, oltre la frontiera. Ho continuato a coltivare le relazioni e i contatti con la gente del posto, a raccogliere le loro denunce e testimonianze, a scrivere la cronaca del massacro di un popolo, di una nazione. Del mio popolo, della mia nazione.
Perché è lì che sono le mie radici, anche se la lingua con cui penso, scrivo e comunico è diversa, anche se il mio vissuto, il mio patrimonio culturale e affettivo si è formato dall’altra parte del Mediterraneo, in Italia.
Sono riuscita, non senza difficoltà, a mantenere una dignità professionale che spesso ha sacrificato il coinvolgimento emotivo in nome della verità. Come se la giornalista e la donna a volte di scindessero e l’una permettesse all’altra di lavorare senza troppa enfasi.
Raccontare una guerra non è mai facile, ma quando i morti hanno nomi che ti sono familiari e i luoghi devastati sono scritti nel tuo DNA, lo sforzo è senza dubbio immane.
Non ho mai nascosto la mia simpatia e il mio sostegno al movimento rivoluzionario che si è opposto prima al regime di Assad e poi ai crimini di Daesh (acronimo arabo che indica l’Isis, ndr).
Da siriana, fingere di essere neutrale non mi avrebbe resa credibile e avrei mentito prima di tutto a me stessa. Ciò non mi ha impedito di criticare e denunciare anche le fragilità, le contraddizioni e gli errori della galassia del mondo dei ribelli e quelli che si sono finti tali, e di dare voce a tutti i protagonisti di questa tragedia.
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Fino a marzo del 2011 essere siriana per me significava portare con fierezza le mie origini mediorientali, vantarmi delle bellezze della Siria, dei suoi sapori, della sua musica, della sua poesia, dell’apertura mentale e dello spirito conciliatore e fraterno del mio popolo.
Ma al tempo stesso la questione siriana era un vaso di Pandora che non bisognava aprire.
Sapevo del regime, sapevo delle torture, della corruzione, dei desaparecidos, delle tensioni sociali, della mancanza di libertà e pluralismo, di un’apparenza che nascondeva e soffocava i pianti degli esclusi e delle vittime del dispotismo.
Dopo quella data, tutto è cambiato ed essere siriana significava anche dar voce al mio popolo nella sua lotta per ottenere horrie e karamah, libertà e dignità.
(Asmae Dachan ad Aleppo, in Siria. Il pezzo continua dopo la foto)
Siriana di Aleppo
Quando hai origini aleppine e incontri qualcuno che viene dalla tua stessa città, le domande immediate sono due.
“Bet min?”, qual è la tua famiglia e “min ena hara”, da quale quartiere?
Perché nonostante Aleppo negli ultimi decenni abbia visto la sua popolazione più che raddoppiata, i ceppi familiari storici sono conosciuti e riconosciuti, in qualche modo tutti imparentati.
Gli aleppini sono noti per la loro cucina, per la tradizione della musica mistica e della cura del corpo, con il famoso sapone all’alloro che porta il nome della città e le essenze alla rosa e gelsomino.
Aleppo ha dato i natali a poeti come al Abu al-Tayyeb Mutanabbi, Nizar Qabbani e al “Emlaq”, il gigante della musica, come viene chiamato il cantante Sabah Fakhry.
Le altre comunità arabe migranti spesso accusavano i siriani di essere vanitosi, fin troppo orgogliosi delle proprie origini, ma forse ignoravano che quella fierezza a volte celava un dolore. Il dolore di vedere il proprio paese sempre più mortificato nella sua libertà e sempre più minacciato nella sua incolumità da un regime che in quasi cinquant’anni ha radicato la paura e il sospetto nell’altro.
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Un siriano che non conosci è sempre “wahed min al-mukhabarat”, uno dei servizi segreti pronto a pedinarti e a metterti nei guai anche solo per aver parlato di elezioni libere e diritti umani. Parole come “islahat”, riforme e “Izza”, dignità, sono state snaturate e considerate “una minaccia all’incolumità del paese”.
Si era siriani fieri insomma, ma sospettosi, che si guardano sempre le spalle. L’inizio della rivolta per molti siriani ha significato l’uscita da un silenzio forzato. Nessuno avrebbe immaginato la violenta e disumana repressione, la militarizzazione di parte della rivolta, l’invasione di terroristi mercenari, di milizie ed eserciti stranieri.
Eppure Assad lo aveva detto “Al-Assad aw nahroq al-balad”, o Assad, o si brucia il paese.
Sono passati quasi sei anni, buona parte della Siria non esiste più, devastata dai bombardamenti, dalle esplosioni, dalle violenze. Homs, Darayya, Douma, Idlib, Palmira e altre città sono irriconoscibili.
Anche Aleppo è ormai estranea a se stessa.
La “liberazione” di Aleppo
Negli ultimi mesi, con la solita politica del “divide et impera” la città è stata divisa in due zone e i suoi abitanti apostrofati in base alla loro presenza. A est i ribelli, quindi i cattivi, e a ovest i sostenitori del regime, quindi i buoni, ma anche questa è l’ennesima invenzione della propaganda.
È impensabile separare geograficamente le persone in base al loro pensiero e la stragrande maggioranza degli abitanti della città era già fuggita negli anni. Chi è rimasto in parte si schierato, in parte non si è espresso, pur di sopravvivere. Tutto questo la cronaca, anche la mia, lo ha raccontato ampiamente.
Poi sono arrivati gli ultimi eventi, la stretta dell’assedio, l’intensificarsi dei bombardamenti, la distruzione di tutti gli ospedali e il colpo finale, l’evacuazione dei civili della zona est. Qualcuno l’ha definita liberazione di Aleppo, mostrando in modo trionfale i manifesti che ora campeggiano per le strade della città vecchia con i ritratti di Putin, Assad, Khamenei e il leader di Hezbollah Nasrallah, debitamente ringraziati.
Ma che liberazione ci può essere se una città viene letteralmente spogliata del suo popolo?
Gli abitanti di Aleppo non sono stati liberati, ma deportati. Molti sono finiti vittime delle esecuzioni ai posti di blocco, altri ora vivono all’addiaccio nelle tendopoli di Idlib, dove si muore sotto il peso delle bombe e della neve e altri ancora sono nascosti nelle zone di periferia per paura di ritorsioni.
Non sono i miliziani armati, quelli non hanno abbandonato le loro armi; sono giornalisti, attivisti per i diritti umani, volontari i cui nomi sono sulle black list del regime.
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I “matlubin”, ricercati, colpevoli di essersi impegnati per dare voce e sostegno all’opposizione civile, che ora vivono come condannati a morte in attesa di esecuzione.
Di fronte alle colonne di civili in fuga, stremati dall’assedio, dal freddo e dalla paura e colpiti mortalmente dalle bombe mentre lasciavano per sempre le loro case, di fronte alle colonne di autobus verdi pronti ad allontanare bambini, donne, giovani e anziani in lacrime dalle proprie radici, come era già accaduto a Homs e Darayya, di fronte a tutto questo, per molti giorni il mio tempo della cronaca si è fermato.
Ha lasciato spazio al tempo del dolore e del silenzio.
La giornalista ormai senza parole ha lasciato il posto alla donna siriana, aleppina e alle sue emozioni. Al suo lutto collettivo e privato allo stesso tempo, al suo senso di frustrazione, impotenza e sofferenza profonda.
Ho imparato sulla mia pelle che quando racconti la tua guerra puoi essere forte quanto vuoi o sforzarti a lungo di esserlo, ma esiste un momento della narrazione e un momento dell’immobilità, perché anche il cuore sembra fermarsi e rifiutarsi di battere ancora.
Essere di Aleppo oggi significa provare nel proprio io violato il dolore di tutti gli altri popoli che hanno subito una simile violenza. Significa chiedersi che significato abbiano oggi la politica e la diplomazia. Significa guardarsi allo specchio e domandarsi cosa voglia dire davvero restare umani.
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(Macerie nell’antico Suq di Aleppo, in Siria. Credit: Asmae Dachan)
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