Assembramenti selvaggi all’aeroporto di Londra-Heathrow. Alla faccia della variante inglese
Cronache dall’aeroporto di Londra-Heathrow
È innegabile che in tempi di pandemia l’aeroporto sia diventato, per molti di noi, una sorta di meta mistica di pellegrinaggio da sognare e risognare mentre, con lo sguardo spento, aspettiamo di lasciare l’ufficio (leggersi “alzarsi dalla scrivania”) per andare al ristorante (“aprire il frigo”), concedendoci al massimo una sosta all’autogrill (“andare in bagno”). Capirete che, con queste premesse, l’aeroporto di Linate assuma un fascino quasi esotico, a metà strada tra il Taj Mahal e il Kilimangiaro.
Io invece appartengo a quella minoranza che in aeroporto, vuoi per lavoro o per lontananza dagli affetti più cari, ha continuato ad andarci. Dal marzo scorso sono salito su dieci voli e alle domande di amici e conoscenti, curiosi su come fosse cambiato il volare ai tempi del Covid-19, ho sempre risposto la stessa cosa: per certi versi, si viaggia molto meglio di prima. Sì, perché tralasciando l’onnipresente mascherina FFP2 e quel respiro affannato a metà strada tra Darth Vader e Messner sul K2, la pandemia ha obbligato aeroporti e compagnie aeree ad introdurre regole e misure che, ripensandoci, avrebbero dovuto essere la normalità da sempre.
Imbarco e sbarco per fila, ottimizzazione di tutti gli spazi, distanziamenti, niente più costole incrinate per rimuovere il trolley dalla cappelliera, distributori di amuchina in ogni angolo e molto altro. Vivo a Londra ormai da sei anni e, proprio per i motivi appena elencati, non ero minimamente preoccupato dal mio rientro nel Regno di Sua Maestà. Certo, vista l’entrata in vigore della Brexit e il tampone obbligatorio era prevedibile un minimo di attesa, ma mi cullavo nella sciocca convinzione che Heathrow, uno degli aeroporti più importanti del mondo in una delle nazioni maggiormente colpite dalla pandemia, avrebbe fatto di tutto per rendere il controllo documenti il più sicuro possibile.
Ovviamente mi sbagliavo, e neanche di poco. Sceso dall’aereo, mi dirigo verso il controllo documenti col passo sicuro di chi già si sta immaginando a casa, davanti a una pizza di dubbia fattura che scatenerà la consueta hit-parade di luoghi comuni da italiano all’estero: “a Napoli te la tirano dietro”, “10 euro per una margherita” o il grande classico “dovremmo aprirci una pizzeria” supportato da una competenza culinaria pressoché nulla. Il classico sogno ad occhi aperti bruscamente interrotto dalla triste realtà a colpi di schiaffi e docce gelate.
Solo così si possono descrivere i brividi lungo la schiena provati nel vedere la fila chilometrica che mi separava dal controllo passaporti. Niente gate elettronici, nessuna corsia preferenziale e un serpentone umano così lungo che la scritta “UK Border” appariva lontanissima, quasi fossero le lettere della visita di controllo dall’oculista. Un assembramento in piena regola. Aggrappati con le unghie a quel poco di fiducia rimasta nell’umanità, io e gli altri passeggeri ci accodiamo alla fila, speranzosi che gli anglosassoni abbiano scelto di “non fare gli italiani” (come dicono loro) e abbiano organizzato una fila capace di scorrere velocemente. Una che ci consenta di arrivare a casa in tempo per gli Europei di questa estate, per intenderci.
Macché. L’incedere è quello tipico della Salerno-Reggo Calabria e dopo oltre un’ora passata in coda, constato con sgomento di essere avanzato sì e no di quattro mattonelle. Il tempo passato assieme agli altri passeggeri inizia ad essere tale che con un po’ di attenzione si possono vedere nascere le prime amicizie, i primi flirt e i primi battibecchi. Non è una coda, è una gita del liceo. Ed è proprio in quel momento che inizio a prestare attenzione ad alcuni dettagli, rendendomi conto di come quell’enorme stanzone racchiuda quanto di più sbagliato esista in tema di prevenzione dal virus.
Il distanziamento sociale? Inesistente. Anche la signora dietro di me si ostina ad alitarmi sul collo, probabilmente convinta che farmi un “succhiotto” possa valere come test sierologico rapido, obbligandomi così a lasciare il mio trolley circa due metri indietro per impedirle di avanzare. Si sa, noi italiani saremmo anche disordinati, ma sempre pieni di iniziativa. Guardando il tabellone degli arrivi poi, non posso che notare che al Terminal 2 siano arrivati intorno alle 18.00 ben dieci voli (sette da Abu Dhabi, due da Dubai e uno da Milano) e che presumibilmente i rispettivi passeggeri siano in quel momento ammassati nello stesso locale. Alla faccia delle “varianti da tenere sotto controllo” e della pericolosità di eventuali mutazioni del virus.
Le mascherine? Di dubbia fattura, spesso abbassate sotto il naso nella totale indifferenza degli “addetti” che si limitano invece a distribuire (sprovvisti di guanti) bottigliette d’acqua, alimentando così il dubbio che quella non sia la fila per il controllo passaporti, ma la coda per un concerto di Vasco o quella per il Blu Tornado a Gardaland. Ed è proprio da quei membri del personale che apprendiamo un’altra bellissima notizia: non è consentito andare in bagno e le donne incinte devono rimanere in coda perché, cito testuale, “siete troppe e non possiamo fare un trattamento preferenziale”.
Risultato? Le donne, i bambini piccoli e gli anziani vengono parcheggiati ai bordi della coda, nella speranza che prima o poi venga consentito a qualche familiare di andarli a riprendere una volta superati i controlli. Anche il non poter andare al bagno finisce per creare non pochi problemi. Sono passate oltre due ore, e una ragazza sta supplicando le persone in coda davanti a lei di tenerle il trolley mentre cerca di sgattaiolare verso il bagno più vicino. Un altro colpo di genio dei protocolli di sicurezza inglesi: preferiamo che la gente abbandoni temporaneamente i bagagli in aeroporto (rischiando così un potenziale arresto per terrorismo), piuttosto che dare a tutti modo di andare in bagno. Spettacolo.
Ma non è tutto. Dopo circa tre ore di attesa e una fila alle mie spalle probabilmente raddoppiata, inizio finalmente a intravedere le postazioni da cui i poliziotti controllano minuziosamente gli incartamenti necessari per l’ingresso nel Regno Unito. Delle circa venti postazioni in servizio, sono solo due i poliziotti provvisti di mascherina. Beh, c’è un vetro di separazione giusto? Considerato che viene richiesto di togliersi la mascherina durante i controlli e che spesso ci si debba sporgere oltre il vetro per sentire meglio le parole, quel vetro appare decisamente meno covid-free del Billionaire ad agosto.
Scoccano le tre ore di attesa e finalmente supero i controlli. Il tutto mentre il Regno Unito registra ancora 37 mila nuovi casi e un numero di vittime totali che sta per raggiungere quota 90 mila. Nell’ultimo mese sono stato in Italia. Parlando con la gente ho spesso avvertito una comprensibile insofferenza nei confronti della situazione attuale. Più persone, dimostrando di non guardare il telegiornale dai tempi di Andreotti, mi hanno persino detto “beato te che te ne torni a Londra”. L’eterno sospetto, tipicamente italiano, che si stia sempre meglio altrove.
Ecco, durante quelle ore in coda, non ho potuto che pensare che, per la prima volta, il viaggio verso Londra non mi sembrava più quel salto nel futuro che mi aveva fatto innamorare della capitale inglese circa dieci anni fa. Anzi. Torno a casa, speriamo che i ristoranti consegnino ancora alle dieci di sera. Forse però, questa volta dell’Italia non sarà solo la pizza a mancarmi.