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E se a New York fosse finito il capitalismo?

Immagine di copertina
Illustrazione: Emanuele Fucecchi

Coronavirus New York: e se fosse finito il capitalismo?

Le immagini delle bare disposte nella nuda terra, in una fossa comune scavata in quel di Hart Island, davanti alle luci della fastosa New York, la città che nell’immaginario collettivo e negli slogan propagandistici “non dorme mai”, sono destinate a passare alla storia. Rimarranno, nell’album americano, al pari del bacio a Times Square dopo la fine della Seconda guerra mondiale, del comizio di Martin Luther King al Lincoln Memorial Hospital di Washington, della marcia dello stesso reverendo King da Selma a Montgomery, dell’omicidio di Kennedy a Dallas e dello sbarco del primo uomo sulla luna.

Rimarranno come le Torri gemelle dell’11 settembre: stessa città, stessa drammaticità, stesso impatto emotivo. Non a caso, quell’immane tragedia e le scelte che ne seguirono furono alla base della rielezione di Bush nel 2004, quando i democratici non compresero il bisogno di rassicurazione e protezione che esprimeva l’America profonda, ben lontana dai fasti di Broadway e dalle luci della ribalta hollywoodiane. Un anno dopo, tuttavia, l’uragano Katrina squassò New Orleans e travolse la presidenza Bush, da quel momento destinata a un record di impopolarità che fece esplodere in ampi strati della popolazione una volontà di cambiamento tale da favorire l’ascesa al potere del giovane senatore afroamericano Barack Obama.

Oggi assistiamo all’immagine delle bare in una fossa comune, nella città più descritta e rappresentata al mondo, rutilante per definizione, al centro dei sogni di milioni di persone in tutto il mondo, emblematica di un modo di essere e di concepire la vita, iconica dell'”American way of life” che ha favorito l’affermazione del sogno americano durante la Guerra fredda. Quell’immagine riporta sulla terra New York e l’America. Per tanti anni, infatti, abbiamo assistito alle scene di barboni e miserabili che dormivano su un cartone davanti all’ingresso dei santuari del lusso e della finanza globale. Per tanti anni queste scene agghiaccianti, anch’esse iconiche delle disuguaglianze aberranti di cui l’America è portatrice, ci hanno lasciato indifferenti. Per tanti anni abbiamo pensato che il modello americano potesse andare avanti indisturbato, a ogni costo, senza fermarsi mai, proprio come la sua città simbolo e tutto ciò che la caratterizza, da Wall Street al lusso sfrenato della Quinta strada. Ma quella foto no: quella foto non può lasciare indifferente nessuno.

Non è un caso se il governatore Cuomo, pur appartenendo all’ala moderata dei Democratici, gode attualmente di un consenso in ascesa, al punto che una parte considerevole dell’Asinello lo vorrebbe al posto di Biden per sfidare Donald Trump a novembre. E non è un caso che Trump sia in enorme imbarazzo al cospetto di una scena che mette in discussione la sua narrazione, la sua idea di società, quattro anni di presidenza in cui l’economia è andata beissimo e Wall Street ha raggiunto picchi inimmaginabili nell’era Obama ma durante i quali le disuguaglianze si sono acuite e il solco fra ricchi e poveri si è ulteriormente allargato.

La verità è che quando è troppo è troppo, persino nella patria del troppo spinto, nella terra che ha elevato l’eccesso a virtù suprema e il Dio dollaro a ragione esistenziale dei più. Persino in una nazione così, con la sua grandezza e le sue miserie, i suoi contrasti, le sue contraddizioni e i suoi squilibri, di fronte alla fragilità umana di una bara deposta nella nuda terra, a fotogrammi che ricordano il massacro di Srebrenica o il genocidio in Ruanda e non una potenza globale di quelle dimensioni, persino lì quello spaccato di povertà assoluta potrebbe avere effetti dirompenti. Trump rischia più di quanto non pensi, comincia a capire che il paese gli sta sfuggendo di mano, ha paura e si vede. Lo si capice dal nervosismo delle sue dichiarazioni, dal suo rifiuto ai limiti del ridicolo di indossare la mascherina, a differenza della più assennata moglie Melania, e dai suoi toni da rodomonte in disarmo, ora che il timone gli sta scappando via e la nave sta virando dritta contro l’iceberg delle sue differenze intollerabili.

La nuda terra in cui vengono sepolti i poveri cristi, coloro per cui il sogno non è mai cominciato e la Quinta strada è rimasta un miraggio, quella terra lontana dalle telecamere e sconosciuta ai più fino a pochi giorni fa, ora riemerge in tutta la sua crudeltà e mette in crisi un modello, quello capitalista, che sembra davvero aver fatto il proprio tempo.
Non sappiamo se il debole Biden, anch’esso figlio di una stagione ormai passata e assai fragile nelle proposte e sul piano del carisma, possa approfittare di quest’evidenza di morte e sofferenza che interroga l’America in profondità e ne mette in discussione i capisaldi. Sappiamo, però, che quell’immagine resterà, come epitaffio su un sistema di disvalori, cattiveria e morte che potrà durare ancora un po’ ma che ormai mostra la corda. Un gigante dai piedi d’argilla, sgretolato da un virus che pone sotto i riflettori scene da apocalisse, incrinando, probabilmente per sempre, un paradigma basato sull’ingiustizia che provoca la dannazione dei più deboli.

New York, primavera 2020: è impossibile fare previsioni sul futuro della politica americana e mondiale ma abbiamo, comunque, la certezza che dentro quelle bare non ci sono solo i corpi dei poveri cristi che non si sono potuti permettere le cure ma anche lo spirito del capitalismo arrembante che, oggi più che mai, grida alla nazione che si credeva invincibile che il suo Dio, tutto lustrini, apparenza e paillettes, ha inequivocabilmente fallito.

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