Esclusivo TPI: “Tamponi, tracciamento digitale e niente lockdown: così abbiamo contenuto il Coronavirus”. Il ministero della Salute della Corea del Sud spiega il modello coreano
Il portavoce del ministero della Salute e del Welfare: "Abbiamo preferito non chiudere l'intero Paese, ma tracciare tutti i contatti dei pazienti, anche indagando sulla loro vita privata. Privacy? La nostra prassi è efficiente"
ESCLUSIVO TPI, il governo coreano: “Così abbiamo fermato il Coronavirus”
Oggi tutti guardano alla Corea del Sud e al successo della sua strategia contro il Coronavirus, ma fino a due settimane fa anche lì centinaia di persone si ammalavano ogni giorno. L’inversione di tendenza è tutta in un dato: domenica 29 marzo ci sono stati solo 78 nuovi contagi. Il governo di Seoul è stato il primo in un Paese democratico a contenere la diffusione del Covid-19 senza applicare un lockdown generalizzato: le attività economiche e gli uffici pubblici proseguono il loro corso, la gente può camminare per strada, seppur con alcune limitazioni, mentre il numero dei contagi continua a calare.
Il Paese non abbassa l’allerta, soprattutto per i casi che entrano dall’estero, ma mostra un cauto ottimismo. Come ha fatto? Puntando su tre asset: efficienza amministrativa, fiducia nelle istituzioni e nuove tecnologie. Imparando dagli errori del passato e chiedendo ai cittadini la massima collaborazione. Applicando una politica di test aggressiva, ma mirata. E rinunciando a un po’ di privacy degli individui in favore della salute della collettività. Un modello che sembra impensabile applicare fin da subito all’Italia e alla sua emergenza, ma che possiamo studiare per capire come affrontare le probabili curve epidemiche che arriveranno dopo la riapertura del nostro Paese.
A sovrintendere l’applicazione del protocollo coreano c’è il Ministero della Salute e del Welfare. Il suo portavoce, Son Youngrae, ci ha spiegato come funziona.
Nel 2015 il governo fu molto criticato per come aveva gestito la crisi della Mers (Sindrome respiratoria medio orientale). All’epoca era stata la scarsa trasparenza sui dati dell’epidemia a provocare i maggiori danni e ad alimentare una grande sfiducia da parte dei cittadini nei confronti delle autorità. Per esempio non erano stati resi pubblici i nomi degli ospedali dove era esplosa l’epidemia e molte persone hanno contratto il virus proprio andando lì. E poi applicavamo in modo troppo rigido il protocollo dell’OMS, ritenendo che i “contatti pericolosi con una persona contagiata” fossero quelli avvenuti a meno di due metri di distanza e per più di trenta minuti. Negli ospedali però si presentavano persone con sintomi, poi risultate positive ai test, che erano state fino a 10 metri dagli infetti. La definizione delle persone contagiate era restrittiva, come i criteri per effettuare la diagnosi, e quindi avevamo fatto pochi test.
La prima cosa che ci ha insegnato la Mers è l’importanza della diffusione delle informazioni. Per questo motivo abbiamo emanato una legge che ci permette di rendere pubblici alcuni dati sensibili. Poi abbiamo capito che dovevamo strutturare diversamente il sistema della diagnosi. Oggi c’è una stretta collaborazione tra gli ospedali pubblici e le cliniche private, ma prima del Covid-19 tutti gli attori della salute erano già pronti allo scambio di informazioni in caso di epidemia. Abbiamo anche capito che bisogna avere una maggiore elasticità nell’effettuare i test diagnostici.
Il governo coreano si è limitato ad applicare un manuale preimpostato. Prima di tutto è entrato in uno stato di allerta nazionale che ha permesso di attuare misure e controlli antivirus straordinari. L’epidemia era molto concentrata a Wuhan e nello Hubei, perciò abbiamo condiviso con tutte le cliniche e gli ospedali i dati dei viaggiatori in arrivo dalla Cina. In questo modo potevano subito verificare se un loro paziente proveniva da quelle zone ed era a rischio Covid-19. Poi abbiamo attivato il sistema di collaborazione pubblico-privato per realizzare fin da subito un numero elevato di tamponi. Contemporaneamente abbiamo avviato uno studio virologico-epidemiologico con gli esperti per capire la natura del nuovo virus.
Credo di dire una verità condivisa con tutti gli Stati che stanno affrontando l’emergenza: la salute e la tutela degli operatori sanitari è la priorità assoluta. Soprattutto nell’affrontare un virus come il Covid-19 che ha una diffusione molto rapida. Sarà una lotta che andrà avanti per molto tempo ed è importante tutelare il personale medico in prima linea.
Innanzitutto non è esatto definirlo un “modello coreano”, noi stiamo adattando il nostro manuale alle caratteristiche del Covid-19. Siamo partiti dall’identikit di questo nuovo virus: si diffonde con estrema rapidità, a volte in modo esplosivo, e anche le persone asintomatiche possono trasmetterlo. Per inseguirlo abbiamo dato la priorità alla ricerca dei pazienti infetti: una volta individuati, cerchiamo le persone con cui sono entrati in contatto, che in maggioranza sono asintomatiche. Altra caratteristica: il 90 per cento dei contagiati manifesta sintomi molto lievi e non necessita il ricovero presso strutture ospedaliere. Per evitare il sovraffollamento dei nosocomi e al contempo isolare gli infetti dalla società, abbiamo utilizzato strutture alternative, come hotel o centri congressi.
Abbiamo iniziato a fare i test a persone con i sintomi, poi a persone che i medici sospettavano avessero il virus, poi a persone che potevano essere in pericolo, come i componenti della “Chiesa di Gesù e del Tempio del Tabernacolo” (che considerano il virus una punizione divina da curare con le preghiere. Il 60 per cento dei primi contagi in Corea del Sud si erano diffusi tra i membri di questa setta, ndr). Poi ci siamo concentrati sulle case di riposo e sulle cliniche con molti anziani all’interno. Oggi abbiamo la possibilità di effettuare 20mila test al giorno, ma li facciamo solo alle persone che sono entrate nel raggio di azione del virus. Impieghiamo circa 700 centri di analisi e possiamo comunicare il risultato attraverso messaggi che arrivano al paziente direttamente sul cellulare in un tempo massimo di 12 ore.
Prima della nuova epidemia avevamo messo in condizione lo Stato di rilasciare molto velocemente l’autorizzazione per i test diagnostici. In condizioni normali ci vorrebbero dai 4 ai 5 mesi, grazie a questo protocollo è stato possibile autorizzarli in 20 giorni. Il primo Covid-19 è stato registrato in Corea del Sud il 21 gennaio. Già il 19 febbraio stavamo effettuando 10mila test al giorno. E’ importante effettuare una politica di test capillare fin dalle prime fasi. Se troviamo tutti i casi di contagio e le persone con cui hanno avuto un contatto possiamo prevenire la diffusione dell’epidemia fin da subito.
Abbiamo valutato due generi di problemi. Il primo relativo alla libertà di spostamento: in caso di chiusura generalizzata questo diritto individuale sarebbe stato limitato. In secondo luogo non eravamo certi che i cittadini avrebbero collaborato e che sarebbero stati capaci di rispettare le restrizioni. La Corea è stato il primo Paese colpito dal virus dopo la Cina, un Paese che ha applicato la quarantena generalizzata. Noi che viviamo in uno Stato democratico abbiamo valutato che quella cinese non fosse una politica adatta al nostro caso. Per questo abbiamo isolato solo la città di Daegu, epicentro dell’epidemia, ma lasciato correre il resto del Paese, anche se con alcuni limiti. Adesso vediamo che tanti altri paesi nel mondo stanno applicando un lockdown generale. Magari i nostri erano scrupoli eccessivi, ma i provvedimenti limitativi devono essere comunque commisurati ai diritti di una democrazia. Quindi abbiamo scelto un’altra strada.
E’ molto importante ricostruire la catena dei contagi delle persone infette. Una volta fatto il test e identificato chi è positivo al Covid-19, lo isoliamo in quarantena e indaghiamo su tutte le persone che sono entrate in contatto con lui, che possono arrivare ad essere anche due o trecento. Poi ricostruiamo tutti gli spostamenti che i contagiati hanno effettuato. La logica è quella di delimitare e circoscrivere il territorio di diffusione del virus in modo chirurgico.
Nel nostro modello di contact tracing le tecnologie intelligenti giocano un ruolo fondamentale. Partiamo dalle dichiarazioni verbali del positivo al Coronavirus e verifichiamo eventuali errori o omissioni utilizzando strumenti molto raffinati. Guardiamo i filmati delle telecamere di sorveglianza, che possono mostrarci i suoi movimenti in città. Accediamo alla cronologia delle sue carte di credito, per conoscere in quali negozi o esercizi pubblici ha fatto acquisti. Inoltre controlliamo i movimenti del suo cellulare con una verifica GPS retroattiva. L’incrocio di questi dati ci consente di essere molto precisi. Poi invitiamo a fare il tampone le persone che sono entrate in contatto con gli infetti o che hanno frequentato gli stessi luoghi. Se risultano positive isoliamo anche loro e le sottoponiamo allo stesso tipo di indagine. Questo schema ci porta a un numero di tamponi proporzionato, teso a coprire tutta la popolazione a rischio.
Quando a un cittadino arriva un messaggio che lo avverte della presenza di contagiati in una certa zona può mettere in atto una forma di autodifesa. Le persone capiscono da sole quali sono i luoghi che devono evitare e sono capaci di prendere le giuste precauzioni quando devono attraversare zone dove il rischio è maggiore. Se qualcuno scopre di essere venuto in contatto con un infetto o di avere frequentato gli stessi luoghi, si presenta volontariamente a fare il test. Gli individui sono chiamati a una forma di controllo attivo sulla diffusione del virus. La trasparenza delle informazioni sul contagio inoltre rafforza il rapporto di fiducia tra autorità e cittadino che implementerà con più collaborazione il distanziamento sociale e le altre indicazioni governative.
Innanzitutto tuteliamo i dati estremamente privati, come il nome o la foto del contagiato. Diffondiamo solo informazioni sull’età, la provenienza e i luoghi frequentati. Poi non aspettiamo la fine dell’emergenza per cancellare i dati (se la persona contagiata è in isolamento o guarisce, o i luoghi che ha visitato sono stati disinfettati, le informazioni vengono cancellate, ndr). Inoltre siamo molto severi nel caso le informazioni sensibili vengano utilizzate per scopi privati. Certo ci sono degli aspetti da migliorare. Per esempio sono stati resi pubblici i nomi di alcuni negozi o ristoranti toccati dal contagio e purtroppo alcune attività hanno avuto delle ripercussioni economiche perché la gente non si fida ad andarci. Ma siamo in continua evoluzione e una volta passata l’emergenza cercheremo di correggere gli errori più evidenti.
Sicuramente esiste un modo per tutelare la privacy e contemporaneamente prevenire l’epidemia. Noi facciamo il possibile per mettere in condizione le persone di autotutelarsi e chiamiamo gli individui al senso di responsabilità nei confronti della collettività. La nostra prassi ha dimostrato di essere efficiente, tanto da consentirci di contenere e ridurre l’impatto dell’epidemia. Sono certo che tutti i paesi che hanno una tecnologia avanzata potranno tutelare in modo efficace la privacy dei contagiati.
Intanto mi lasci portare la nostra solidarietà nei confronti dell’Italia che sta passando un momento molto difficile e di grande sofferenza. Posso solo dire che questo tipo di virus è molto difficile da contenere una volta che si è diffuso. Bisogna cercare di bloccarlo nelle fasi iniziali. Però sono certo che il governo italiano con collaborazione di tutti cittadini potrà vincere la battaglia. In questa fase bisogna mantenere il distanziamento sociale: non incontrate nessuno, evitate le spostamenti non essenziali, restate a casa.
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