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Copyright: le cose che i cittadini dovrebbero sapere (e non sanno)

Immagine di copertina
Grafica da liberties.eu (analisi sul Copyright raggiungibile a questo link: https://bit.ly/2gd1MMJ)

Stiamo risolvendo il problema o lo stiamo creando? La domanda che nessuno si pone sui media mainstream, quelli che “fanno opinione”, dovrebbe riecheggiare sia nella mente di tutti coloro che “fanno informazione” che di coloro che ne usufruiscono.

Il vero problema, poco raccontato della direttiva “Copyright” approvata dall’Europarlamento è proprio nella domanda qui sopra. Chi sa rispondere? Semplicemente, nessuno. Il quadro fornito dal dispositivo legislativo è infatti fumoso. Elenca principi, pone paletti, erge barriere. Ma non propone soluzione alcuna.

Chi è favorevole alle nuove regole sostiene di avere dalla sua parte due anni di tempo per sistemare la questione.

Chi è contrario, che Google e co., ha due anni di tempo per aggirare i divieti o proporre nuove soluzioni.

Tra un folto gruppo di politici europei e un piccolo gruppo di miliardari californiani, dovremmo avere pochi dubbi su chi delineerà il terreno di gioco tra 18 mesi. Ognuno faccia pure la sua puntata. Personalmente, non ho il minimo dubbio a dare i miei “two cents” in mano, uno ciascuno, a Sundar “Google” Pichai e Mark “Facebook” Zuckerberg.

E forse, mai come stavolta (che paradosso!), li do volentieri. Perché quanto scritto soprattutto negli articoli 11 e 13 della direttiva è realmente pericoloso.

Al centro di tutto il dispositivo non c’è infatti la questione della “legalità”, come raccontato, ma una vera e propria guerra – combattuta lontano dai riflettori – sulla redistribuzione della ricchezza che genera l’Internet.

Mi rifaccio a Valigia Blu non per pigrizia, ma perché una delle caratteristiche di fare informazione online è – o dovrebbe essere – “se qualcuno lo ha scritto meglio, non riscriverlo: citalo e linkalo” (dal manifesto per lo slow journalism di slow-news.com). E perché questo esercizio, tra 18 mesi, non potrebbe essere più permesso. A meno che non si paghi.

“Gli editori”, scriveva Bruno Satta in quello che è l’ormai lontanissimo agosto 2016, “per tamponare le perdite dovute al difficoltoso passaggio all’economia digitale – qualcuno direbbe per la loro incapacità di adattarsi alle nuove tecnologie – hanno preteso strette legislative per limitare il più possibile la circolazione delle opere letterarie online, chiedendo l’estensione dei loro diritti. Visto che non riescono a fare sufficienti profitti col loro lavoro, frignano verso il legislatore chiedendo di mungere la vacca grassa: Google”.

Quasi tre anni dopo, a direttiva approvata, lo scenario è, se possibile, peggiorato. Si è passati dalla teoria alla pratica e, dall’entrata in vigore delle nuove norme, dovranno essere gli editori stessi ad autorizzare espressamente ogni ripubblicazione delle proprie notizie, di fatto prevedendo una sorta di “licenza” per poter mettere anche solo un link che non sia “nostro”.

“La norma in questione”, spiega sempre Valigia Blu in un’analisi approfondita della direttiva, “non tutela affatto gli autori, ma mira palesemente a proteggere gli investimenti economici, così coprendo qualsiasi contenuto indipendentemente da una loro originalità”.

In Spagna ci avevano già provato. Il risultato? Google News ha chiuso i battenti e fatto le valigie. Il problema è che questo si è tradotto in una spaventosa perdita di introiti per quei siti, praticamente tutti, che facevano dell’aggregatore di notizie di Mountain View un pilastro, se non “il” pilastro, del proprio modello di business.

Chi ha vinto? Chi ha perso? Risposta scontata. Va qui ricordato che Google ha annunciato a gran voce che non firmerà mai accordi con “tutti” gli editori, riservandosi di valutare “caso per caso”. Il motivo: la tesi (e sfidiamo a definirla sbagliata) è che di fatto Google, tramite “News”, già “redistruibuisce” o “distribuisce” ricchezza agli editori veicolando il traffico sui vari portali di informazione.

Google News fornisce, che piaccia o no, un servizio al mondo dell’editoria. E ora quel mondo vuole addirittura essere pagato per un servizio che – teoricamente e in maniera volutamente provocatoria – dovrebbe pagare. In questo scenario, quindi, gli unici che rischiano di rimetterci sono i piccoli e i piccolissimi editori. Ergo, l’informazione come valore democratico.

Veniamo poi all’articolo 13, quello secondo il quale ogni sito deve (dovrebbe) acquisire una particolare licenza per consentire e vedersi consentito la possibilità di caricare qualsiasi tipo di contenuto. Non solo. Come ricorda sempre Valigia Blu, “i siti dovranno fare il possibile (letterale, ndr) per impedire che un contenuto che viola il copyright sia immesso nei loro server”. Sarà esente da questo obbligo solo chi:

  • È online da meno di 3 anni.
  • Fattura meno di 10 milioni l’anno.
  • Ha meno di 5 milioni di visitatori unici al mese.

A preoccupare (a modesto avviso di chi scrive) sono proprio gli strumenti di filtraggio: è concretamente possibile, altra domanda, filtrare tecnicamente – per difenderne il copyright – tutti i contenuti immessi dagli utenti? E, per “tutti”, intendiamo proprio tutti: ogni singolo carattere di testo, ogni nota musicale, ogni traccia audio. Ogni foto e immagine, mappa. Il costo di tali sistemi sarà esso stesso barriera insuperabile per un piccolo o piccolissimo editore. Forse anche medio. E se – altra domanda – Youtube dovesse decidere, per evitare di incorrere in sanzioni, di far pagare chi carica un contenuto sulla piattaforma? Avremmo vinto o perso?

Potremmo continuare ancora a lungo a elencare i difetti, i rischi, di questa direttiva. Il più grave è proprio nei parametri delle “esenzioni”. Non è chiaro se vale la regola del “3su3” o “1su3” (altro difetto della norma). Passi quello dei 10 milioni di fatturato. Il primo – meno di 3 anni di vita – e il terzo – meno di 5 milioni di views/mese – salveranno solo quelle realtà che sono talmente piccole da non impensierire, in termini economici ovviamente e non qualitativi, i media mainstream. Perché la chiave è sempre lì: “Battici pure sulla qualità dell’informazione, ma non toccare i nostri soldi”.

Perché il vero obiettivo di questa direttiva è costringere i grandissimi del web a pagare i grandi. A foraggiare quella che Valigia Blu chiama, in una fortunata espressione, “l’industria del copyright”. Perché “il resto, i diritti dei cittadini, gli artisti, le piccole aziende, le start-up, sono solo meri accidenti sul percorso”.

L’industria tecnologica, l’industria emergente (se ancora la si può ritenere tale) “deve” pagare l’industria dei contenuti e l’editoria, l’industria più vecchia ed incapace di adattarsi all’ambiente digitale, se vuole continuare a fare il suo business. E come contentino, si introducono degli obblighi talmente stringenti che finiscono per porre delle barriere all’ingresso del mercato delle piattaforme del web, che potranno consolidare la loro posizione semi monopolistica. Il cerchio si chiude.

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