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Cop29, i 300 miliardi per i Paesi vulnerabili sono pochi e incerti: “Si gioca con la vita delle persone”

Immagine di copertina
Credit: AGF

"Siamo venuti in buona fede, con a cuore la sicurezza delle nostre comunità e il benessere del mondo. Eppure, abbiamo visto il peggio dell'opportunismo politico", protesta Tina Stege, inviata per il clima delle Isole Marshall. Il punto da Baku di Giorgio Brizio

Baku – Nella notte tra sabato 23 e domenica 24, alle 2.40 ora di Baku, il presidente di Cop29, l’azerbaigiano Mukthar Babayev, ha battuto il martelletto sancendo l’adozione del punto 11a, quello sul più importante dossier di questa 29esima Conferenza sul clima, il New Collective Quantified Goal.

Nell’anno più caldo da quando esistono le rilevazioni e in cui più di metà della popolazione mondiale è stata chiamata al voto, i Paesi delle Nazioni Unite sono riusciti ad approvare un testo con al centro la finanza per il clima. Il nuovo obiettivo prevede lo stanziamento di “almeno 300 miliardi di dollari” all’anno entro il 2035, principalmente da parte dei Paesi sviluppati verso quelli in via di sviluppo (G77), per permettere loro di affrontare gli effetti della crisi climatica e ridurre le proprie emissioni.

Il precedente obiettivo finanziario di 100 miliardi all’anno viene quindi triplicato, ma i Paesi del G77 chiedevano 1.300 miliardi, che era la cifra proposta da tre economisti di fama mondiale, a fronte di perdite e danni dovuti al cambiamento climatico che si stimano siano già di cinque volte superiori. C’è un gap, quindi, di 1.000 miliardi.

I 1.300 miliardi sono citati, e una road map che porterà da Baku a Belem (dove si svolgerà Cop30) dovrebbe verificare come poterli raggiungere. Di questa cifra, che è al momento una vaga aspirazione senza valore legale, sono quindi solo 300 i miliardi con un impegno giuridicamente vincolante.

Bisogna poi vedere come questi soldi saranno erogati: secondo i Paesi in via di sviluppo avrebbero dovuto essere solo pubblici ed erogati a fondo perduto, mentre alla fine si tratterà di “un’ampia varietà di fonti”, che includono fondi pubblici e privati, bilaterali e multilaterali, concessioni e prestiti: c’è tutto dentro.

L’accordo sulla finanza raggiunto a Baku inciderà sull’ambizione dei piani nazionali di riduzione delle emissioni, che tutti i Paesi dovranno consegnare entro la primavera dell’anno prossimo (l’Unione europea lo fa per tutti i 27) e che segneranno il risultato della Cop30 di Belem.

La strategia europea era accettare di mettere sul piatto più soldi di quanto i budget nazionali permetterebbero, ma in cambio di due cose: l’allargamento della base di donatori e nuovi sforzi globali per la riduzione delle emissioni.

Sul primo fronte, le formulazioni usate lasciano la possibilità di includere e incoraggiano i contributi di Paesi con elevate emissioni o capacità contributiva (Cina, Corea del Sud, Singapore, Paesi del Golfo), ufficialmente non inseriti tra quelli “sviluppati” nella Convenzione Onu sul Clima. Per la prima volta i funzionari cinesi hanno rivelato che Pechino ha finanziato progetti climatici in altre nazioni in via di sviluppo per 24 miliardi di dollari.

Rispetto al rafforzamento del linguaggio sulla riduzione delle emissioni, i Paesi esportatori di petrolio – aiutati dalla presidenza (il 92% dell’export azerbaigiano sono idrocarburi) che ha condotto una negoziazione caotica – sono riusciti a rimandare il tutto a Belem. Inoltre, per approvare il testo, Babayev ha battuto il martelletto senza chiedere se ci fossero obiezioni, con una significativa forzatura procedurale della pratica del consenso.

L’India, che ha preso la parola subito dopo facendo un intervento durissimo, ha detto che si “oppone all’adozione di questo documento”. Che l’accordo è una “illusione ottica”. I soldi per i Paesi vulnerabili sono effettivamente pochi rispetto ai bisogni: arriveranno – se arriveranno – da fornitori incerti e nella loro interezza solo a metà del prossimo decennio, quando la crisi climatica (e l’inflazione, come ha sottolineato la Nigeria) saranno ancora più gravi.

“Questa Cop è stata un disastro per i Paesi in via di sviluppo. È un tradimento sia alle persone che al Pianeta, da parte dei paesi ricchi che affermano di prendere sul serio il cambiamento climatico”, afferma Mohammed Adow, direttore di Power Shift Africa e co-portavoce di Climate Action Network, la più grande alleanza di movimenti e organizzazioni della società civile.

Ma il commento che forse più di tutti riesce a tenere assieme gli esiti di questa Cop, a cui affidare la fine di questo articolo e di questo racconto, è di Tina Stege, inviata per il clima delle Isole Marshall: “Siamo venuti in buona fede, con a cuore la sicurezza delle nostre comunità e il benessere del mondo. Eppure, abbiamo visto il peggio dell’opportunismo politico qui a questa Cop, giocando con le vite delle persone più vulnerabili del mondo. Le lobby dei combustibili fossili sono state determinate a bloccare i progressi e a minare gli obiettivi multilaterali che abbiamo lavorato per costruire. Non si può permettere che questo accada. […] Nonostante gli ostacoli, abbiamo lottato duramente e abbiamo ottenuto qualcosa per le nostre comunità. Ce ne andiamo con una piccola parte dei finanziamenti di cui i Paesi vulnerabili al clima hanno urgentemente bisogno. Non è abbastanza, ma è un inizio, e abbiamo chiarito che questi fondi devono essere accompagnati da meno ostacoli per raggiungere coloro che ne hanno più bisogno. Abbiamo anche respinto coloro che hanno cercato di annullare gli accordi presi sull’eliminazione graduale dei combustibili fossili. […] I Paesi sembrano aver dimenticato il motivo per cui siamo tutti qui. È per salvare vite umane. È per salvare vite umane. Dobbiamo lavorare sodo per ricostruire la fiducia in questo processo vitale”.

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