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Ribelli, bracconieri e terroristi islamici: la violenza in Congo e la morte dell’ambasciatore Attanasio

Immagine di copertina
Un soldato dell'esercito congolese nella zona del Beni, provincia del Nord Kivu. Credit: ANSA

Il Parco nazionale del Virunga, un'area nell'est del Congo ricchissima di biodiversità e risorse naturali dove sono stati uccisi l’ambasciatore Attanasio e il carabiniere Iacovacci, è contesa da anni da vari gruppi armati, aziende minerarie, bracconieri e terroristi

“Tutto ciò che noi in Italia diamo per scontato non lo è in Congo dove purtroppo ci sono ancora tanti problemi da risolvere”, aveva detto qualche anno fa in un’intervista l’ambasciatore italiano in Repubblica Democratica del Congo, Luca Attanasio, ucciso oggi in un attentato insieme al carabiniere della scorta, Vittorio Iacovacci, e Mustapha Milambo, autista del World Food Programme (WFP).

Nonostante non siano ancora stati chiariti i dettagli e i moventi dell’attacco, avvenuto su una strada precedentemente dichiarata sicura tra Goma e Rutshuru, nel Nord Kivu, contro un convoglio del WFP, l’humus in cui è maturato l’eccidio, tuttora non rivendicato, vede intrecciarsi conflitti passati e attualmente in corso tra forze regolari, ribelli interni e stranieri, bande armate, gruppi criminali e organizzazioni terroristiche, anche di matrice fondamentalista islamica.

La strage di oggi segue di 60 anni un altro massacro compiuto nell’ex Congo belga contro 13 aviatori italiani a Kindu nell’allora regione del Kivu, attualmente divisa in tre diverse province, tra cui quella in cui si è consumata la tragedia odierna. Oggi, certo meno di allora, la Repubblica Democratica del Congo è ancora divisa da conflitti di matrice etnica, religiosa e predatoria dal punto di vista ambientale, umano, economico, sociale e politico.

Se nel 1961 la crisi del Katanga aveva costretto le Nazioni Unite a intervenire per evitare una sanguinosa secessione, che portò a una brutale guerra civile, la missione MONUSCO dell’Onu, che prima del 2010 operava con il nome di MONUC e che soltanto a dicembre è stata rinnovata per altri 12 mesi, è impegnata a lavorare a un programma di transizione che nei prossimi anni ne assicuri l’uscita dal Paese dopo oltre un ventennio di attività in cui non sembra riuscita a garantire quella solida stabilizzazione a cui mirava.

La situazione risulta infatti disperata in primis dal punto di vista umanitario. Quasi 930.000 persone provenienti dalla Repubblica Democratica del Congo, stando ai dati di Human Rights Watch, erano state registrate a novembre come rifugiati o richiedenti asilo in almeno 20 Paesi del mondo. A questi vanno ad aggiungersi i quasi 5,5 milioni di sfollati che vivono in tutto il Paese africano.

Particolarmente difficile appare la situazione nelle regioni orientali, soprattutto nelle province di Ituri, del Sud Kivu e del Nord Kivu, quest’ultima teatro sin dagli anni Novanta di un’insurrezione di matrice islamica proveniente dal vicino Uganda, a cui dal 2019 si sono uniti anche gruppi terroristici fedeli al sedicente Stato Islamico.

Inoltre, negli ultimi trent’anni il luogo dell’attentato, all’interno del Parco nazionale del Virunga, una striscia di 7.800 chilometri quadrati di territorio al confine con Uganda e Ruanda, grande quasi quanto Cipro, è diventato rifugio di migliaia di persone in fuga da conflitti etnici e religiosi e di ogni genere di bande armate, dedite non solo all’insurrezione contro le autorità di Kinshasa, Kigali e Kampala ma soprattutto alla caccia di frodo, alla pesca illegale e alla deforestazione.

L’area, unico habitat al mondo a ospitare lo scimpanzè orientale, il gorilla di montagna e il gorilla delle pianure orientali, tre specie a rischio estinzione, è terreno di conquista anche per le compagnie petrolifere, attirate dagli immensi giacimenti del lago Edoardo che per tre quarti ricade all’interno del Parco, e per le aziende minerarie, interessate alle riserve di coltan, così prezioso per gli smartphone e gli aerei moderni.

Rifugiati, milizie armate, bracconieri, gruppi criminali, organizzazioni terroristiche e compagnie energetiche e minerarie si contendono così questo vero e proprio paradiso della biodiversità, il più antico parco naturale dell’Africa, istituito nel 1925, poi dichiarato sito Patrimonio mondiale dell’Umanità dall’UNESCO e difeso da un corpo di 689 ranger che in 10 anni ha contato tra le proprie fila quasi 200 vittime, le ultime uccise proprio all’inizio del 2021 in uno scontro con un gruppo armato non identificato.

La pista dei sequestri conduce alle milizie attive in Nord Kivu

Almeno 120 gruppi armati, secondo il Kivu Security Tracker, che documenta la violenza in Congo orientale, risultano attivi solo nelle province del Nord Kivu, Sud Kivu, Ituri e Tanganica, dove gli attacchi e i rapimenti contro la popolazione sono all’ordine del giorno. Oltre 1.500 civili sono rimasti uccisi in queste zone soltanto l’anno scorso a seguito di diversi scontri, mentre in molti casi gli aggressori armati si sono resi responsabili di violenze sessuali ai danni di donne e ragazze del posto, vittime anche di numerosi sequestri.

Proprio un tentativo di rapimento sembra essere l’ipotesi a cui lavorano le autorità locali per spiegare l’attentato costato la vita ad Attanasio e Iacovacci. Human Rights Watch riporta in proposito più di 570 sequestri a scopo di riscatto avvenuti nel Nord Kivu e nel Sud Kivu tra il 2019 e il 2020.

Ma non è solo una questione di denaro. Negli ultimi anni, secondo il dipartimento di Stato degli Stati Uniti, i gruppi armati attivi in Congo orientale “hanno rapito numerose persone, generalmente per obbligarle al lavoro forzato, al servizio militare o per ridurle in schiavitù sessuale” e “molte di queste vittime risultano tuttora scomparse”.

Stando a un rapporto pubblicato ad agosto 2019 da Human Rights Watch e dal Congo Research Group, tra giugno 2017 e giugno 2019 sono state rapite 3.316 persone nelle province del nord e del sud Kivu, definite “uno dei luoghi più violenti al mondo”. Tra i sequestrati, secondo le Nazioni Unite e le ong presenti sul posto, figuravano anche 46 minori.

Secondo il dipartimento di Stato degli Stati Uniti, il principale gruppo impegnato in rapimenti in Nord Kivu, dove si è consumata la strage di oggi, sono le Allied Democratic Forces (ADF), un gruppo di ispirazione islamica accusato di sfruttare i sequestri a scopo di reclutamento, matrimonio forzato e finanziamento delle proprie attività.

L’insurrezione islamista e l’arrivo dell’Isis

Fondato nel 1995 con l’obiettivo di rovesciare il governo ugandese e di sostituirlo con un’amministrazione che imponesse la Sharia, l’ADF si è trincerato da oltre vent’anni nella provincia del Nord Kivu, in Repubblica Democratica del Congo, nei pressi dei Monti Ruwenzori vicino al confine con l’Uganda.

Considerato un’organizzazione terroristica dalle autorità ugandesi, l’ADF è stato fondato da Shaykh Jamil Mukulu, nato David Staven e convertitosi all’Islam dal cattolicesimo. Attualmente in carcere a Kampala dopo essere stato estradato dalla Tanzania nel 2015, il fondatore del gruppo armato è stato accusato di esser stato in contatto con Osama Bin Laden e di aver ricevuto un addestramento particolare in Sudan e Afghanistan negli anni Novanta.

Pur promuovendo sin dalla nascita posizioni vicine al fondamentalismo religioso, il gruppo si è progressivamente spostato su posizioni sempre più oltranziste, fino ad arrivare ad avere contatti con al-Qaeda e con il sedicente Stato Islamico. Quest’ultima organizzazione ha effettivamente rivendicato una manciata di attentati compiuti in Congo orientale negli ultimi due anni, dopo aver riconosciuto ufficialmente nel 2018 l’ADF come gruppo affiliato, che non opera affatto come una milizia clandestina.

Dalla fine degli anni Novanta, l’organizzazione fondata da Mukulu ha infatti istituito in Nord Kivu una rete di campi da cui governa le aree sotto il proprio controllo come un’entità statale, addestrando miliziani e gestendo un servizio di sicurezza interna, una prigione, varie cliniche sanitarie e un orfanotrofio, oltre a una scuola per ragazzi e ragazze con tanto di lezioni di inglese e informatica, in aperto contrasto con altre organizzazioni fondamentaliste islamiche attive in Africa, come Boko Haram.

Nonostante l’attitudine ai sequestri di persona, l’ADF risulta principalmente attivo nell’area di Beni, a oltre 340 chilometri dal luogo dell’attentato odierno, a cui potrebbe risultare estraneo. Il gruppo armato costituisce comunque un grave pericolo per la popolazione locale, essendosi reso responsabile, secondo il Kivu Security Tracker, di almeno il 37 per cento delle vittime civili uccise negli scontri armati avvenuti nella provincia negli ultimi tre anni, più di qualunque altra milizia presente nell’area.

La galassia hutu riconducibile alle FDLR, possibili responsabili dell’attacco

Tra le organizzazioni più presenti nell’area dell’attentato figurano invece le Forces démocratiques pour la libération du Rwanda (FDLR), indicate dalle autorità locali come possibili responsabili della strage. Nata nel 2000 dalla fusione di due gruppi armati hutu, l’organizzazione rappresenta una delle ultime fazioni di ribelli ruandesi attive in Congo.

Le FDLR costituiscono l’ala politica mentre le Forces combattantes Abacunguzi (FOCA) rappresentano il braccio armato dell’organizzazione. Raggiunto l’apice della propria potenza militare ed economica nei primi anni 2000, dopo aver cercato di allontanare il gruppo dalla facile associazione con il genocidio compiuto in Ruanda nel decennio precedente contro l’etnia tutsi, in cui diversi leader del gruppo erano implicati, nello scorso decennio le FDLR hanno cominciato a subire una serie di scissioni, che hanno visto ad esempio la nascita del gruppo RUD-Urunana, coinvolto spesso nei rapimenti compiuti in Nord Kivu.

Da allora, le attività delle FDLR sono state in gran parte limitate ai territori compresi tra Masisi a ovest e Rutshuru a est, proprio la località verso cui si dirigeva il convoglio del WFP su cui viaggiavano Attanasio e Iacovacci. Secondo un rapporto dello scorso anno di Human Rights Watch, nell’area del Parco Nazionale del Virunga, vicino Rutshuru, almeno 170 persone sono state sequestrate tra l’aprile del 2017 e il marzo del 2020.

Inoltre, sempre secondo il Kivu Security Tracker, nell’area dell’attacco sono presenti anche gruppi riconducibili al Collectif des Mouvements pour le Changement (CMC), una coalizione di organizzazioni armate di etnia hutu, alcune delle quali dirette da leader delle FDLR, che promuovono la presunta autodifesa delle popolazioni locali dagli abusi dei militari di Kinshasa, che restano comunque la forza preponderante nell’area.

Congo orientale: una terra senza pace

L’esercito congolese infatti è, persino per le Nazioni Unite, il principale attore responsabile della violenza nell’est del Paese africano, dove i militari sono accusati di compiere abusi contro la popolazione, di complicità con alcuni gruppi armati o semplicemente di restare inerti di fronte agli attacchi contro i civili.

Se i diversi gruppi armati mostrano una grande varietà di interessi e obiettivi, reclutando per lo più i propri membri tra i rispettivi gruppi etnici senza nutrire l’ambizione di estendere la loro influenza al di fuori delle zone controllate, tutti sostengono, almeno ufficialmente, di combattere per la sopravvivenza economica, la difesa della dignità, il rispetto, e l’autodifesa delle popolazioni locali.

Qualsiasi soluzione alla violenza, secondo il Kivu Security Tracker, richiederebbe quindi il miglioramento delle condizioni e dei servizi offerti ai civili e la creazione di mezzi di sussistenza alternativi per le migliaia di combattenti che militano nei gruppi armati attivi in Congo orientale attraverso programmi pubblici di smobilitazione. Stando a Human Rights Watch, diverse migliaia di miliziani si sono effettivamente arresi nel 2020 ma molti sono tornati nei gruppi armati a causa dell’incapacità delle autorità congolesi di attuare efficaci programmi di disarmo, smobilitazione e reintegrazione sociale.

La comunità internazionale resta per lo meno poco attenta alle violenze in corso nel Paese africano, rischiando anzi di rendersene complice. A dicembre, l’Unione europea ha rinnovato le sanzioni economiche e le restrizioni all’accesso nel territorio comunitario imposte contro 11 alti funzionari congolesi, andando poco oltre questo genere di provvedimenti. Ad agosto scorso invece, gli Stati Uniti hanno ripreso la cooperazione militare con Kinshasa, sospesa nel 2018 quando l’esercito congolese fu sorpreso a sostenere gruppi armati noti per il reclutamento di bambini soldato.

Infine, il principale organismo internazionale intervenuto nel Paese per la pace, la missione dell’Onu MONUSCO, resta ai margini del conflitto e della politica congolese, in contrasto con il ruolo assunto dal 1999 al 2006, limitandosi in gran parte a fornire supporto militare al governo e a denunciare le violazioni dei diritti umani, senza però riuscire a intervenire per evitarle.

Leggi anche: 1. “Dicono sia pericoloso, ma fare l’ambasciatore è una missione”: il discorso di Attanasio sulla vita in Congo / 2. Chi è Zakia Seddiki, la moglie dell’ambasciatore Attanasio (premiata insieme a lui nel 2020)

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