Dentro le concerie del Marocco: il fascino senza tempo di Fez e Marrakech
Sandro Montefusco ha realizzato un reportage addentrandosi tra i vicoli di due città del Marocco dove si pratica ancora l'antica arte della lavorazione della pelle
Ogni città araba conserva la sua medina, luogo di frenetica attività, di incontro, di commercio, o anche solo di passeggio.
Con le sue strade strette, le sue antiche tradizioni e i ritmi frenetici, la medina rappresenta già di per sé un luogo del passato, dove si possono facilmente immaginare gli antichi commercianti arabi farsi strada tra i venditori, contrattando sul prezzo della merce, o le donne fare gli acquisti per la casa e il pranzo della giornata.
È stato proprio nell’intricato labirinto delle strade della medina di Marrakech e di Fez che ho trovato un luogo unico e dal fascino irresistibile.
Improvvisamente, dopo aver girato tra gli angoli e le strade claustrofobiche dei mercati, mi si è aperto un varco su uno spazio molto più grande, impensabile da trovare in un così stretto groviglio di muri e vicoli ciechi: le concerie per la lavorazione delle pelli.
Ma le tanneries, come le chiamano in francese, non sono solo uno spazio fisico, un cortile che si fa largo tra le mura strette. Sono anche una vera e propria porta nel tempo, una delle poche possibilità che ci restano nel mondo moderno per conoscere il fascino del nostro passato.
Quello che colpisce subito, prima ancora di accedere alle zone di lavorazione del pellame, non sono i colori sgargianti delle vernici che sgorgano verso la grata di raccolta, e nemmeno il frenetico vociare dei lavoratori che si guadagnano la giornata. Ma ciò che resta impresso è l’odore.
Un acre e penetrante odore mai sentito prima, un misto di sangue, pelli in decomposizione e coloranti chimici. All’entrata mi porgono rametti di menta da tenere sotto il naso, ma non sempre sono un espediente sufficiente.
A tutto questo si uniscono gli odori dei muli che trasportano le pelli e dei loro escrementi, spesso non puliti da giorni.
Sull’ampio cortile si affacciano molte porte, da alcune socchiuse si intravedono i lavoratori che prima di tutti trattano le pelli, spazzolandole accuratamente per eliminare i peli e accatastandole in alti mucchi vicino all’entrata. Per ammorbidirle altri lavoratori usano una pastura contenente escrementi di piccioni, un ingrediente fondamentale per ottenere un prodotto di qualità, ma dall’odore nauseabondo.
Immergono le pelli in una vasca contenente un liquido misto alla pastura e calati fino alle cosce le agitano con i piedi per ore.
Al centro, nelle vasche di colorazione lavorano una decina, forse quindicina di persone, tutti uomini. Si immergono senza alcuna protezione fino al busto nelle acque putride dei coloranti al cromo e da esse tirano fuori le pelli in lavorazione.
Le passano da una vasca all’altra, per colorarle di quei colori sgargianti che poi ritrovo nei negozi di borse della medina.
Quando sono pronte, le caricano ancora bagnate sul dorso dei muli che lenti le trasportano verso la lavorazione successiva.
A noi occidentali questo tipo attività può apparire come un simbolo di arretratezza culturale in un paese che non garantisce le minime condizioni sanitarie ai suoi lavoratori.
Eppure le tanneries conservano ancora il fascino di un tempo antico, lontano dalle efficienti, sicure e fredde industrie moderne.
Varcare quella porta è come immergersi nei colori vibranti e nell’odore pungente di un passato che resiste.