Un pezzo di Congo in tasca
Un attivista di origine congolese ha deciso di marciare a piedi per sensibilizzare l’opinione pubblica sullo sfruttamento delle miniere di coltan
John Mpaliza è originario della Repubblica Democratica del Congo, vive in Italia da 22 anni ed è un ingegnere informatico.
Dal 2010, con uno zaino in spalla, una chitarra e tante bandiere, cammina in giro per l’Europa con uno scopo: sensibilizzare l’opinione pubblica sul grande sfruttamento che sta subendo il popolo congolese.
“Ho scelto di marciare a piedi perché così posso arrivare al cuore della gente, incontrare molte persone, soprattutto tanti giovani, e posso spiegare loro cosa sta succedendo oggi nel mio Paese”, mi racconta.
“Alcune multinazionali e alcuni Paesi stanno sfruttando il territorio congolese e i suoi abitanti, facendoli lavorare come schiavi, per estrarre il coltan”.
Che cos’è il coltan?
Il coltan, anche noto come sabbia nera, è composto da due minerali: la columbite e la tantalite, dalla quale si estrae il tantalio, che viene utilizzato soprattutto nell’industria della telefonia e dei computer.
“Il coltan viene commerciato illegalmente tra i Paesi confinanti, come Uganda, Ruanda e Burundi”, mi dice John. “Ogni giorno muoiono uomini e bambini che, pur di racimolare qualche soldo, scavano a mani nude nelle miniere”.
Come riporta The Atlantic, diverse miniere in Repubblica Democratica del Congo sono controllate da gruppi armati illegali e le risorse minerarie estratte contribuiscono a finanziare la guerriglia e il traffico di armi. Ecco perché questo minerale talvolta viene anche soprannominato coltan insanguinato.
“Voglio che la gente sappia quante vite spezzate ci sono dietro ai loro cellulari. Voglio che si prenda coscienza del fatto che ciascuno di noi ha un pezzo di Congo in tasca”, aggiunge John.
Perché marciare in giro per l’Europa?
Il suo desiderio di marciare a piedi è nato nel 2009, dopo un viaggio a Kinshasa, la capitale della Repubblica Democratica del Congo. Era la prima volta che ci ritornava dopo il 1991, quando aveva dovuto lasciare la città.
“Ciò che ho visto quando sono tornato è stato per me qualcosa di devastante”, mi racconta. “Mi sembrava l’inferno in terra. Mi sono trovato di fronte un Paese distrutto, completamente devastato dalla guerra e sfruttato fino all’osso per il commercio di legname, petrolio, diamanti, oro e coltan”.
La guerra a cui fa riferimento John è la cosiddetta “prima guerra del Congo” scoppiata nel 1996. A causa del genocidio del Ruanda nel 1994, durante il quale le milizie dell’etnia hutu sterminarono all’incirca tra le 800mila e un milione di persone dell’etnia dei tutsi, ci fu una forte ondata di profughi ruandesi nei vari Paesi vicini, tra cui la Repubblica Democratica del Congo, l’allora Zaire. Anche qui, dunque, si rinfocolarono le tensioni etniche, mentre si stava disgregando la dittatura trentennale di Mobutu (in carica dal 1965 al 1997).
Scoppiò così una guerra civile: gli oppositori di Mobutu, aiutati dai tutsi congolesi, dall’Uganda e dall’Angola, formarono l’Alleanza delle Forze Democratiche per la liberazione dello Zaire (AFDLC), guidata da Laurent-Désiré Kabila, che sconfisse le forze di Mobutu e si autoproclamò presidente della Repubblica Democratica del Congo (in carica dal 1997 al 2001).
Tuttavia, la caduta di Mobutu e la presa di potere da parte di Laurent-Désiré Kabila non riportarono la pace nel Paese, tanto che nel 1998 scoppiò la seconda guerra del Congo.
Nonostante il conflitto congolese si sia ufficialmente concluso nel 2003, le violenze e gli scontri nel Paese continuano. Quella della Repubblica Democratica del Congo è stato spesso definita come “la tragedia umanitaria più trascurata“ al mondo. In totale ci sono state 5.4 milioni di vittime dal 1998 e nel 2014 c’erano 2.8 milioni di sfollati nel Paese.
“Questo conflitto – mi spiega John – ha causato milioni di morti, mio padre è stato ucciso e una delle mie sorelle è ancora dispersa. Le principali armi di questa guerra – continua – non sono state le bombe e i fucili, ma gli stupri. Decine di centinaia di donne vennero violentate….mia madre preferisce pensare mia sorella morta piuttosto che sia stata stuprata”.
Una volta tornato in Italia, il dolore per ciò che aveva visto nel suo Paese era talmente forte che John ha sentito l’esigenza di reagire, di attivarsi per aiutare il suo popolo. Dopo aver compiuto già quattro marce dal 2010 al 2014, John è ora in viaggio per compierne una quinta, che durerà cinque mesi e sarà lunga circa tremila chilometri.
Dallo scorso 3 maggio infatti, partito da Reggio Emilia, dove vive, sta camminando per arrivare a Helsinki, in Finlandia.
“Molte volte il dolore fisico per la fatica di marciare a piedi si somma al dolore interiore – mi confida – è qualcosa che con il passare del tempo mi sta logorando nell’animo, ma io voglio continuare a marciare per diffondere quanto più possibile cosa sta succedendo nel mio Paese e per chiedere alle istituzioni internazionali ed europee che venga resa obbligatoria la tracciabilità dei minerali, per dare alle imprese la possibilità di acquistare in modo responsabile i minerali, quando questi provengono da zone di sfruttamento o di conflitto”.
Lo scorso 20 maggio, John e gli altri attivisti impegnati sul tema dei minerali insanguinati hanno ottenuto una piccola vittoria. Il Parlamento europeo ha infatti approvato un emendamento a una proposta della Commissione europea, che introduce l’obbligo di tracciabilità per le industrie che importano minerali provenienti da zone di conflitto (come stagno, tungsteno, oro e tantalio).
Destinazione Africa
Dopo aver viaggiato in lungo e in largo in Italia ed Europa, John vuole fare ritorno nel suo Paese. “Il prossimo anno – mi dice – voglio tornare in Africa, per sensibilizzare anche i giovani africani, per renderli più consapevoli di ciò che hanno nel loro sottosuolo. Non posso aiutare l’Africa stando in Europa, devo tornare per fare qualcosa di concreto lì”. Quando gli chiedo: “Ma non hai paura di tornare?”, lui mi risponde: “Cosa può valere la mia vita in confronto a otto milioni di vite spezzate?”.