“Senza pace non c’è calcio”: in Colombia la protesta contro il governo arriva fuori dagli stadi
Mentre Argentina e Colombia si sfidavano a Barranquilla (Colombia), fuori dallo stadio imperversavano le proteste contro il governo di Iván Duque. Da più di un mese la polizia sta reprimendo le manifestazioni pacifiche a colpi d’arma da fuoco.
“Senza pace non c’è calcio”. Era questo il motto delle centinaia di manifestanti riunitisi ieri nei pressi dello Stadio Metropolitano di Barranquilla, sul versante caraibico della costa colombiana. In campo, Colombia e Argentina si sfidavano in una partita valida per le qualificazioni a prossimi Mondiali, che si disputeranno in Qatar nel 2022. Dopo l’iniziale doppio vantaggio della nazionale albiceleste, i gol di Luis Muriel e di Miguel Borja portavano i padroni di casa ad agguantare un insperato pareggio.
In altri tempi, il gol allo scadere di Miguel Borja sarebbe stato accolto nelle strade colombiane con festose celebrazioni. Tuttavia, il clima sociale che si respira nel paese ‘cafetero’ da oltre un mese a questa parte lascia poco spazio per i festeggiamenti.
La quotidiana repressione delle manifestazioni antigovernative sta rievocando in diverse città colombiane gli spettri degli anni più bui del conflitto armato interno –spettri che mai hanno abbandonato tante aree rurali del paese. Così, a poche decine di metri dallo stadio, le proteste nei confronti del governo neoliberale di Iván Duque imperversavano: “Si no hay paz, no hay fútbol”.
Ancora una volta, i manifestanti sono stati respinti con la forza dall’ESMAD, unità speciale della polizia colombiana, notoriamente controversa per le sistematiche pratiche di repressione violenta delle manifestazioni urbane. Fondata nel 1999, l’ESMAD è un’unità creata nei momenti più difficili della guerra civile tra Stato e FARC, ed ha acquisito da subito un carattere d’azione integralmente militarizzato e profondamente inadatto al controllo delle manifestazioni pacifiche.
Il bilancio della repressione
A dimostrarlo è il bilancio provvisorio della repressione di queste settimane: a partire dal 28 aprile, data di inizio delle mobilitazioni, 68 civili hanno perso la vita nel contesto delle proteste, 1100 persone sono rimaste ferite, più di 100 risultano ancora scomparse. L’organizzazione Human Rights Watch, incaricata di analizzare le denunce e visionare le autopsie, ha già dimostrato le responsabilità diretta della polizia nazionale nella morte di decine di manifestanti, uccisi a colpi di arma da fuoco dalla forza pubblica o da civili che agiscono con il benestare della stessa polizia.
L’assoluta sproporzione della reazione statale al carattere quasi integralmente pacifico delle proteste ha portato, pochi giorni fa, all’interruzione del tavolo di dialogo tra i rappresentanti dei manifestanti e gli esponenti governativi. Durante la partita di ieri, l’esasperazione della popolazione, conseguenza di una profonda riacutizzazione delle problematiche socioeconomiche del paese, si è tradotta ancora una volta in un grido d’aiuto.
Calcio e proteste
Non era la prima volta che i manifestanti si riunivano fuori dallo stadio di Barranquilla durante una partita. Solo quattro settimane fa, la sfida tra Atlético Junior e River Plate che si disputava nello stesso stadio Metropolitano era stata interrotta più volte per “l’invasione” in campo dei gas lacrimogeni utilizzati dall’ESMAD per reprimere le proteste dei dintorni.
Anche in quella circostanza, i manifestanti chiedevano la sospensione delle manifestazioni sportive di rilevanza internazionale. Le proteste, simbolizzate da un pallone da calcio macchiato di sangue, miravano a mettere in luce le continue stragi di innocenti perpetrate sia nelle città che nelle zone rurali della Colombia.
Le gravi tensioni sociali del Paese hanno costretto al repentino spostamento in Brasile della sede della Copa América, che si sarebbe dovuta disputare in Colombia nelle prossime settimane. Un episodio che richiama inevitabilmente i fatti del 2001, quando la Copa América fu giocata in Colombia nonostante l’imperversare di un conflitto armato che teneva in scacco il Paese, tra sequestri, attentati e rappresaglie violente che coinvolgevano anche il mondo dello sport.
Nel 2001 la Colombia trionfò sul campo, seppur decisamente agevolata dal rifiuto di Argentina e Brasile a partecipare a una competizione sportiva in un contesto di guerra. Una vittoria mutilata, entrata a pieno titolo tra i momenti più controversi della recente memoria collettiva sudamericana, in cui spesso pallone e violenza hanno intrecciato i loro cammini.
L’impressione è che ciò che oggi si sta vivendo in Colombia sia un altro momento congiunturale dell’intricata storia recente del Paese, in cui l’eco mediatica del calcio non può negarsi al dovere di divenire cassa di risonanza di una popolazione che chiede aiuto.