Colloquio con Henry Kissinger: “Ora basta guerra, con Russia e Cina bisogna parlare”
“Mosca non ha piegato Kiev, figuriamoci la Nato. Ma con il Cremlino occorre negoziare. Pechino? Biden agisce come Trump. Dobbiamo collaborare”. A 99 anni l’ex segretario di Stato Usa predica ancora diplomazia per evitare nuovi conflitti
Quando era piccolo, l’ex Segretario di Stato e Consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti Henry Kissinger scappò con la sua famiglia dalla Germania nazista. In seguito, da soldato dell’esercito Usa, contribuì a liberare il campo di concentramento di Ahlem, un’esperienza surreale e lacerante per un emigrato ebreo. Stimato quanto controverso, Kissinger è meglio noto come figura eminente in politica estera, guidato dalla sua fiducia nella realpolitik. Ha incontrato David Axelrod per parlare di quando lavorava con il presidente repubblicano Nixon, dell’apertura delle relazioni con la Cina, dell’attuale stato dei rapporti tra Pechino e Washington, di come porre fine alla guerra della Russia in Ucraina, e del suo nuovo libro intitolato “Leadership: Six Studies in World Strategy”.
Mi permetta di farle una domanda su cosa realizzò con Richard Nixon, con ogni probabilità il più importante evento politico per cui sarà ricordato: la mano tesa alla Cina per far uscire Pechino dalla Guerra fredda e accoglierla nella comunità internazionale. Quel passo rese le cose più facili? So che lei ne fu l’artefice. Che ne pensa oggi?
«Io vi contribuii, ma lui agì anche in modo indipendente. Quando l’amministrazione Nixon iniziò il suo mandato, si riteneva e poi divenne chiaro che tra i due grandi Paesi comunisti c’era ostilità. Le parti arrivarono a scontrarsi militarmente in Manciuria. Così giungemmo alla conclusione che, quando hai due nemici ed è poco saggio spingerli l’uno verso l’altro, dovresti cercare di studiare quali differenze sfruttare meglio, e nel caso tu debba sostenere uno contro l’altro è sempre meglio scegliere il più debole contro il più forte. All’epoca, la Cina era di gran lunga la più debole. Aveva vissuto la Rivoluzione Culturale, o forse vi era ancora dentro. In ogni caso, accadevano cose agghiaccianti in quel Paese. Quindi Nixon prese la coraggiosa decisione di tendere una mano ai cinesi partendo dal presupposto che avevamo entrambi un interesse comune nello scongiurare il predominio sovietico. Fra i due Paesi, però, vi erano pochissime comunicazioni, in pratica nessuna. Quindi, dovemmo trovare un modo per comunicare con Pechino. Da parte loro, i cinesi fecero altrettanto: è evidente che pensarono in modo pragmatico e che se avessero voluto darlo a vedere e se noi avessimo dimostrato interesse questo avrebbe dissuaso i sovietici. E li avremmo sconfitti. E accadde proprio così. Ma fin dall’inizio, non fu ovvio che le cose sarebbero andate in questo modo. Una volta nato un rapporto, lo usammo deliberatamente per cercare di schierare le due parti una contro l’altra e di posizionarci in modo tale da essere più vicini a ciascuna di esse di quanto non fosse il loro avversario. In verità, si trattò di un’evoluzione, non accadde tutto subito, perché in un primo tempo non sapevamo come comunicare con loro. E quindi sperimentammo vari canali. Alla fine, il messaggio che facemmo pervenire tramite il presidente pachistano ottenne una risposta. In verità, fu un percorso molto accidentato, scrivevamo i messaggi, li battevamo su macchine da scrivere che non si potevano individuare fino a sera, e poi li inviavamo tramite un messaggero in Pakistan. I pachistani mandavano un loro mediatore a Pechino così da poter aprire un dialogo. Visto che i cinesi temevano una reazione sovietica e noi volevamo accertarci se ci potesse essere un canale di comunicazione, le cose andarono avanti per circa nove mesi prima che Nixon mi inviasse a Pechino in veste di suo rappresentante».
Ovviamente i vantaggi strategici ottenuti nei vent’anni seguenti diedero risultati. Oggi però ci troviamo in una situazione in cui la Cina è un avversario, uno sfidante in sempre maggiore ascesa. Le relazioni non sono buone. E poi c’è Xi Jinping, che ha assunto un atteggiamento di gran lunga più aggressivo per un Paese che, come è noto, ruba segreti commerciali, sopprime la democrazia a Hong Kong e minaccia Taiwan. Ha spedito in campi di lavoro e di concentramento più di un milione di uiguri. Quella mossa fu una sorta di boomerang? Avete contribuito in modo inconsapevole alla creazione di un Frankenstein?
«Prima di tutto vorrei dire la mia opinione personale sulla politica estera: abbiamo imparato che i partiti devono sempre restare in contatto con l’amministrazione in carica. E io non attacco mai i presidenti o i segretari di Stato avversari».
Lei si è rivelato molto utile all’amministrazione Obama quando ha cercato di concludere il trattato nucleare New Start, una questione a cui ha lavorato per più di 60 anni.
«La ringrazio di averlo ricordato. L’ho fatto senza alcuna forma di pubblicità».
Beh, ora glielo stiamo riconoscendo.
«Grazie per averlo fatto. Allora: l’apertura alla Cina fu un errore? Non penso. Credo che sia stata enormemente utile agli Stati Uniti per trent’anni. Poi la Cina si è sviluppata rapidamente, molto più rapidamente di quanto chiunque potesse supporre. E, forse, avremmo dovuto pensarci prima. Perché questo ha creato una capacità da parte dei cinesi di trasformare il loro Paese nel secondo Stato più potente al mondo, fino a quando non si è presentato un problema fondamentale: abbiamo pensato se fosse nell’interesse dell’America che esistesse un Paese in grado di mettere in secondo piano gli Stati Uniti. E così, automaticamente, questo ci ha portato a un confronto diretto. Il tutto divenne davvero chiaro, allora più che in passato, alla fine dell’amministrazione Obama o all’inizio di quella di Trump. La scelta si riduceva a due possibilità: o affrontarla scontrandoci o provare a trattare una situazione assolutamente unica con il dialogo, almeno in prima battuta, perché entrambi i Paesi hanno la capacità di distruggere il mondo. Se si fosse entrati in conflitto non vi sarebbe stata alcuna astensione implicita in campo tecnologico. Se si pensa alla Prima guerra mondiale e si fa un confronto, nessuno dei leader che combatterono la Grande guerra si sarebbe mai sognato di scatenare un conflitto se avesse saputo come sarebbe diventato il mondo. Oggi, all’indomani di un conflitto tra Cina e Stati Uniti il pianeta apparirebbe infinitamente peggiore dello scenario emerso dopo la Prima guerra mondiale. Penso sia d’obbligo per la nostra e la loro politica estera (della Cina, ndr) discutere tutti gli aspetti che potrebbero innescare una situazione fuori controllo. E questo non l’abbiamo gestito tanto bene. Trump ha iniziato e Biden, dal mio punto di vista, sta conducendo esattamente lo stesso tipo di politica nei confronti della Cina. È l’equilibrio più importante per l’umanità, (per questo, ndr) negli ultimi anni della mia vita ho cominciato a interessarmi all’intelligenza artificiale».
Ha anche scritto un libro su questo.
«Sì. Ebbene, se si pensa all’intelligenza artificiale e si studia un po’, si scopre che gli oggetti possono mettere a punto i loro stessi obiettivi e puntare le armi che loro stessi hanno creato. Si tratta di una trappola in senso assoluto. Quindi siamo in presenza di due esigenze in contraddizione tra loro. La prima è difendere gli interessi nazionali e garantire la nostra sicurezza. La seconda è costruire la tecnologia utile alla prima, ma intrattenere anche un dialogo con gli altri Paesi hi-tech su come evitare che le cose ci sfuggano di mano. A questo non siamo ancora arrivati».
Qual è stata la sua reazione alla visita della portavoce Pelosi a Taiwan?
«Ho pensato che sia stato un tentativo poco saggio. In pubblico non ho detto nulla, ma ho pensato che fosse davvero poco saggio. In fondo, si è trattato soltanto di una goccia d’acqua in più nell’oceano, una goccia che ha dato alla controparte il pretesto e l’opportunità di minacciare esplicitamente il blocco di Taiwan. La visita di Pelosi è soltanto uno dei tanti esempi dei vari tentativi da parte di qualche estraneo di gestire questa faccenda sulla base del confronto diretto ma poi, quando capitano brutte cose o si minacciano brutte cose, si deve essere disposti ad affrontarle. Io, insieme a molti tuoi amici, mi porrei in maniera intransigente nei confronti di questa questione così importante per la guerra e la pace. Penso che entrambe le parti abbiano bisogno di un nuovo approccio. Non possiamo fare tutto da soli. Se i cinesi non collaborano, ci sarà uno scontro. Mi sento molto a disagio. Non so dove si arriverà nel caso di Taiwan e non è che non mi preoccupi, ma è un tema importante per cui democratici e repubblicani dovrebbero fare qualcosa, parlarsi apertamente e dirsi che cosa ne pensano. Ci sono molti altri argomenti su cui possono facilmente essere in disaccordo. Ma non si può sollevare ogni quattro anni la questione su chi difenderà meglio l’America. Dovrebbe essere scontato che chi subentra al governo difenderà l’America. E che è indispensabile collaborare per farlo».
Qual è stata la sua reazione quando la settimana scorsa ha sentito di intere risme di documenti, carte della sicurezza nazionale, finite nella cantina dell’ex presidente Trump a Mar-a-Lago? La preoccupa?
«Dal mio punto di vista, ovviamente dovrebbero essere restituite al governo. Però inviare degli agenti federali nella residenza di un ex presidente mi innervosisce, ma non ho preso alcuna posizione pubblica in merito».
Immagino che la vera questione riguardi quello che accadrebbe se il presidente non restituisse i documenti…
«Non sono sufficientemente a conoscenza dei dettagli».
Le volevo chiedere qualcosa anche sull’Ucraina. Per anni, lei è stato un grande studioso dell’Unione Sovietica e dei russi. Ha avuto anche un rapporto diretto con Vladimir Putin. Come pensa che andrà a finire questa guerra e come dovrebbe andare a finire?
«Primo, il mio rapporto con Putin: è stato un rapporto istituzionale. Mi riceveva una volta l’anno per discutere questioni di politica estera, che poi riferivo al mio governo, come lei ha ripetutamente sottolineato. Questo è l’unico tipo di rapporto diretto che ho avuto con lui».
Non intendevo alludere a nulla di più.
«Non c’è mai stato un rapporto personale. Che cosa voleva sapere: come mettere fine alla guerra? O cosa?».
Che cosa crede che implichi tutto questo per l’Europa? Che cosa comporta per l’ordine mondiale?
«Penso che l’amministrazione Usa stia agendo correttamente da questo punto di vista. In sostanza, sono d’accordo con i provvedimenti adottati per opporre resistenza (all’invasione russa, ndr), perché era indispensabile dimostrare che la Russia non ha il diritto o la possibilità di imporsi con la sola forza delle armi. Su questo punto, sono pienamente d’accordo con l’attuale amministrazione».
Come andrà a finire?
«Ecco questa è la vera domanda. Dovrà concludersi con dei negoziati. Si potrebbe ritenere che la Russia continuerà a essere uno Stato e che anche l’Ucraina sarà uno Stato; quindi, la situazione potrebbe cambiare radicalmente perché l’Ucraina è stata armata dalla Nato, ha avuto rapporti strettissimi con l’Alleanza e alla fine della guerra qualche tipo di rapporto dovrà pur continuare. Immagino che offrire all’Ucraina di aderire alla Nato sia stato un errore, ma alla luce di quanto accaduto è comunque un fatto del passato. Ci dovrà essere un negoziato e vorrei mettere in guardia dal rischio di lasciare che la guerra si trascini all’infinito. Perché in questo caso diventerebbe come la Prima guerra mondiale, porterebbe a un’escalation, quanto meno a una possibile escalation. Quindi auspico che a breve, se i Paesi della Nato si metteranno d’accordo su un possibile esito finale, si possa iniziare a vedere dove possa portare un eventuale negoziato. In ogni caso, non si dovrà concedere nulla alla Russia di quanto ha conquistato in Ucraina. Ho suggerito, e la mia proposta è stata accolta, che i russi tornino al confine precedente allo scoppio del conflitto, il che significa che la Russia prima di un cessate il fuoco dovrebbe rinunciare al 15-20 per cento del territorio ucraino conquistato. Dopo di che, la Nato dovrebbe prendere in considerazione quale rapporto intende avere a lungo termine con la Russia e con chi è sopravvissuto. Da un certo punto di vista, Mosca ha già perso la guerra, è importante capirlo. L’ha persa nel senso che la vecchia idea che la Russia potesse semplicemente mettersi in marcia in Europa e penetrare ovunque volesse, beh, è finita, perché non è stata nemmeno in grado di sconfiggere l’Ucraina e tanto meno potrebbe prevalere sulla Nato. È quindi impossibile avere un rapporto con la Russia in cui Mosca si consideri parte dell’Europa? Che cosa diventerebbe la Russia, una sorta di avamposto della Cina ai confini dell’Europa? Punterei alla prima opzione. Come riuscirci non è qualcosa che si possa decidere parlandone adesso, ma questo sarebbe il mio obiettivo strategico».
Quanto sta suggerendo è di fatto il contenuto degli Accordi di Minsk del 2015, che i russi hanno violato. Per quanto riguarda gli ucraini, decidere se tornare allo status quo è una decisione difficile da prendere a questo punto, anche politicamente per Zelensky, tenuto conto delle lacrime e del sangue versati. Immagino stia suggerendo che la Nato abbia un colloquio molto franco e duro con il presidente ucraino.
«Non sto chiedendo a Zelensky di rinunciare a nulla rispetto a quanto dichiarato dall’Ucraina all’inizio della guerra, mentre gli altri territori contesi dovrebbero essere lasciati liberi per i negoziati. Ma non per la guerra. Potrà volerci un po’ per trovare una soluzione, in fondo stiamo parlando di un’esigua porzione dell’Ucraina».
Parliamo del suo libro, un’opera davvero affascinante. Racchiude il ritratto di sei leader per cui lei prova profonda stima, con cui ha lavorato e che hanno contato molto nella storia del mondo. Konrad Adenauer, Charles de Gaulle, Lee Kuan Yew, Anwar Sadat, Margaret Thatcher e poi, naturalmente, lo stesso Richard Nixon. Ciascuno di questi personaggi aveva qualità uniche ma qual è la linea comune a tutti che ritiene fondamentale per la leadership?
«Avere una convinzione sulle finalità ultime delle loro società e il coraggio di perseguirne gli obiettivi, anche in situazioni complesse, e quindi aiutare le loro società a muoversi e ad arrivare dove non si erano ancora spinte. Scavi a fondo: sono attributi di tutti i leader che ho descritto».
Quasi 60 anni fa, lei disse qualcosa che oggi sottolinea nel suo libro: «Esistono due tipi di realisti: quelli che manipolano i fatti e quelli che li creano. L’Occidente più di qualsiasi altra cosa ha bisogno di uomini che creino la propria realtà». Ora parla proprio di questo: la forza di volontà, la chiarezza di intenti, la visione di come deve essere il futuro, il riconoscimento delle qualità, dei valori e delle caratteristiche più importanti di una società, che devono essere le fondamenta di quel futuro.
«È esattamente quello che stavo cercando di dire, proprio così».