Sulle tracce della cocaina in Africa: il traffico di droga ostacola la pace in Mali
Il conflitto per il controllo del traffico di droga nel nord del Mali sta ostacolando l'attuazione degli accordi di pace conclusi nel 2015, mentre aumentano le convergenze tra gruppi armati locali, organizzazioni terroristiche, trafficanti di stupefacenti e criminali dediti alla tratta di esseri umani
Nonostante i ripetuti attacchi da parte di gruppi estremisti e terroristici, gli scontri etnici, i dissidi politici e l’insicurezza alimentare che affliggono il Mali, il paese africano affronta un’altra sfida che ne mina la stabilità: il traffico di stupefacenti.
Secondo l’ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc), il Mali è un noto punto di transito per gli stupefacenti che attraversano l’Africa occidentale. Lo stesso organismo ha stimato nel 2017 che almeno 23 tonnellate di cocaina transitano ogni anno attraverso quest’area del mondo.
Il traffico di droga da e verso il Mali
Nel primo semestre di quest’anno, la polizia del Mali ha sequestrato oltre nove tonnellate di cannabis. Nell’ottobre 2017, un uomo è stato arrestato all’aeroporto internazionale di Bamako con circa 1,4 chilogrammi di cocaina. Ma il paese africano è noto soprattutto per l’uso e il traffico di farmaci psicotropi come il tramadol e la codeina, contenuta in semplici sciroppi per la tosse.
Secondo l’ente antidroga del Mali, l’Office central des stupéfiants (OCS), nel primo semestre del 2018, la polizia del paese ha sequestrato 32.091 compresse di tramadol. Nel suo rapporto mondiale del 2018, l’Unodc ha avvertito la comunità internazionale sulla pericolosa diffusione di questo oppioide sintetico in tutta l’Africa occidentale.
Alcune quantità di questo farmaco sono state trovate anche nelle tasche di diversi attentatori suicidi legati al gruppo terroristico Boko Haram, attivo nel bacino del lago Ciad, dove in meno di dieci anni ha provocato quasi 30mila morti e 1,84 milioni di sfollati nella sola Nigeria. I miliziani jihadisti usano questi stupefacenti per calmare i minori, prima di inviarli a morire come attentatori suicidi.
Secondo uno studio dell’ong sudafricana Institute for Security Studies, il Mali è uno dei principali punti di transito della regione per la cocaina proveniente dal Sud America. Il fatto che il numero di sequestri all’aeroporto di Bamako sia diminuito dal 2008 a oggi mostra l’impegno delle autorità per far fronte al fenomeno. Questo però potrebbe anche indicare che, di fronte a controlli più severi nel principale scalo del paese, i trafficanti si siano adattati e trasportino sempre più gli stupefacenti su strada.
Questo traffico è gestito da criminali di stanza a Bamako che operano come grossisti: ricevono la cocaina, la confezionano e la spediscono in Europa o nei paesi limitrofi. Secondo l’ong sudafricana, queste reti sono gestite principalmente da cittadini nigeriani e guineani, ma i criminali maliani svolgono un ruolo chiave in questo commercio illegale, visto che sono gli unici a conoscere le piste nel deserto e i gruppi armati che le controllano.
Nel nord del Mali, la produzione e il traffico di droga si verificano nonostante e in parte a causa dell’instabilità del paese. Questa zona vede la presenza di vari gruppi armati, composti per affiliazione “politica”, su base “etnica” o dediti al terrorismo jihadista, che hanno in comune il finanziamento delle proprie attività attraverso il controllo dei traffici illegali che attraversano il deserto.
Per garantire la sicurezza delle spedizioni per migliaia di chilometri è infatti necessario reclutare guide, conducenti e guardie armate. In ogni tratto di territorio tribale attraversato, i leader delle milizie locali e i jihadisti pretendono così il pagamento di un “dazio“. Spesso il “materiale” cambia mano diverse volte durante il viaggio, mentre i carichi sono in genere sepolti nel deserto, in un luogo poi ritrovato dai trafficanti grazie alle coordinate Gps.
Nella foto: La mappa del Mali con i consigli di viaggio sulle zone più o meno pericolose (elaborata dal governo australiano)
Le rotte che attraversano il deserto portano soprattutto hashish, un derivato della cannabis prodotto nelle regioni di Taoudénit e Kidal, e tramadol, in gran parte importato, verso Algeria e Niger. L’oppioide sintetico è spesso diretto poi in Libia, dove foraggia i gruppi armati locali.
La cannabis invece è coltivata soprattutto nel Mali meridionale, nelle zone di Kadiolo, Yanfolila, Kolondièba e Bougouni della regione di Sikasso. Insieme a quella proveniente dal vicino Ghana, in transito attraverso Costa d’Avorio o Burkina Faso, rifornisce soprattutto il mercato interno.
Ma è il traffico di cocaina, con i suoi enormi guadagni, a fare maggiormente gola ai gruppi armati maliani. Secondo un rapporto pubblicato dal dipartimento di Stato degli Stati Uniti, il Mali non si trova solo al centro del traffico di hashish verso Mauritania, Marocco, Algeria, Niger e Libia, ma è anche protagonista della rotta che trasporta la cocaina dalla Guinea-Bissau verso il Senegal, da dove poi viene trasferita in Europa.
Il coinvolgimento dei gruppi armati nel traffico di stupefacenti
In una recente intervista, Domingos Correia, vice direttore della polizia giudiziaria nazionale della Guinea-Bissau, ha rivelato che “due anni fa, alcuni sospetti membri di una cellula locale di al-Qaeda per il Maghreb Islamico” (AQMI), uno dei maggiori gruppi terroristici attivo in tutto il Sahel, tra il Mediterraneo e il Golfo di Guinea, “hanno confessato sotto interrogatorio di aver scaricato carichi di cocaina da aerei provenienti dall’America del Sud in direzione del Mali”. “Le droghe che fluiscono da qui potrebbero anche finanziare questi gruppi”, ha detto Correia.
In un rapporto pubblicato ad agosto, le Nazioni Unite hanno rivelato il coinvolgimento di alcuni gruppi armati firmatari dell’accordo di pace in Mali negli attentati diretti contro le forze di sicurezza del paese e in attività legate alla criminalità organizzata, come il traffico di esseri umani, il contrabbando di stupefacenti o il reclutamento di bambini soldato.
Il gruppo di esperti indipendenti delle Nazioni Unite che ha redatto e presentato il rapporto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu non ha potuto collegare alcun gruppo specifico operante nel nord del Mali al traffico di stupefacenti, ma il documento riferisce del ruolo svolto dal gruppo armato Touareg IMGHAD Self-Defense Group and Allies (Gatia) nel controllo delle rotte nel deserto dove passano i carichi di cannabis.
Il rapporto indica un esponente del Gatia, Ahmoudou Ag Asriw, come il responsabile della scorta dei carichi di hashish trasportati verso il confine. Ad aprile, l’uomo avrebbe scortato una partita di droga da Tabankort, attraverso il deserto di Tamesna, presumibilmente verso il Niger, insieme a un esponente del Movimento arabo dell’Azawad (Maa-Platforme), un gruppo firmatario degli accordi di pace. Il 20 dicembre, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha imposto sanzioni contro Ahmoudou Ag Asriw, insieme ad altri due esponenti di gruppi armati attivi nel nord del Mali, perché accusati di ostacolare il processo di pace in corso nel paese africano.
Secondo le Nazioni Unite, la milizia tuareg Gatia ha la propria roccaforte ad Amassin, a sud della città di Kidal, da dove controlla le rotte usate dai trafficanti di stupefacenti, che preferiscono affidarsi ai gruppi armati locali piuttosto che ai terroristi per mettere al sicuro i carichi.
“La legittimità concessa sia alla Piattaforma Maa che al Coordinamento del Movimento per l’Azawad (CMA) come gruppi armati firmatari dell’accordo di pace ha portato i trafficanti di droga a cercare protezione presso i membri di questi gruppi piuttosto che dai gruppi armati terroristici, per risultare meno esposti ai controlli”, si legge nel rapporto. “A prescindere dal fatto che le droghe cambino mano durante il trasporto, le merci vengono consegnate ai proprietari finali o al successivo intermediario previo pagamento di una tassa di transito precedentemente negoziata”.
La rivolta jihadista del 2012 nel nord e la “questione Tuareg”
I gruppi armati precedentemente citati sono composti da miliziani di etnia Tuareg. Sin dagli anni Novanta, questa comunità si oppone sistematicamente al governo centrale di Bamako. Nel 2012, gruppi armati formati da membri di questa etnia sono stati protagonisti di un’insurrezione di gruppi jihadisti che ha travolto il nord del Mali.
Dopo essere entrati in possesso di numerose armi grazie al conflitto in Libia, nel 2011 alcuni gruppi armati Tuareg diedero il via alla ribellione sostenuta anche da diverse milizie legate ad al-Qaeda.
Nel giugno del 2012 questa coalizione prese il controllo di alcune delle principali città del Mali, imponendovi la legge islamica, la Sharia. Nel 2013, quando la rivolta si stava avvicinando minacciosamente alla capitale Bamako, il governo maliano chiese aiuto alla Francia che diede il via all’operazione Barkhane, tuttora in corso, che vede impegnati oltre 4.000 soldati transalpini. Circa 12mila caschi blu dell’Onu furono poi schierati in diverse aree del nord del paese. Tra maggio e giugno del 2015 i ribelli del nord del Mali, riuniti nel gruppo Coordinamento dei movimenti dell’Azawad (CMA), firmarono poi un accordo di pace con il governo, che però non ha posto fine del tutto alle violenze.
Nella foto: La mappa della distribuzione dei gruppi etnici in Mali elaborata dall’Ocse
Il paese è rimasto di fatto separato per anni tra aree controllate dal governo e zone sotto il controllo dei gruppi armati. Le linee di confine di queste aree sono coincise spesso con quelle delle zone abitate dalle comunità di cui sono composte le milizie.
I confini del Mali furono creati nel 1960 dalla divisione dell’Africa occidentale francese. Da allora, il paese comprende due regioni geograficamente distinte: una caratterizzata dalle fertili savane meridionali densamente popolate e l’altra dall’arido deserto del Sahara settentrionale. Queste sono in gran parte separate dal fiume Niger, che funge da via commerciale vitale del paese.
Secondo l’impresa privata di servizi segreti statunitense Stratfor, queste regioni presentano “nuclei geopolitici indipendenti”. Quello meridionale, che comprende la capitale Bamako, è la patria del popolo Bambara che condivide legami etnici con i vicini Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea e Senegal. Il nucleo settentrionale invece, che si trova all’estremità meridionale delle montagne dell’Hoggar, ospita le comunità prevalentemente nomadi dei Tuareg, un popolo di origine berbera con legami con le popolazioni di Niger, Mauritania e Algeria.
Le due più grandi città del nord, Timbuktu e Gao, situate sul fiume Niger, un tempo servivano come principali avamposti commerciali tra le due aree. Nel corso dei secoli, l’istituzione di rotte marittime da parte dei paesi europei ha ridotto il ruolo dei Tuareg e di queste città. Successivamente, la sfera di influenza della comunità è diminuita e le rotte commerciali sahariane su cui una volta passavano sale, oro, avorio e schiavi sono decadute e vengono oggi usate per traffici per lo più illegali.
La lotta per il controllo delle rotte mette a rischio la pace
Le Nazioni Unite hanno denunciato come, nonostante questo tipo di traffici non costituiscano un deliberato ostacolo alla pace, il coinvolgimento dei gruppi armati firmatari degli accordi di Algeri e di milizie a essi affiliate in fenomeni criminali indeboliscano indirettamente la loro applicazione e quindi la stabilizzazione del Mali.
Gli ex gruppi ribelli che hanno concluso la pace con Bamako hanno smentito il proprio coinvolgimento o quello dei propri affiliati in attività legate al traffico di persone o di stupefacenti, ma le lotte per il controllo delle rotte su cui passano i carichi illegali restano un problema aperto per il paese africano.
Secondo un rapporto dell’International Crisis Group (ICG), un’organizzazione non governativa che svolge attività di ricerca sul campo in materia di conflitti, “il traffico di droga nel nord del Mali sta generando un livello di violenza che non ha eguali nella subregione”. “L’incapacità dello stato maliano di riportare l’area sotto il proprio controllo ha generato conflitti particolarmente feroci tra i trafficanti”, si legge nel documento. “Le armi che circolano dopo le ribellioni degli ultimi due decenni hanno esacerbato la progressiva militarizzazione delle reti di trafficanti, le cui rivalità alimentano tensioni politiche e inter-etniche”.
Il rapporto rivela che il traffico di hashish è dodici volte più redditizio del contrabbando di sigarette, i cui carichi tra gli anni ’90 e 2000 dominavano le rotte illegali tra Mali e Algeria. Secondo l’ICG, il traffico di cocaina si è invece dimostrato 25 volte più redditizio di quello di hashish, cambiando la natura dei traffici e il profilo dei trafficanti. “La figura dei piccoli contrabbandieri in voga negli anni 1970-1980 è stata ora sostituita da quella del grande trafficante a capo di reti criminali o addirittura eserciti privati per proteggere i convogli e i carichi di stupefacenti”, si legge nel rapporto.
Il centro studi rileva che i fondi generati dal traffico di stupefacenti hanno quindi causato diverse controversie tra le comunità locali, mentre le gerarchie tradizionali si sono capovolte. Questi conflitti degenerano così in faide prolungate perché i gruppi criminali ricorrono sempre più al consenso e al coinvolgimento delle comunità locali per sostenere le proprie attività. Inoltre, il traffico di stupefacenti è un problema che è rimasto in gran parte fuori dai colloqui di pace svoltisi prima a Ouagadougou nel 2013 e poi ad Algeri nel 2014 e 2015. Le successive iniziative locali sono risultate però limitate.
I tentativi di contrasto al fenomeno si rivelano inefficaci
Questi commerci non sono infatti contrastati efficacemente dalle norme locali e internazionali. I cittadini dei paesi limitrofi infatti entrano legalmente in Niger e in Mali secondo il protocollo della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS-CEDEAO) relativo alla libera circolazione delle persone, che non prevede norme adeguate per contrastare i contrabbandieri.
Nel 2016, la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS-CEDEAO) ha concluso un accordo con l’ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc), con cui ha stabilito il “Programma regionale per l’Africa occidentale 2016-2020”, che mira a “contrastare il traffico di stupefacenti, il crimine organizzato e l’abuso di droga”. Tuttavia questo programma non ha portato ancora a risultati tangibili.
Inoltre, le operazioni internazionali in corso nel Sahel per la lotta al terrorismo non hanno alcuna competenza né mirano a contrastare questo fenomeno, nonostante i traffici finanzino i gruppi che le truppe francesi e statunitensi intendono perseguire.
Secondo le Nazioni Unite, durante alcune operazioni condotte nel nord del Mali, le truppe francesi impegnate nell’operazione Barkhane hanno trovato diversi narcotici in possesso di combattenti nemici, ma non hanno mai confiscato alcun carico “perché la questione non rientra nel loro mandato”.
Per questo, il comandante dell’antidroga del Mali, il colonnello Adama Tounkara, direttore generale dell’Office central des stupéfiants (OCS), ha avviato un programma di collaborazione per il contrasto al traffico di droga sia con l’Unodc che con la Forza anti-terrorismo del G-5 du Sahel, schierata da Burkina Faso, Mali, Mauritania, Niger e Ciad per combattere i gruppi jihadisti nella regione.
Il governo di Bamako ha poi cominciato ad affrontare il problema lanciando innanzitutto una campagna di disarmo nelle città settentrionali maliane di Timbuktu, Gao e Kidal. La “Operazione di disarmo, smobilitazione e reinserimento (DDR)” prevista dall’accordo di pace di Algeri del 2015 ha portato finora almeno 1.300 miliziani a deporre le armi, mentre alla fine di questa campagna oltre 30mila ex combattenti dovranno essere reinseriti nella vita civile.
E’ proprio questo reinserimento che potrebbe fare la differenza, se dovesse avvenire davvero. L’organizzazione International Alert, che si occupa di prevenzione e risoluzione di guerre e lotta al terrorismo, ha rilevato come l’attrattiva di reclutamento e il consenso raccolto dai gruppi armati attivi nel Sahel siano in parte giustificate dall’incapacità degli stati della regione di garantire la sicurezza, risolvere le dispute etniche e fornire servizi pubblici di base ai residenti.
Anche il Centro per gli studi strategici e internazionali (CSIS), di stanza a Washington DC, rileva che “uno stato fragile con istituzioni deboli o inefficaci aumenta la probabilità che gruppi ribelli o terroristici stabiliscano propri santuari” in questi paesi, dove “persiste il malgoverno”.
In un rapporto pubblicato a novembre, questi istituto ha sovrapposto la mappa degli attacchi attribuiti a vari gruppi armati e terroristici con quella della “efficacia governativa”, basata sugli indicatori stilati dalla Banca mondiale. La maggior parte dei paesi in cui questi gruppi sono attivi, come Yemen, Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Mali, Nigeria e Somalia, risultano tra i primi dieci paesi che al momento presentano il punteggio più basso in materia di solidità delle proprie istituzioni.