Quanto costa alla Cina la disputa commerciale con l’Australia
Le ripercussioni economiche della querelle in corso da mesi tra Pechino e Canberra potrebbero rivelarsi troppo costose per la Cina a fronte di un ben magro risultato politico
E’ cominciato tutto come una delle tante dispute politiche internazionali ma il prolungarsi della crisi rischia di produrre effetti importanti su due tra le principali economie del Pacifico e sul mercato del carbone, da cui entrambe dipendono fortemente. Lo stallo commerciale tra Cina e Australia potrebbe infatti tradursi in un freno alla ripresa dell’economia cinese, l’unica tra le grandi potenze mondiali che probabilmente riuscirà a registrare una crescita positiva nell’anno della pandemia, e in un ulteriore calo degli scambi internazionali di questa materia prima.
Quando ad aprile le autorità di Canberra lanciarono un appello a condurre un’indagine internazionale sull’origine del nuovo coronavirus, nessuno poteva aver chiare le ripercussioni della prevedibile reazione di Pechino, forse nemmeno nella capitale cinese.
Da allora, nonostante la firma congiunta della più grande intesa commerciale al mondo e il precedente accordo di libero scambio, i rapporti bilaterali sono costantemente peggiorati. Pur essendo il maggior partner commerciale dell’Australia, nel corso dell’anno la Cina ha sospeso le importazioni o imposto dazi su vari prodotti agricoli australiani, come carne di manzo, orzo, legname e vino. Intanto, Canberra ha escluso Huawei, il colosso cinese delle telecomunicazioni, dai lavori per la nuova rete 5G australiana e ha vieppiù criticato il governo di Pechino per la repressione del dissenso a Hong Kong e per il trattamento della popolazione uigura dello Xinjiang.
Alla fine dello scorso mese un tweet pubblicato sul profilo del portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, in cui si allude a crimini di guerra commessi da soldati australiani in Afghanistan, ha alimentato ulteriormente la polemica, con la richiesta da parte del premier Scott Morrison di scuse formali da parte di Pechino, rispedite al mittente dalla leadership cinese.
Intanto la disputa è finita davanti alla World Trade Organization (Wto), l’Organizzazione mondiale del Commercio, con l’annunciato ricorso australiano contro i dazi doganali imposti dalla Cina sulle importazioni di orzo. Ma non finisce qui perché la querelle potrebbe produrre importanti ripercussioni sull’economia cinese, senza il ritorno politico sperato.
Nel corso della disputa, la Cina ha infatti ridotto significativamente le importazioni di carbone dall’Australia, ufficialmente non per ragioni politiche ma per un presunto mancato rispetto di non meglio precisati standard ambientali.
Pur negando inizialmente ogni intento discriminatorio, soltanto la scorsa settimana la Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme, il principale organismo cinese preposto alla pianificazione economica, ha annunciato che avrebbe consentito alle centrali elettriche di importare carbone dall’estero senza restrizioni, eccetto che dall’Australia. Il provvedimento era giustificato, almeno ufficialmente, dalla volontà di alimentare la produzione nazionale e accrescerne l’autosufficienza, un obiettivo mancato quantomeno in termini di compensazione.
Secondo i dati divulgati dall’Istituto nazionale di statistica cinese, a novembre il Paese aveva prodotto 347,27 milioni di tonnellate di tutti i tipi di carbone, segnando un aumento della produzione pari all’1,5 per cento su base annua e allo 0,1 per cento rispetto al mese precedente. Tuttavia, nello stesso periodo, secondo i dati forniti dalle dogane cinesi, le importazioni di tutti i tipi di carbone in Cina erano diminuite del 44 per cento rispetto all’anno precedente, contribuendo ad acuire il calo dell’import nazionale nel settore, sceso dell’11 per cento su base annua nei primi undici mesi dell’anno.
Per dare un’idea dell’importanza di questa materia prima per la Cina e dell’impatto della disputa sul mercato internazionale, bastano pochi dati. Lo scorso anno, il carbone rappresentava ancora il 57,7 per cento dei consumi energetici cinesi mentre gli impianti alimentati con questo combustibile fossile bruciavano quasi il 54 per cento di tutto il carbone utilizzato in Cina, fornendo il 52 per cento della capacità di generazione di potenza e il 66 per cento dell’elettricità a livello nazionale.
Nonostante gli impegni a ridurre le emissioni inquinanti, a febbraio Pechino ha ridotto per il terzo anno consecutivo la valutazione dei rischi connessi alla sovracapacità di produzione elettrica da centrali a carbone in varie zone della Cina, aprendo di fatto la strada all’approvazione di nuovi impianti tra il 2021 e il 2023.
La fame cinese di questa materia prima è testimoniata anche dal fatto che la Cina è al contempo sia il principale produttore mondiale che il primo importatore globale di carbone. Secondo l’Agenzia internazionale dell’Energia, nel 2019 il Paese era responsabile del 46 per cento della produzione carbonifera mondiale e nonostante ciò ha importato 308 milioni di tonnellate di di questo combustibile fossile, la maggior quantità a livello globale.
Forte della propria posizione sul mercato, il taglio delle importazioni deciso da Pechino avrebbe dovuto esercitare una forte pressione su Canberra. Il secondo esportatore mondiale di questa materia prima, dopo l’Indonesia, è infatti proprio l’Australia che, secondo la World Coal Association, l’anno scorso ha esportato fino a 393 milioni di tonnellate di carbone.
Sebbene lo stesso premier australiano Scott Morrison abbia definito la disputa in corso tra Canberra e Pechino “una sconfitta per tutti”, le conseguenze a breve termine sui produttori australiani sembrano essere mitigate da altri mercati asiatici, in particolare Corea del Sud, Giappone e Vietnam, apparsi capaci, almeno per il prossimo inverno, di sopperire alla mancata domanda cinese.
Inoltre, secondo i dati forniti dall’Agenzia internazionale dell’Energia, le esportazioni australiane di carbone termico, il principale tipo scambiato sui mercati internazionali e utilizzato per produrre elettricità e calore, sono meno influenzate dalla diminuzione della domanda di importazioni rispetto ad esempio all’Indonesia, grazie al rialzo dei prezzi registrato fino all’inizio dell’anno e ai contratti definiti con gli acquirenti nipponici, che per ora sembrano coprire le ingenti perdite degli operatori australiani.
Insomma, le cose non sono andate come speravano a Pechino, non solo all’estero. In primis, gli altri fornitori vicini, Mongolia, Russia e Indonesia, non sono riusciti a colmare il vuoto delle mancate esportazioni dall’Australia. La disponibilità dei carichi di carbone acquistati da operatori cinesi da fonti non australiane come Russia, Colombia, Indonesia e Sud Africa sembra limitata e comunque i lunghi tempi di sdoganamento non permettono di soddisfare a breve l’appetito cinese. Inoltre, alimentati anche da una serie di incidenti – alcuni fatali – avvenuti negli ultimi mesi in varie miniere del Paese, i prezzi sul mercato interno sono cresciuti nelle ultime settimane, arrivando a metà dicembre ai massimi da 5 anni a questa parte.
Il problema è acuito dall’aumento dei consumi registrato questo mese a causa dell’arrivo dell’inverno e dall’accelerazione dell’attività industriale, alimentata dall’avvicinarsi della fine del 13/mo Piano quinquennale (2016-2020), che spinge gli enti governativi a impegnarsi a fondo per raggiungere gli obiettivi stabiliti.
Le prospettive per il primo trimestre del 2021 sembrano inoltre ancora più fosche. Secondo un’analisi del provider indipendente Argus, elaborata sulla base delle previsioni dell’Amministrazione meteorologica cinese, il clima relativamente più secco previsto tra gennaio e maggio dell’anno prossimo potrebbe ridurre la disponibilità di energia idroelettrica, obbligando la Cina ad affidarsi ancora di più al carbone.
Le intemperie invernali potrebbero però diminuire la produzione delle miniere, un problema a cui va ad aggiungersi la consueta chiusura di alcuni piccoli impianti durante le vacanze del capodanno lunare cinese, in programma dall’11 al 17 febbraio 2021. Tutto in un momento di ulteriore aumento della domanda per alimentare gli impianti di riscaldamento dopo la crescita dell’1 per cento su base annua dei consumi di carbone termico già registrata in tutta la Cina nel terzo trimestre. Intanto, a dicembre le carenze sul mercato interno hanno già provocato il razionamento dell’elettricità in alcune province del Paese.
La leadership cinese non sembra ignorare le conseguenze di questa situazione. Ritrovatasi a contemplare il risultato opposto di quello che voleva ottenere – invece di danneggiare significativamente il mercato australiano, Pechino ha parzialmente contribuito all’aumento dei prezzi interni e messo in parte a rischio le forniture elettriche – la Cina sembra disposta a rivedere la propria linea dura.
“La Cina e l’Australia fanno parte della famiglia dell’Asia-Pacifico e hanno beneficiato per molto tempo degli scambi reciproci: l’attuale situazione di stallo non ci piace”, ha ammesso di recente il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, intervenendo in collegamento video a una conferenza organizzata dalla U.S. Asia Society. “L’Australia deve considerare se la Cina è una minaccia o un partner: se ci considerano un partner, allora c’è la base per il dialogo, speriamo davvero che le relazioni tra i nostri Paesi possano normalizzarsi”.
I motivi di queste aperture, non ancora seguite da azioni concrete, risiedono nel (finora) limitato impatto delle misure decise da Pechino sugli interessi di Canberra e nei rischi che potrebbe correre la ripresa cinese, principale motore della crescita mondiale nell’anno della pandemia e oltre.
Proprio la crisi sanitaria ha infatti ulteriormente aumentato la dipendenza dell’economia cinese dall’iniziativa del governo e dimostrato il ruolo dell’edilizia e dell’industria pesante, la cui ripartenza ha accelerato la ripresa dalla Covid-19, nel promuovere uno sviluppo ancora incentrato sulle infrastrutture.
Non a caso, la produzione di acciaio, alimentata dalle politiche governative di stimolo dei progetti infrastrutturali ed immobiliari, ha superato la crescita del Pil nel 2018, 2019 e 2020, dimostrando l’aumento di questa dipendenza negli anni e la tesi di alcuni economisti cinesi secondo cui, sul lungo periodo, lo sviluppo economico della Cina, al contempo il principale produttore e consumatore mondiale di acciaio grezzo, dipenderà fortemente dall’industria siderurgica per raggiungere gli standard delle economie sviluppate.
Ebbene proprio la siderurgia è il settore industriale che consuma più carbone in Cina, dopo le centrali elettriche e gli impianti di riscaldamento. Gli ultimi dati trimestrali disponibili mostrano che il consumo di questo combustibile da parte dell’industria metallurgica cinese, per lo più dedita alla produzione di ferro e acciaio, è aumentato del 6 per cento tra luglio e settembre. Un danno a questo settore, dovuto alla carenza di materie prime o di elettricità, potrebbe costituire un freno alla crescita cinese mentre non sembra capace di intaccare la posizione australiana, soprattutto nel segmento del carbone da coke (metallurgico).
Secondo l’Agenzia internazionale dell’Energia, questo mercato è infatti dominato a livello globale proprio dall’Australia, che lo scorso anno ne possedeva una quota del 52 per cento (59 per cento se si considera solo il trasporto marittimo). Sebbene nel 2019 la Cina sia stata la seconda principale destinazione delle esportazioni australiane di coke, un quarto di queste sono andate all’India e oltre un sesto al Giappone, mostrando anche in questo caso la diversificazione della clientela di Canberra, che non potrà comunque sostenere a lungo le perdite imposte da Pechino.
I segnali di distensione provenienti dalla Cina non vanno comunque presi alla lettera. Negli ultimi giorni, vari media statali cinesi hanno paventato addirittura la possibilità di dazi contro le esportazioni australiane. Inoltre, come sottolineato al Financial Times da un funzionario cinese, non è detto che il governo di Pechino decida di allentare le restrizioni alle importazioni di carbone dall’Australia in considerazione dei problemi emersi: “la politica viene prima”.
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