La Cina riduce il debito all’Africa, ma rischia di finire in trappola
Pechino ha abbonato ad alcuni Paesi africani una serie di debiti in scadenza quest’anno, ma ha escluso una remissione totale dei prestiti, pari a quasi un quinto delle passività internazionali dell’Africa
La Cina ha abbonato una parte dei prestiti concessi ai Paesi africani, dimostrando forse di non essere impegnata in alcuna trappola del debito, almeno per ora. L’iniziativa, una novità non in termini assoluti ma per le modalità di esecuzione, va infatti letta alla luce del crescente ruolo e delle ambizioni cinesi in Africa e delle preoccupazioni sulla sostenibilità dei gravosi investimenti già compiuti in un momento tanto difficile dovuto alla crisi innescata dall’epidemia di coronavirus, che potrebbe prima o poi costringere la nazione asiatica a cambiare atteggiamento e ad assumere comportamenti simili a quelli di altri creditori internazionali, “intrappolando” tanto Pechino quanto i suoi debitori.
Negli scorsi giorni, il presidente cinese Xi Jinping ha annunciato la remissione dei debiti per i prestiti a tasso zero in scadenza entro la fine del 2020 concessi ai Paesi africani, sollecitando anche la China Development Bank e la Export-Import Bank of China (EximBank) a consultarsi con le nazioni indebitate del continente per discutere dei finanziamenti a scopo commerciale. La decisione segue un piano annunciato da Pechino all’inizio di giugno per la sospensione dei pagamenti sul debito estero per una settantina di Paesi in via di sviluppo come parte di un programma di aiuti in vista della crisi scatenata dalla pandemia di COVID-19 coordinato nell’ambito del G20.
L’impegno del presidente cinese, applaudito dai partner africani in occasione del Forum sulla cooperazione tra Cina e Africa (FOCAC), costituisce però un ulteriore passo avanti anche rispetto alla moratoria sui pagamenti decisa dalle 20 maggiori economie del mondo, che puntano proprio su Pechino, in qualità di principale singolo creditore del continente africano, per congelare circa 11 miliardi di dollari di pagamenti dovuti dai Paesi poveri.
Se questo programma elaborato dal G20 prosegue a rilento, con meno di un quarto dei 73 Paesi debitori ad aver ottenuto finora un’esenzione, la cancellazione di una parte dei debiti africani nei confronti della Cina, sebbene ancora da chiarire nelle dimensioni, appare un gesto concreto e si affianca a quella già decisa dal Fondo monetario internazionale, che ad aprile aveva rimesso 500 milioni di dollari di pagamenti a 25 Paesi membri, di cui 20 africani.
La scelta cinese assume ancora maggiore importanza visto il ruolo giocato da Pechino nelle dinamiche del continente. La nazione asiatica non è ormai soltanto il maggior prestatore di fondi ai Paesi in via di sviluppo di tutto il mondo ma, stando all’ong britannica Jubilee Debt Campaign, un quinto di tutti i prestiti concessi all’Africa coinvolgono Pechino o operatori cinesi.
Secondo la China Africa Research Initiative, tra il 2000 e il 2017, il governo, le banche e gli appaltatori cinesi hanno firmato contratti di prestito del valore di almeno 146 miliardi di dollari con i governi africani e le imprese statali locali. Sebbene non tutti questi fondi siano stati erogati, riguardando in parte anche stanziamenti futuri, si tratta comunque di una somma significativa rapportata all’indebitamento generale del continente, ormai sempre più importante per Pechino.
In Africa, la Cina mantiene ingenti interessi di natura politica ed economica. Il Paese costituisce infatti uno dei partner fondamentali del continente non solo in termini di finanziamenti quanto di investimenti, scambi commerciali e in maniera crescente anche a livello militare. Attraverso l’evoluzione dell’iniziativa Belt & Road, la cosiddetta nuova Via della Seta, i Paesi africani si sono avvicinati sempre di più alla nazione asiatica, ricevendo grandi promesse nel corso degli anni.
Durante l’ultimo forum sulla cooperazione tra Cina e Africa, svoltosi a Pechino nel settembre del 2018 alla presenza delle delegazioni di quasi tutti gli Stati del continente, compresi vari presidenti come quelli di Sudafrica, Egitto e Kenya, Xi Jinping ha annunciato 60 miliardi di dollari di investimenti per i successivi tre anni, in gran parte destinati a nuovi progetti edilizi e ai trasporti. Nel luglio dello scorso anno, la Cina ha poi lanciato un fondo da 1 miliardo di dollari per finanziare le infrastrutture, l’alta tecnologia e l’e-commerce in Africa, che va ad aggiungersi all’ambizioso progetto “China-Africa Online Silk Road Construction”, destinato ad aumentare le connessioni per telecomunicazioni a livello terrestre e sottomarino tra la nazione asiatica e il continente.
La portata di questi numeri assume un significato ancora maggiore in considerazione del livello degli investimenti diretti esteri cinesi nel continente, in straordinaria e rapida crescita. Questi sono infatti aumentati dai 75 milioni di dollari del 2003 ai 5,4 miliardi di dollari del 2018, superando negli ultimi quattro anni i flussi provenienti dagli Stati Uniti. A questi numeri si aggiungono i 3,3 miliardi di dollari di aiuti esteri erogati dalla Cina nel 2018, in forte crescita rispetto ai soli 631 milioni di dollari del 2003.
Anche gli scambi bilaterali continuano a crescere: secondo i dati diffusi dalle Nazioni Unite, il commercio tra la Cina e il continente è arrivato a toccare i 185 miliardi di dollari nel 2018, in aumento rispetto ai 155 miliardi di dollari rilevati nell’anno precedente. Il ritmo di crescita degli scambi cinesi con l’Africa, aumentati del 19,7 per cento tra il 2017 e il 2018, è significativamente superiore all’incremento del commercio estero cinese nello stesso periodo, cresciuto del 12,6 per cento. Questo risultato è in parte dovuto a una serie di incentivi agli scambi, che permettono ad esempio a 33 tra i più poveri Paesi africani di esportare il 97 per cento delle proprie merci in Cina senza pagare dazi.
L’impronta economica e commerciale cinese in Africa comporta anche una presenza fisica sul territorio. Il Paese asiatico vede infatti centinaia di migliaia di propri lavoratori impiegati soprattutto nei cantieri per le nuove infrastrutture. Alla fine del 2018, il personale cinese nel continente contava oltre 201mila lavoratori, impiegati per lo più in Algeria, Angola, Nigeria, Kenya ed Etiopia, un numero considerevole nonostante il calo rispetto al picco di oltre 263mila addetti del 2015. Nel continente Pechino schiera inoltre circa 2mila soldati impegnati in missioni di pace per conto delle Nazioni Unite.
Gli interessi cinesi nella sicurezza in Africa si esplicano anche in termini di cooperazione con gli attori locali: tanto che in occasione del primo China-Africa Defense and Security Forum, tenuto nel 2018, il Paese ha promesso 100 milioni di dollari per finanziare lo schieramento dell’African Standby Force (ASF) e dell’African Capacity for Immediate Response to Crisis (ACIRC). Senza dimenticare la base militare cinese costruita a Gibuti, l’unica realizzata all’estero dal Paese e capace di ospitare fino a 10mila militari a guardia di uno stretto dove passano 4,8 milioni di barili di petrolio al giorno e fino a 20mila navi e il 20 per cento delle esportazioni mondiali ogni anno. Insomma, una presenza significativa che dimostra l’interesse di Pechino a mantenere economicamente in piedi i propri partner in Africa.
A ulteriore riprova, ricordiamo come non sia la prima volta che la Cina rinuncia a una parte dei prestiti concessi ai Paesi del continente. Pechino ha cancellato 3,4 miliardi di dollari e ristrutturato o rifinanziato circa 15 miliardi di dollari di debito in Africa negli ultimi dieci anni, l’ultima volta proprio nel 2018. Nel farlo, il Paese ha adottato metodi forse poco trasparenti ma non invisi alle classi dirigenti e alle opinioni pubbliche locali, sebbene abbia rinunciato sempre e solo ai prestiti a interessi zero, che costituiscono una piccola parte del debito contratto dai Paesi africani con la nazione asiatica.
Secondo un recente studio della Johns Hopkins University, che analizza oltre 1.000 prestiti concessi da Pechino all’Africa negli ultimi 20 anni, gli accordi di ristrutturazione del debito “sono stati più facili da raggiungere con i finanziatori cinesi che con i creditori privati”. In questi casi inoltre la Cina non ha fatto ricorso a sanzioni o a minacce di sequestro dei beni dei debitori, mantenendo finora intatta la propria immagine di nazione che ricorre ancora al soft power, almeno in certe questioni.
Se molte istituzioni creditizie multilaterali e prestatori privati si sono dimostrati riluttanti negli anni a concedere una riduzione generale degli obblighi di pagamento, citando preoccupazioni relative al declassamento del rating e alle condizioni economiche contingenti, la Cina è intervenuta in questo senso proprio nei momenti di maggiore difficoltà, ad esempio nel 2015 in concomitanza del crollo dei prezzi delle materie prime. Sebbene queste operazioni siano state condotte analizzando caso per caso la situazione dei singoli debitori, questi sono rimasti colpiti soprattutto dalla relativa facilità di “rinegoziare, ristrutturare o rifinanziare” i debiti contratti con Pechino, in particolare in confronto agli ostacoli incontrati in merito per i prestiti emessi in dollari.
A fronte delle difficoltà di cambiare i termini delle obbligazioni emesse a livello internazionale, testimoniate anche dal Fmi e dovute per lo più alla struttura proprietaria diversificata, al vincolo valutario e alle maggiori garanzie richieste, i prestiti contratti tra Paesi sono più facilmente rinegoziabili a livello politico. Ed è proprio in quest’ottica che si muove Pechino, che preferisce negoziare la riduzione del debito sempre a livello bilaterale, salvo poi inserire l’operazione in quadri più ampi.
Dal punto di vista cinese, questo consente al debitore di salvare la faccia, anche se la mancanza di trasparenza suscita diverse preoccupazioni a livello internazionale nonostante la rinegoziazione dei prestiti concessi dalla Cina non avvenga più esclusivamente a livello bilaterale da oltre 20 anni. Queste operazioni sono ormai sempre condotte in parallelo ad analoghi programmi di riduzione del debito negoziati da altri Paesi o nel quadro delle Nazioni Unite, della Banca mondiale o del Fondo monetario internazionale. Inoltre, sebbene la Cina non abbia aderito al Club di Parigi, quando richiesto, Pechino ha finora sempre accettato di ristrutturare i prestiti concessi secondo i termini di questo accordo internazionale, come nel caso dell’Indonesia e dell’Iraq. In questo senso, l’azione cinese di questi giorni costituisce una novità, perché stavolta Pechino non agirà in parallelo ad altri Paesi, ma all’interno del G20.
La scelta della Cina potrebbe dipendere proprio dalla crisi senza precedenti, anche economica, innescata dal coronavirus, obbligando Pechino a sostenere una politica adottata già da diversi anni, che mira ad alimentare lo sviluppo in Africa con investimenti e prestiti, favorendo al contempo le esportazioni e il ruolo delle imprese cinesi. Secondo una ricerca dell’Economist per lo studio legale internazionale Baker & McKenzie, negli ultimi anni il Paese asiatico non solo ha aumentato gli investimenti nel continente ma sembra aver cambiato atteggiamento, spostando l’attenzione dal settore minerario e agricolo all’industria dei servizi, a quella finanziaria e al comparto edilizio.
All’ottica di reperimento delle risorse, la Cina sembra così aver quantomeno affiancato una politica volta al rilancio della crescita in Africa e i numeri lo dimostrano. Secondo il ministero cinese del Commercio, tra il 2015 e il 2018 gli investimenti del Paese nel settore edilizio, nella produzione manifatturiera e nei servizi finanziari nel continente sono infatti cresciuti molto di più rispetto all’aumento registrato dagli impieghi nell’industria mineraria africana. D’altronde, secondo l’ambasciatore cinese in Sudafrica, Lin Songtian, la Cina sta investendo in oltre il 30 per cento dei cantieri per nuove infrastrutture aperti nel continente e nell’80 per cento dei progetti per telecomunicazioni della regione, al fine di agevolare l’industrializzazione, l’urbanizzazione e lo sviluppo sostenibile africano.
Gli accordi raggiunti in occasione del Forum di Pechino del 2018 per lo sviluppo industriale, l’interconnessione infrastrutturale, l’agevolazione degli scambi e la crescita nel rispetto dell’ambiente nel continente si basano innegabilmente su una serie di iniziative già approntate dalla Cina nel decennio precedente. Nell’Africa sub-sahariana, ad esempio, le società cinesi avevano già in precedenza sostenuto la costruzione di tre importanti zone economiche: in Zambia, Etiopia e Nigeria. Tali investimenti stanno contribuendo all’aumento dell’occupazione e allo sviluppo dell’industria locale. Negli ultimi 10 anni, soltanto la Eastern Industrial Zone realizzata in Etiopia ha favorito la creazione di oltre 10mila posti di lavoro per i residenti locali, aumentando le esportazioni manifatturiere del Paese africano, che ora ha in cantiere altri 15 parchi industriali simili, la maggior parte dei quali finanziati da Pechino.
La Cina intende dichiaratamente ampliare la propria impronta produttiva in Africa, investendo e finanziando in particolare in una serie di settori considerati prioritari come quelli cementifero, automobilistico, siderurgico, tessile, chimico, farmaceutico, alimentare, elettronico e meccanico, con l’obiettivo di sfruttare il potenziale industriale, occupazionale e dei consumi del continente.
L’altra faccia della medaglia è però costituita dal rischio che gli investimenti erogati e i prestiti concessi si rivelino meno produttivi di quanto sperato, vista la bassa qualità della governance, i rischi valutari, la complessa regolamentazione, la situazione della sicurezza e gli alti livelli di corruzione che continuano ad affliggere l’Africa.
Sebbene la relativa facilità di rinegoziazione dei prestiti concessi dalla Cina allontani in parte le preoccupazioni su una presunta trappola del debito orchestrata da Pechino e spesso considerata, pur senza prove a sostegno, più pericolosa di quella potenzialmente in agguato da parte di istituzioni multilaterali internazionali o Paesi occidentali, l’effettiva e non poco frequente ristrutturazione di questi debiti convalida una serie di legittime preoccupazioni sulla sostenibilità di queste operazioni. Anche in questo caso, diversi dati sembrano sostenere le previsioni meno ottimistiche. Nel 2018, i ricavi lordi annui dei progetti edilizi delle società cinesi in Africa sono scesi dello 0,5 per cento rispetto al 2017, segnando il terzo anno consecutivo di calo dopo la straordinaria crescita rilevata fino al 2015.
E non è finita. Secondo un’analisi condotta lo scorso anno dal Rhodium Group di Hong Kong sui finanziamenti concessi dalla Cina nell’ambito della nuova Via della Seta, dal 2013 ben 40 prestiti sono stati rinegoziati dalla China Development Bank (CDB) e dalla Export-Import Bank of China (Eximbank) per un valore di 50 miliardi di dollari. Tra questi, ben 22 coinvolgevano Paesi africani, per un valore di 32 miliardi di dollari. Una prospettiva davvero poco ottimistica per Pechino che, secondo il Kiel Institute, ha concesso a vari Paesi in via di sviluppo fino a 520 miliardi di dollari di finanziamenti, facendone un prestatore più impegnato della Banca mondiale o del Fondo monetario internazionale. Soltanto nell’ambito dell’iniziativa Belt & Road, dal 2013 la Cina ha prestato fino a 350 miliardi di dollari a diverse nazioni, quasi la metà delle quali considerati debitori ad alto rischio.
La situazione potrebbe complicarsi sempre di più con l’arrivo della probabile recessione economica globale, che impedirà a molti Stati poveri indebitati di rispettare i propri impegni. Il livello di esposizione cinese mette Pechino in una condizione difficile, non potendo far altro che continuare a rinegoziare i termini degli accordi o optare per ulteriori riduzioni dei debiti, se non vuole ricorrere ai metodi e alle garanzie adottate da altri Paesi e da altre istituzioni multilaterali tanto invise alle nazioni debitrici. Come profetizzato da un anonimo funzionario del Fondo monetario internazionale ai ricercatori del China Africa Research Initiative, i cinesi potrebbero trovarsi a dover “percorrere la strada che altri Paesi hanno intrapreso prima di loro”. In questo senso, la decisione di Pechino di muoversi non più in parallelo ma nel quadro di un organismo come il G20, seppur stavolta in un’ottica di moratoria e non di recupero del debito, potrebbe segnalare un primo, timido cambio di rotta sulla linea morbida finora adottata dalla Cina in materia di crediti internazionali, un percorso rischioso che potrebbe offuscare l’immagine costruita negli anni dal Paese ma forse obbligato se gli investimenti compiuti si riveleranno meno produttivi di quanto sperato. Alla fine nella “trappola” del debito potrebbe finirci proprio la Cina.