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Chicago, dove si spara ogni due ore e ci sono due morti al giorno: il reportage di TPI

La città del vento è la più segregata d'America. Il viaggio di TPI nei quartieri afroamericani

 

 

Chicago, la città più segregata d’America: ecco come si vive nei quartieri afroamericani

“Gli omicidi causati da sparatorie a Chicago sono ormai così tanti da essere diventati la normalità”, spiega Tommy McFadden a TPI. Incontriamo Tommy davanti a una scuola di South Side, il quartiere afroamericano dove è nato e cresciuto. Ha 68 anni e nel 2019 ha lavorato per la campagna elettorale di Lori Lightfoot, la prima sindaca afroamericana e apertamente gay che Chicago abbia mai eletto. Gli otto anni dell’era Obama li ha passati dietro le sbarre del Metropolitan Detention Center per spaccio e vendita di armi. Dopo aver vissuto sulla sua pelle tutte le difficoltà di un ghetto capace di stritolarti, ha deciso di diventare un attivista in quello stesso territorio che lo aveva portato a delinquere.

I numeri della violenza a Chicago

A Chicago ogni due ore una persona viene colpita da un’arma da fuoco, e ogni dodici qualcuno rimane ucciso. Fanno più morti le armi di Chicago che le guerre. In 18 anni, tra il 2001 e il 2019, le vittime di omicidio sono state 9.488, duemilacinquecento in più rispetto ai soldati americani morti in Iraq e Afghanistan.

Polizia a South Side Credit: Veronica Di Benedetto Montaccini

The Windy City, the second city, the city that works, the city with the big shoulders. Quanti soprannomi le hanno dato nel tempo. Ci sono due facce della metropoli dell’Illinois: quella che affaccia sul lago Michigan, con la sua architettura spettacolare e i tifosi di football per strada. Ma l’altra faccia è quella delle migliaia di vite stroncate.

Nei quartieri più colpiti dall’epidemia di violenza si vive nella paura. “Qui in strada ti vendono un AK47 per 70 dollari, una pistola automatica Glock per 25”, dice Tommy, mentre guida il suo pick up a tutta velocità per le strade del South Side, la zona più pericolosa di Chicago, un quartiere devastato dalla violenza armata che ha lasciato sul terreno centinaia di vittime, soprattutto tra i giovani.

“Qui ci si ammazza per strada anche per un piccolo litigio – spiega l’ex detenuto – Ma questo succede perché i ragazzini hanno in mano armi di distruzione di massa, fucili mitragliatori che possono sparare da 89 a 150 proiettili in una raffica sola!”.

Oggi Tommy ha cambiato radicalmente vita, e combatte contro la proliferazione delle armi nella sua comunità: “Sono stanco di vedere le mie sorelle e i miei fratelli morire tutti i giorni perché si sparano tra di loro”.

Tommy McFadden ci porta a vedere un monumento contro la violenza armata che è stato costruito da una associazione del quartiere. Hanno realizzato una parete fatta di mattoni grezzi, su cui hanno inciso i nomi delle persone morte in conflitti a fuoco. Sotto è segnata l’età: 450 mattoni dedicati a quindicenni, sedicenni, diciannovenni, il più grande aveva 22 anni. Tra i tanti nomi ci sono anche quelli dei bambini colpiti per sbaglio o da proiettili vaganti.

Tommy Credit: Veronica Di Benedetto Montaccini

Le strade del South Side sono deserte. Le serrande dei negozi sono tirate giù, con scritte “affittasi” e “vendesi” ovunque. A ogni angolo ci sono gruppi di giovanissimi di vedetta. La guerra tra bande armate va avanti tutti i giorni, colpo su colpo, omicidio dopo omicidio. Si spara molto di notte ma anche di giorno. In mezzo alla gente che esce dai supermercati o dai centri commerciali. Si spara davanti alle scuole.

Parlando con gli abitanti del South Side non ce n’è uno che non abbia visto di persona o almeno sentito raccontare di sparatorie e omicidi, notizie che attraversano il quartiere con la velocità dei fulmini, arrivando fino ai più piccoli; e ancora di più quelli che direttamente o indirettamente conoscono le persone ferite o uccise nel Far West che è diventato il South Side.

Chicago è in guerra e le sue vittime sono i civili, anche i bambini. Addirittura, al Comer Children’s Hospital, un enorme ospedale che serve la zona sud della città, hanno dovuto installare una nuova sala operatoria per cercare di salvare la vita ai bambini feriti da arma da fuoco.

“Funziona così: una volta se avevo una discussione magari lasciavo perdere”, cerca di spiegarci un giovane padre che incontro davanti al suo appartamento di South Side mentre controlla la figlia che gioca nel tipico giardinetto all’americana davanti alla casa. “Oggi se litigo con qualcuno devo per forza tirare fuori l’arma prima che la tiri fuori lui. Perché so che lui è armato e che mi può uccidere!”. Poi aggiunge: “Anche io sono armato, qui tutti sono armati”.

Se non possiedi un’arma da fuoco, può capitare di trovarsi in situazioni di pericolo che possono segnarti a vita. Come è successo a Destiny. Occhi sbarrati e di un verde fuori dal comune, ha le unghie rovinate, con lo smalto che cade a pezzi un po’ come il suo umore. Ha 26 anni e le sue origini hanno radici difficili: sua nonna è emigrata dall’Alabama quando sua madre era piccolissima, puliva le scarpe ai bianchi fuori da un ristorante.

Adesso la ragazza lavora al McDonald del quartiere, dove all’ora di pranzo c’è una lunghissima fila che arriva fino al parcheggio, perché con 3 dollari puoi prenderti un cheeseburger e svoltare l’unico pasto caldo della giornata. Proprio in quel Mc hanno tentato di violentarla e lei non era armata. Destiny. Ma qual è il tuo destino? “My destiny is to be happy, but I’m still working on it”, “Il mio destino è di essere felice, ma ci sto ancora lavorando”, dice a TPI. Barack Obama ama ripetere: “I’m from Chicago, I don’t break”, “Sono di Chicago, non mi spezzo”. Forse è proprio così.

Destiny, 26 Credit: Veronica Di Benedetto Montaccini

La svolta di Lori Lightfoot, la prima sindaca afroamericana

La diminuzione della violenza e degli omicidi è tra le promesse politiche di Lori Lightfoot. Il 2 aprile 2019 è stato il giorno di un voto davvero storico, perché Chicago è diventata la più grande città americana di sempre a eleggere una donna afroamericana. Lightfoot, 56 anni è un avvocato, ex procuratrice federale e è succeduta a Rahm Emanuel, dopo aver battuto nel ballottaggio del 2 aprile 2019 Toni Preckwinkle, democratica e anche lei afroamericana.

Lightfoot ha ottenuto il 73,7 per cento dei voti grazie a una campagna elettorale basata sulla lotta alla corruzione e sull’aiuto alle famiglie con basso reddito e alla classe media, entrambe ignorate finora dalla politica della città dell’Illinois.

La sindaca Lori Lightfoot con dei sostenitori Credit: Veronica Di Benedetto Montaccini

Non è la prima volta che un nero arriva a ricoprire questa carica. Nel 1983, la città scelse il suo primo sindaco nero, Harold Washington, in un’elezione razziale; un termine prima, nel 1979, la città scelse la sua prima donna sindaco, Jane Byrne.

Tra le donne afroamericane che hanno ricoperto importanti ruoli istituzionali c’è anche Carol Moseley Braun, prima senatrice nera del Partito Democratico. Anche se poi non vinse, nel 2003 corse alle primarie democratiche che avrebbero dovuto decidere il candidato presidente da contrapporre a George W. Bush. “Sono contentissima del risultato di Lori Lightfoot, significa molto per gli afroamericani”, ha dichiarato la senatrice a TPI.

Parlando di un episodio personale, Moseley Braun ha raccontato: “Mi dissero: non puoi vincere. I neri non voteranno per te perché non fai parte della comunità di Chicago. I bianchi non voteranno per te perché sei nera. E nessuno voterà per te perché sei una donna “. Era il 1978.

Parole negative molto simili sono state pronunciate durante la campagna di Lori Lightfoot, per scoraggiarla. Carol Moseley Braun si candidò comunque e fu eletta senatrice.

La sindaca neoeletta ha parlato frequentemente di equità e inclusione, di ridistribuzione dei fondi della città per diffondere la prosperità del centro e del North Side ai quartieri che sono stati trascurati.

L’avocatessa ha promesso un impegno cruciale per gli afroamericani: “È inaccettabile, la condizione delle nostre comunità sui lati sud e ovest. L’unico modo per intagliare un nuovo percorso per la città, portarci in una direzione che le nostre comunità non continuino a essere affamate di risorse, è votare per il cambiamento”.

> Voto storico a Chicago: eletta la prima sindaca afroamericana e apertamente gay | REPORTAGE 

Quartieri afroamericani a Chicago, oltre la retorica del “carnaio”

La narrazione che domina nel dibattito nazionale è quella più volte pronunciata dal presidente Donal Trump: Chicago come un “carnaio”, come “un’area dove la criminalità è alta per colpa delle persone che ci abitano”.

Ma questa retorica non è affatto completa. Abitare nei quartieri-ghetto non è esattamente una scelta, infatti. È la mappa stessa a spiegare la geografia etnica di Chicago: a est c’è il lago Michigan, o ovest le industrie, a nord i bianchi, a sud i neri.

Mary Parrillo è una sociologa della North Western University e ha sottolineato a TPI che “quando si parla del South Side oggi si parla unicamente del lato nero”.

Questa segregazione non è accidentale, ma deriva da decenni di politiche decise a tavolino. Intorno al 1900 Chicago era una città di emigrati bianchi, poi con la grande migrazione la popolazione afroamericana ha cominciato a spostarsi dalla zona della Jim Crown Law verso altre aree più sicure. Intorno agli anni ’40 quasi mezzo milione di afroamericani viveva a Chicago.

I neri si concentravano soprattutto nella cosiddetta black belt e subivano delle pratiche abitative del tutto razziste e illegali. Una di queste era la redlining, ovvero il rifiuto del contratto di affitto nei quartieri bianchi alle famiglie nere. La città soffre ancora per le sue divisioni. Dal 1955 al 1970 il 62 per cento di neri e soltanto il 4 per cento di bianchi è stato cresciuto in quartieri poveri. Secondo il report di Charitable Trust, mezzo secolo dopo questi numeri non sono cambiati.

Christina, South Side Credit: Veronica Di Benedetto Montaccini
Underground Credit: Veronica Di Benedetto Montaccini

Il Dio dei neri

Dove manca tutto il resto, è la chiesa protestante a fare da collante nelle comunità. La domenica, è la messa afroamericana che scova te. Il ritmo viene dal profondo della terra, giù, basso. Canti antichi si mescolano ad un entusiasmo tutto moderno, della metropoli.

Pianola, batteria e chitarra riempiono l’ambiente e un’immensa donna nera sta cantando Alleluja dal palco. Giovanissime ragazze allattano neonati seminudi, bambini che scorrazzano tra le sedie. Tutti ballano, in piedi. Chi mangia, chi beve e poi lo sguardo cade sul colletto bianco che spicca sulla pelle color ebano del prete, il pastore della chiesa della 69esima strada James Parrish.

Rito protestante, il pastore James Parrish con dei fedeli Credit: Veronica Di Benedetto Montaccini

“South Side cerca di mantenere la sua dignità – commenta il pastore a TPI – Ma l’angoscia è percepibile, in un momento in cui i neri sono il target non solo della gang criminali, ma anche della polizia. Qui ti sparano in testa e non guardano in faccia neanche all’età. La chiesa diventa così un porto sicuro, una comunità dove sfogare le proprie paure”.

Il Dio celebrato dagli afroamericani è opulento. Con le sue melodie scatenate prende il posto della politica, dei centri di aggregazione e, a volte, anche della scuola. La musica è un tappeto continuo, viene improvvisata e fa diventare un climax crescente ogni frase del pastore.

Fa parte dello spettacolo e nel salire del pathos ognuno si aggiunge con un “Amen” che si confonde con “Hey man”, “go head”, “yes man”, “go head now!”, sempre al momento esattamente preciso, dove sta bene. Nessuno si sovrappone: su oltre cento persone, ognuno conosce il suo attimo.

Il Dio dei neri è comunità ed è fratello di tutti, perché fuori dalla chiesa qui ci si spara per strada. Il Dio dei neri balla senza freni, perché a South Side d’inverno fa freddo senza una casa. Il Dio dei neri è un abbraccio continuo, perché là fuori non si aspetta la notte per bucarsi le vene.

Assistere a questi riti sacri, vergognandosi un po’ dei propri blu jeans di fronte all’eleganza smaccata e colorata dei credenti afroamericani, significa prendere coscienza della carica di energia di cui si nutre settimanalmente la comunità nera, per poter vivere ogni giorno la durezza della segregazione e del ghetto. E per celebrare la memoria dei loro antenati, che sublimavano cantando le catene della loro schiavitù.

Chicago e gli afroamericani, la segregazione delle scuole

Vivere in un ghetto significa ricevere un’educazione diversa. Non è difficile vedere quanta differenza ci sia tra un quartiere e l’altro. Nel South Side quasi tutti gli studenti sono afroamericani e l’8 per cento di questi vive in condizioni di povertà. Sono senza tetto, hanno fame. La scuola è l’ultimo dei loro problemi e la violenza è all’ordine del giorno.

La scuola pubblica di Chicago è sempre stata bistrattata dallo stato dell’Illinois: nonostante i 400 istituti pubblici, riceve solo il 15 per cento dei fondi scolastici statali. Sono stati annunciati 200 milioni di dollari di tagli solo lo scorso anno. E i genitori di famiglie bianche sanno che se vogliono dare un buona educazione ai figli devono fare solo una cosa: mandarli nelle scuole private.

Nel 1954 il caso Brown vs Board of education portò gli Stati Uniti a ripensare il sistema segregato delle scuole e a unire bianchi e neri nelle stesse classi.  Il picco di integrazione delle minoranze c’è stato negli anni ’80, ma oggi, in tutto il paese e anche a Chicago le scuole sono tornate a essere segregate come lo erano prima degli anni ’60, con delle conseguenze gravissime.

All’uscita di scuola Credit: Veronica Di Benedetto Montaccini

Joanna Richardson, fondatrice di The History Makers, il più grande archivio video di storia afroamericana racconta a TPI: “Siamo tornati agli anni ’60, con le scuole separate e ineguali. Qui a Chicago vai solo nella tua scuola di quartiere, non ti sposti. E la maggior parte delle migliori scuole sono gestite da bianchi. Le scuole pubbliche sono nere. In questa città chiudono 15 scuole ogni anno ed è una vera e propria emergenza”.

“Non c’è niente di peggio della segregazione delle scuole. Questo crea dei problemi sociali a catena. Come si può pensare che i bambini si integrino, se l’unica cosa che vedono sono persone nelle loro stesse condizioni?Se gli afroamericano stanno sempre e solo tra afroamericani?”. A dirlo a TPI è Josie Childs, 93 anni. La chiamano “la consigliera dei politici neri” perché da 60 anni dispensa strategie politiche agli afroamericani che hanno fatto la storia degli Stati Uniti. È stata per esempio la direttrice della comunicazione e carissima amica di Harold Washington, il primo sindaco nero a Chicago. Anche Barack Obama, poco prima della sua prima campagna elettorale del 2008 è passato dalla sua città natale per incontrare Josie per una lunga colazione con lei.

Josie Childs, 93 Credit: Veronica Di Benedetto Montaccini

La nuova schiavitù si chiama incarcerazione di massa

Le ingiustizie non riguardano solo l’educazione a Chicago. Uno dei punti cruciali che ha cambiato il volto dell’America di oggi è l’incarcerazione di massa. Nel sistema delle prigioni americane la maggior parte dei prigionieri è di origine afroamericana, con punte dell’80 per cento. Il XIII emendamento della Costituzione  americana ha abolito per sempre la schiavitù, ma la nuova forma di oppressione sono le celle.

Anche a Chicago la carcerazione viene usata come strumento di controllo delle minoranze afroamericane. “Il sistema delle prigioni americane è privato, quindi è un business”puntualizza Josie Childs.

La maggior parte dei prigionieri è di origine afroamericana: “C’è un’iper criminalizzazione dei reati minori – spiega Childs – tipici dei ghetti afroamericani, come lo spaccio di hashish. Spesso gli afroamericani in carcere provengono da famiglie povere, che non si possono pagare la cauzione”.

Poi, “la consigliera degli afroamericani” continua: “Negli USA il novantasette percento dei 125.000 detenuti federali sono stati condannati per reati non violenti. Si ritiene che oltre la metà dei 623.000 detenuti nelle carceri municipali o provinciali siano innocenti dei crimini di cui sono stati accusati. Di questi, la maggior parte è in attesa di processo. Due terzi del milione di prigionieri statali hanno commesso reati non violenti, e il 16 per cento dei 2 milioni di prigionieri del paese soffrono di malattie mentali”.

Dietro a tutto questo c’è la War on drugs, la guerra alle droghe imposta dai politici che si concentra sulle comunità di minoranza e afroamericane e non su quelle ricche e bianche, in particolare la politica organizzata da Richard Nixon e Ronald Reagan nelle loro “battaglie” contro crimine e droga, fino ad arrivare alla politica del presidente attuale Donald Trump.

Il contrasto tra la Trump Tower e un homeless Credit: Veronica Di Benedetto Montaccini

I dati affermano che negli USA un afroamericano su quattro finisce in carcere, e uno stato sa quante prigioni costruire dai punteggi degli esami statali della quarta elementare.

Almeno 37 stati hanno legalizzato il contratto di lavoro carcerario da parte di società private che gestiscono le loro produzioni all’interno delle prigioni statali. Cooperative come la IBM, Boeing, Motorola, Microsoft, AT&T, Wireless, Texas Instrument, Dell, Compaq, Honeywell, Hewlett-Packard, Nortel, Lucent Technologies, 3Com, Intel, Northern Telecom, TWA, Nordstrom’s, Revlon, Macy’s, Pierre Cardin, Target Stores, J.C.Panny, Victoria’s Secret, e molte altre.

Tutte queste aziende sono entusiaste di aver generato il boom economico con il lavoro carcerario. Solo tra il 1980 e il 1994 i profitti sono passati da 392 milioni di dollari a 1,31 miliardi.

Secondo Joanna Richardson di The History Makers il problema è politico: “Se solo la politica prendesse i soldi pubblici che al momento investe nelle carceri e fossero invece utilizzati per la creazione di scuole o di comunità. E se solo fosse data la possibilità ai giovani di crescere con pari modelli e opportunità!”.

“Se sei circondato da un deserto – continua Joanna – diventerai un deserto, se sei circondato dalla criminalità, sarà più facile diventare un criminale”.

E se la violenza e la segregazione sembrano divorare e desertificare il South Side, il quartiere invece si ribella. Questa città ne ha viste tante, oggi è ancora tra le più segregate d’America, ma continua a lottare. E sono i suoi rumori a ricordarlo, troppi per poter frenare la sua dannata libertà: il clacson del mastodontico scuola bus giallo nel traffico, il vociare dei lavoratori che si spostano con la metro rossa, la canzone sempre intonata a mezza bocca dagli afroamericani. Le sfide chiassose a colpi di frasi tra gruppi di adolescenti negli angoli della 69esima strada, la voce grossa dei Gospel, la domenica, che ti fa alzare dalla sedia. Sweet Home Chicago.

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