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Chi è Uhuru Kenyatta?

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Il presidente del Kenya è accusato di crimini contro l'umanità. Ma l'Occidente non si può permettere di tagliare i legami con il Paese africano

Il suo nome in lingua swahili significa libertà. I sostenitori lo chiamano Njamba (eroe). Ed è il secondo presidente in carica sotto processo presso la Corte Penale Internazionale, con il sudanese al-Bashir.

Un nome che pesa, il suo. Figlio di Jomo Kenyatta, primo presidente della storia del Kenya, considerato il padre della nazione. Uhuru, 51 anni, sposato e con tre figli, ha studiato scienze economiche e politiche all’Amherst College, nel Massachusetts. Sarà il quarto e il più giovane presidente della storia keniota.

È membro di una delle famiglie più potenti e ricche della nazione. Il suo nome era sino allo scorso anno nella classifica di Forbes degli uomini più ricchi dell’Africa, e i Kenyatta vantano un patrimonio immenso, nel settore assicurativo, edile, delle banche e dei media. Controlla il network televisivo K24, oltre a radio e giornali.

Ha inoltre proprietà terriere infinite, acquisite dal padre nell’era post coloniale, secondo alcuni in modo controverso. Più di 200mila ettari, concentrati nella Rift Valley e sulla costa.

In un cablo del 2009 pubblicato da Wikileaks, l’ex ambasciatore degli Stati Uniti in Kenya Ranneberger afferma che le eredità di Uhuru sarebbero in gran parte frutto della corruzione esercitata dal padre Jomo.

Kenyatta è il terzo presidente keniota su quattro proveniente dalla tribù Kikuyu, la più potente e numerosa del Paese. In parlamento dal 2001, Uhuru Kenyatta emerge politicamente sotto l’ala di Daniel Arap Moi, presidente dal 1978 al 2002.

Vice primo ministro da aprile 2008, conserva la carica di ministro delle Finanze sino al 2012, anno in cui diviene leader del partito The National Alliance. È celebre la sua decisione di sostituire, in qualità di ministro, le Mercedes di lusso in dotazione al corpo politico con le più sobrie Volkswagen Passat.

Sotto lo slogan “I believe” dà una nuova impronta al partito, presentando il suo movimento come il ‘digital team’, al passo con i tempi e che sfrutta la potenza comunicativa dei social network. Su twitter l’account di Kenyatta ha più di 120mila follower.

Kenyatta porta in dote un’accusa pesante e dalle conseguenze internazionali rilevanti: a luglio inizierà il suo processo a l’Aja per crimini contro l’umanità. È accusato, con il suo candidato a posizione di vice William Ruto e il conduttore radiofonico Joshua Arap Sang di essere il mandante degli scontri post elettorali del 2007/8 che causarono circa 1.300 morti e oltre 600mila sfollati.

Ci si interroga su come potrà governare un presidente che ha promesso, a differenza di al-Bashir, di volersi sottoporre al giudizio della Corte e che dovrà dunque passare più tempo nelle aule olandesi che a Nairobi. L’utilizzo intensivo di skype sembra essere oggi la soluzione più idonea. Moderne forme di amministrazione del potere.

La sua elezione ha provocato imbarazzo nella comunità internazionale, che cerca di mantenere una linea diplomatica rigida e di isolamento nei confronti di chi è sotto processo alla Corte Penale Internazionale. Gli avvertimenti lanciati durante la campagna elettorale sono stati interpretati come un’interferenza negli affari politici interni.

Johnnie Carson, assistente segretario di Stato per gli affari africani degli Stati Uniti, aveva esplicitamente ammonito che ci sarebbero state delle conseguenze se Kenyatta avesse vinto. E le rappresentanze diplomatiche dell’Unione Europea, con il Regno Unito a fare da capofila, oggi dichiarano che si limiteranno a mantenere i “contatti essenziali” con il presidente keniota.

Questa politica di più o meno tacito ostracismo nei confronti di Kenyatta ha invece paradossalmente sortito l’effetto contrario. Ha vinto al primo turno, sostenuto da un elettorato che ha rigettato qualsivoglia ingerenza straniera, definita di stampo neocolonialista.

La stessa imputazione presso la Corte Penale Internazionale ha cementato un’alleanza, apparsa ai più strumentale ai fini del processo, con il coimputato William Ruto, esponente della tribù Kalenjin contro i quali, ironia della sorte, i Kikuyu di Kenyatta avevano combattuto nel 2007.

Le ultime elezioni sembrano essersi concluse in modo relativamente pacifico, in un nuovo clima di maturità politica. E, paradossalmente, questo processo potrebbe compromettere un lento processo di riconciliazione etnica.

I rischi paventati per il Kenya oggi sono quelli di un isolamento diplomatico ed economico, con ripercussioni sull’import/export e anche sul turismo.

Tuttavia, la crescita esponenziale delle economie orientali non consente alla comunità occidentale di fare passi indietro, e forzare la mano nei confronti dell’estabilishment keniota. Cina e India sono entrate in Africa con investimenti massicci, e spaventano i mercati europei e americani.

Inoltre gli interessi di multinazionali occidentali, soprattutto di marchio britannico (Barclays, Vodafone per fare qualche esempio) sono consistenti nella regione e verrebbero facilmente scalzati.

Infine, il Kenya si è rivelato il partner più affidabile in Africa Orientale nella lotta al terrorismo e all’estremismo islamico. In un momento storico in cui è difficile e dispendioso impiegare uomini, mezzi e risorse sul campo, dopo i risultati alterni in Iraq e Afghanistan, l’operazione Linda Nchi, condotta in Somalia dall’esercito keniota per sradicare Al Shabaab, si sta rivelando l’unica garanzia nella regione sotto il profilo della sicurezza.

Il Kenya è un partner che la comunità internazionale non può perdersi per strada. E con Uhuru Kenyatta si dovrà fare i conti, volenti o no.

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