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Conoscere John Kerry

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Un profilo del segretario di Stato americano, l'uomo che tiene in mano la diplomazia di mezzo mondo

John Forbes Kerry. Il segretario di Stato americano ha il volto di un bostoniano aristocratico e distaccato, criticato da molti perché “triste” o “indeciso cronico”. In realtà la vita del nono senatore più esperto d’America, a Capitol Hill da 31 anni, ha la consistenza di un romanzo. Di Fitzgerald, all’inizio. Di Pirandello, considerando i suoi 73 anni.

Kerry è uno, nessuno, centomila. Un uomo cresciuto nel privilegio ma senza radici. Il cognome Kerry induce nell’errore di attribuirgli origini irlandesi. E invece i suoi nonni paterni erano ebrei della Galizia, costretti da un’ondata di antisemitismo nell’impero Austro-Ungarico d’inizio Novecento a cambiare nome, religione e continente. Curioso, il criterio: aperta una pagina a caso di un atlante geografico, Fritz Kohn pose la matita sulla contea di Kerry, Irlanda, diventando così Frederick Kerry.

Rampollo per parte di madre della ricca stirpe dei Forbes, trascorre gran parte dell’infanzia in Europa. Frequenta il liceo alla Saint Paul School, nel New Hampshire, per poi iscriversi a Yale (laurea nel 1966), dove entra nella società segreta Skull and Bones, la stessa di George W. Bush, contro cui perderà le presidenziali del 2004, unico caso di sfida elettorale tra Bonesmen. Da ragazzo frequenta Janet Auchincloss, sorella della più famosa Jacqueline, moglie dell’uomo con cui condivide le iniziali: Jfk, John Fitzgerald Kennedy, idolo d’adolescenza che incontra nell’estate del 1962 e di cui sogna a lungo di emulare i passi.

Sin qui, a riavvolgere il nastro della storia di Kerry pare d’imbattersi nella cronaca, piuttosto tradizionale, di un alto borghese del New England. Che nel 1970 avrebbe sposato la ricca Julia Thorne (sorella del suo migliore amico David, oggi ambasciatore in Italia) e nel 1995, una volta divorziato, l’ancor più ricca Teresa Simões-Ferreira, ereditiera di Heinz, il re del ketchup. Eppure a imprimere una svolta inattesa alla sua vita è il Vietnam. Arruolatosi in marina come ufficiale, nel 1968 viene mandato nel golfo di Tonchino a guidare pattugliamenti armati dentro le linee nemiche. I suoi uomini lo ricordano come uno degli ufficiali più spericolati, sempre pronto ad assumersi un rischio. Guadagna cinque medaglie, tra cui tre Purple Heart per altrettante ferite, che gli danno la possibilità di chiedere di rientrare in patria, opzione che subito esercita.

Del Vietnam, Kerry ne ha visto abbastanza. Tornato in America, si unisce al movimento di protesta Vietnam Veterans Against the War di cui diventa il leader carismatico. Nel 1971 denuncia davanti al Congresso gli orrori della guerra e gli errori del suo Paese. “Come si fa a chiedere a un uomo di essere l’ultimo a morire per un errore?”, chiede ai senatori. La sua visibilità attira le ire del presidente Nixon, che in lui vede un pericolo maggiore rispetto ai barbuti capelloni radicali che sventolano la bandiera dei Viet Cong. No, Kerry è istruito, decorato, aristocratico. Va fatto fuori – politicamente, s’intende. Recita un memo segreto di un consigliere della Casa Bianca: “Distruggere il giovane demagogo”. Nixon teme che la sua smisurata ambizione lo getti nell’agone politico.

Non sbaglia. Nel 1972 Kerry si candida al Congresso. Perde ma non demorde. Diventa procuratore e nel 1982 viene eletto a vice governatore del Massachussets, da cui prepara la corsa per un seggio al Senato nel 1984, stavolta vincendo. Qui Kerry rimane per ben 27 anni, scolpendo la sua carriera nei marmi della politica estera. Si costruisce un ruolo da abile negoziatore e stringe rapporti con molti leader mondiali. Come quando nel 2009 vola a Kabul per far accettare al presidente Karzai un secondo turno alle elezioni, o quando, dopo il raid contro Bin Laden, va in Pakistan per riallacciare i rapporti con Islamabad, operazione cruciale per riaprire le vitali vie di rifornimento alle truppe in Afghanistan.

(Nella foto qui sotto: il segretario di Stato americano John Kerry sbadiglia durante un vertice al Consiglio di sicurezza dell’Onu a New York, il 18 dicembre 2015. Credit: Eduardo Munoz) 

Sulle guerre americane, Kerry ha posizioni discordanti. Vota a favore dell’attacco all’Iraq nel 2003 ma si converte in fretta, fino a dichiarare: “Invadere l’Iraq in risposta all’11 settembre sarebbe come se Franklin Delano Roosevelt avesse attaccato il Messico in risposta a Pearl Harbor”. Nella guerra in Libia, invece, è uno dei primi promotori della no-fly zone.

Quando nel 2009 diventa presidente della commissione Esteri, Kerry si fa fido esecutore della linea dettata dalla Casa Bianca di Obama, per esempio agevolando la ratifica in Senato del trattato per la riduzione degli armamenti nucleari firmato con la Russia. Durante la campagna elettorale di quest’anno, Kerry fa da gregario a Obama per la politica estera. Alla convention democratica, prova a zittire i Repubblicani e uno dei loro temi portanti: “Chiedete a Bin Laden se sta peggio oggi rispetto a quattro anni fa”. E nella preparazione dell’ultimo dibattito presidenziale impersona addirittura Romney.

La nomina al Dipartimento di Stato ripaga questa lealtà. Eppure non è solo frutto della riconoscenza di Obama. Il destino di Kerry è infatti quello di essere una seconda scelta, sia pur di lusso. Nel 2008 alla guida della diplomazia americana viene sorpassato per motivi politici da Hillary Clinton. Oggi la prescelta sarebbe dovuta essere un’altra donna, Susan Rice. Obama preferiva l’ambasciatrice all’Onu perché sua sostenitrice della prima ora, meno esperta di Kerry e per questo più malleabile.

Rice ha però ritirato la sua candidatura. Dopo le sue fuorvianti dichiarazioni in seguito all’attentato di Bengasi, è diventata sgradita ai Repubblicani. Gli stessi a cui Obama vuole strappare entro fine anno un accordo sulla riduzione del deficit. Inutile spendere capitale politico sulla nomina del segretario di Stato: meglio calare l’asso del rispettato Kerry.

Obama intende accentrare la politica estera, lasciando al segretario di Stato il compito di semplice messaggero. Un processo già in atto ma che Clinton, con la sua imponente figura pubblica e una visione del mondo più conservatrice, ha rallentato. Lo stile dimesso, da esecutore, di Kerry può far comodo a Obama ma l’ex senatore non è tipo da rinunciare alla propria indipendenza. Come quando nel 2009 si è speso per stringere rapporti tra gli Stati Uniti e la Siria di Bashar al-Assad, attirando diverse critiche, e spingendo il Washington Post a etichettarlo “ammiratore” del dittatore siriano.

Il ricco bostoniano, il veterano di guerra convertito alla protesta, il navigato senatore indossa la sua ultima maschera. “L’intera vita di John lo ha preparato a questo ruolo”, ha detto Obama, “rendendolo una scelta perfetta”. Ma se era davvero nato per fare il segretario di Stato, perché farlo aspettare tanto?

* A cura di Giovanni Collot e Federico Petroni 

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