Chi è davvero Macron e cosa vuole fare per cambiare la Francia
Il banchiere che ha vinto le elezioni non è “l'uomo nuovo”, ma un portatore sano delle idee con cui è stata gestita l’Europa finora. Il commento di Fulvio Scaglione
Come non capirli i molti che, pur di fermare Marine Le Pen, si sono entusiasmati per Emmanuel Macron, nel frattempo diventato presidente (a 39 anni il più giovane nella storia della Francia repubblicana) con più del 65 per cento dei voti? Come si poteva credere al leader del Front National che vorrebbe uscire dall’euro senza dire come, tassare le importazioni senza spiegare come reagire ai dazi altrui, chiudere frontiere che sono semi-chiuse da un pezzo, controllare le tariffe di settori industriali strategici in una società liberista e, come in un sussulto di socialismo reale, accentrare nelle mani dello Stato centrale tutti i trasporti pubblici?
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Eppure, come non sentire in quei molti anche l’eccesso di entusiasmo e di risate che rivela un intimo disagio? Come non provare imbarazzo quando l’amico benintenzionato vuole convincerti del fatto che Macron è il “nuovo”, un “riformista”, un “europeista”, perché no un “progressista”? Come non deglutire un antiacido quando ti spiegano che roba “moderna” e “avanti”, ed emblematica del nuovo corso, sia che il nuovo presidente abbia una moglie di 24 anni meno giovane di lui, un figlio suo coetaneo e un altro figlio di due anni più vecchio di lui. Soprattutto quando chi te lo dice è il tipo che avrebbe un infarto se avesse un figlio quindicenne (per non parlare di una figlia) innamorato perso della professoressa trentanovenne.
“Illusione, dolce chimera sei tu”, cantava un bel po’ di decenni fa Achille Togliani su testi di Aurelio Fierro. Piuttosto di Trump volevamo che Hillary Clinton fosse chissà che. Piuttosto di Putin che la Russia pulluli di democratici. Piuttosto dell’Erdogan di oggi che l’Erdogan di ieri non aiutasse l’Isis a massacrare i civili. E adesso la storia si ripete: piuttosto che la Le Pen…
Come se Macron non avesse una storia e non avesse onestamente presentato un programma. Il presidente prodigio non è un uomo nuovo, tutt’altro. C’è chi lo ha paragonato a Matteo Renzi ma questi, al confronto di quello, è una specie di rivoluzionario, un piccolo Lenin che ha sciacquato i panni in Arno e si è fatto strada combattendo. Macron è l’enfant gaté dei circoli di potere della Francia socialisteggiante che, dopo il disastro di Hollande, ha con astuzia travasato il vino vecchio in una botte giovane. Uscito dalla prestigiosa Ecole Nationale d’Administration (Ena), Macron entrò al ministero della Finanze, ramo ispezioni fiscali. Poi nel 2008, cominciò a fare il banchiere d’affari con i Rotschild, diventando rapidamente milionario. Per poi tornare, diciamo così, nel settore pubblico, come consigliere politico e segretario generale aggiunto della presidenza con Hollande presidente.
Ora, diventare presidente a 39 anni è un record. Ma anche avere quelle cariche appena svoltati i 30 non era male. Tanto più che Hollande, quand’era in vena di scherzi, diceva di sé: “Sono quello che lavora con Macron”. Il nostro “uomo nuovo” fa il salto finale nel 2014 allorché diventa ministro dell’Industria e delle Finanze nel governo Valls, di cui ovviamente sposa tutte le scelte: dal commercio d’armi con le petromonarchie del Golfo Persico alla cosiddetta Loi Travail, approvata bypassando la discussione in parlamento.
Legge portatrice di innovazioni di questo genere: possibilità di per i datori di lavoro di imporre per cinque anni un aumento dell’orario o una diminuzione del salario tramite un mero accordo aziendale; possibilità di ridurre, tramite accordo aziendale, la retribuzione degli straordinari anche quando un accordo di settore preveda una remunerazione più alta; possibilità (solito accordo aziendale) di portare la settimana lavorativa a 46 ore e l’orario giornaliero a 11. E poi, ovviamente, i “licenziamenti economici”, giustificati non più solo quando l’azienda è in crisi o in dissesto ma anche quando l’azienda li ritenga necessari per “mantenere la competitività sul mercato”.
Ecco. Questo è il curriculum del nuovo presidente di Francia, che ha folgorato la sinistra riformista europea. Lui, peraltro, è coerente. Nel programma con cui ha vinto l’elezione annuncia 120mila licenziamenti nel settore pubblico e meno tasse per le imprese. Si batte per l’Europa (come tutti i banchieri) e questo, in epoca di Brexit, basta a scatenare applausi. Pare di cattivo gusto far notare che le sue proposte non hanno futuro. Ministero europeo delle Finanze e superministro Ue? Bello, ma la Germania e i paesi virtuosi del Nord non lo faranno mai passare. Esercito europeo e comando unificato? Grande, ma i paesi dell’Est non ci staranno mai. Commesse europee e pubbliche solo alle aziende che hanno il 50 per cento più uno delle loro attività in territorio Ue? Ottimo, ma chi lo farà se i cinesi o gli indiani proporranno prezzi più competitivi?
Politica estera? Nessuno l’ha sentito dire una sola parola su un ipotetico, futuro stato per i palestinesi. Mai, in tutta la campagna elettorale. In compenso ha parlato di intervento armato in Siria. Gli immigrati? Sono una risorsa, dice Macron. Che nello stesso tempo chiede di rafforzare Frontex perché ne blocchi il maggior numero possibile alle frontiere. Terrorismo? Più poliziotti, più quattrini alle agenzie di intelligence e reintroduzione della figura del poliziotto di quartiere. Nel caso, affidare alcuni compiti a contractor privati. Mai il minimo cenno, però, a una revisione dei rapporti incestuosi della Francia con paesi come Qatar e Arabia Saudita, primi finanziatori dei movimenti radicali sunniti in tutto il Medio Oriente.
Per farla breve: Macron è un portatore sano delle idee con cui è stata gestita l’Europa nell’ultimo decennio e che con il loro impatto hanno fatto crescere di colpo la presa dei partiti e dei movimenti che quelli come Macron definiscono populisti.
Può anche darsi che non sia così, che il cane non si morda la coda, che Macron sia l’eletto e da domani, quando l’Eliseo diventerà la sua casa, mostri un volto finora sconosciuto. Però tra un mese in Francia si vota per il Parlamento e i francesi avranno un’offerta politica più varia e sfumata, non più limitata al duello tra il Bello e la Bestia. C’è modo (e diversi sondaggi, vista anche l’eclisse del Partito socialista, già ne discutono) che Macron si trovi a fare il presidente con un Parlamento a maggioranza di centro-destra. Nel qual caso gli toccherà quasi sicuramente dare l’incarico di primo ministro a Francois Baroin, che nel 2011-2012 fu ministro dell’Industria e delle Finanze (come più tardi Macron, appunto) nel Governo Fillon, e prima ancora ministro dell’Interno e ministro per i Territori d’Oltremare.
Figlio di un Gran Maestro della Massoneria e già consigliere politico di Sarkozy, Baroin entrò al ministero della Finanze come promettente successore di una donna di successo, Christine Lagarde, che da lì andò a dirigere il Fondo Monetario Internazionale. Quella stessa Lagarde che, secondo le prime voci, Macron vorrebbe ora come primo ministro. Il riformismo avanza.
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