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Cervelli in fuga

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Sono la classe dirigente del futuro. Lasciano la Cina per studiare in America. E ora mettono in discussione persino il Partito

Biwei Cui, 22 anni, ha un sogno: tornare in Cina per lavorare nella più grande azienda pubblica del paese, la Sinopec, il gigante petrolifero di Stato.

Cammina con passo veloce e sguardo basso. Non dà quasi mai confidenza e parla poco con i suoi connazionali. È timida. Il sole che riflette sul suo viso la costringe a socchiudere gli occhi più di quanto già non lo siano, rendendone quasi indistinguibile il colore.

Non le piace quando si parla di lei. Ma se si tratta di Cina, comincia e non si ferma più. Ogni quarto d’ora circa guarda l’orologio; di tanto in tanto sorride.

Biwei è nata e cresciuta a Shijiazhuang, la capitale dell’Hebei (una provincia nel nord della Repubblica Popolare cinese), e ha studiato all’università Normale di Pechino. Nel settembre scorso ha scelto di lasciare casa, destinazione New York, per un master alla Columbia University in pubblica amministrazione.

Solamente studiando qui – racconta – può ottenere la competenza necessaria per accedere a uno dei pochi posti pubblici di altissimo livello in Cina. Competenza che tra gli studenti cinesi è però sempre più comune.

“Studiare all’estero ormai è un must. Se dieci anni fa fossi tornata da Columbia con un master in mano, probabilmente sarei stata una star. Oggi sono una come tutte le altre.” E in ogni caso – continua Biwei – “sarà ugualmente difficile trovare un lavoro soddisfacente: perché se non hai le giuste conoscenze, soprattutto a Pechino e Shanghai, non vai da nessuna parte”.

Le parole di Biwei suonano tremendamente familiari. Non solo dall’Italia, ma anche dalla Cina, la fuga dei cervelli cresce di anno in anno. L’America viene prima di tutto (seguita dal Regno Unito, Canada, Singapore, Australia e Nuova Zelanda), anche se la piccola diaspora cinese si è praticamente impossessata di ogni angolo del pianeta: la volontà di studiare fuori va oltre qualsiasi barriera linguistica.

I numeri ufficiali del ministero dell’Istruzione cinese parlano di oltre 194mila studenti iscritti nei college statunitensi nell’anno accademico 2011-12 (più 23% rispetto allo scorso anno e 207% in più rispetto a dieci anni fa).

La Cina è il primo paese esportatore di studenti al mondo (solo negli Usa il 25.4% di quelli internazionali sono cinesi). Secondo gli autori del report Open Doors 2012, redatto dall’Institute of International Education, le matricole sono aumentati dell’828% tra il 2004 e il 2012: da 8.000 a 74.516. Quelli che di più si avventurano all’estero abitano le regioni della costiera, che hanno beneficiato maggiormente dal boom economico.

Milioni di renminbi invadono l’America ogni anno. Secondo stime approssimative ma ufficiali, gli studenti cinesi da soli rimpinguano le casse del Tesoro Usa con circa 3,5 miliardi di euro l’anno. Tre stati (California, New York e Texas) ospitano il 32% degli studenti internazionali presenti in America. South California, NYU e Cornell sono le tre università predilette. Al solo dipartimento di statistica della Columbia University ben 8 studenti su 10 sono cinesi.

La maggior parte studia gestione aziendale (28.7%), seguito da ingegneria (1 su 5), matematica (1 su 10) e scienze sociali. Pochi optano per le materie umanistiche. Come invece ha fatto Xiaoshi, 24 anni, nata e cresciuta a Guangzhou, nel Guangdong, la provincia di Sun Yat Sen, padre-fondatore della nazione.

Xiaoshi vive in America da 5 anni ormai. Si è laureata in storia dell’arte alla Denison University di Granville, in Ohio, e ora è approdata a New York per un master in management dell’arte. Fino a qualche anno fa ai genitori non aveva ancora detto cosa studiava: aveva paura che l’avrebbero fatta tornare in Cina.

Ora ha un suo studio dove lavora ed espone i suoi dipinti a chi le fa visita. “Tutto questo da dove vengo io sarebbe semplicemente impensabile. Qui ho trovato la mia dimensione. Il motivo principale per cui ho deciso di lasciare casa è lo studio”, conclude.

I numeri le danno ragione. Un recente sondaggio in Cina ha rivelato che il 76.7% degli studenti ritiene che la qualità dell’educazione all’estero sia più alta che in Cina”.

Mei, 21 anni, vive e studia a Pechino, ma sogna di andare a studiare in California. L’America rappresenta più di un diploma prestigioso. “Studiare all’estero ti rende più indipendente: in Cina i genitori controllano gran parte della tua vita. In occidente è diverso. Io ho 21 anni ma i miei credono che sia ancora una bambina.”

Studiare negli Stati Uniti è diventato uno status symbol: il coronamento di un sogno. I genitori fanno di tutto per spedire i propri ragazzi nelle migliori università dell’Ivy League e gli studenti che falsificano i test d’ingresso non sono l’eccezione in Cina. L’ondata di ricchezza che ha assalito la classe media cinese, così come i risparmi accumulati in anni di lavoro, hanno dato un’opportunità a molti (la percentuale di risparmio sul Pil è oggi pari al 52% circa).

Su quasi 200mila studenti cinesi in America, solo i più bravi (18mila) sono finanziati dal governo tramite il China Scholarship Council, a condizione che tornino a casa subito dopo gli studi. Gli altri 180mila – il 60% circa – si autofinanziano. Il conto universitario finale per ogni studente in America può arrivare fino a 150mila euro in 4 anni. Secondo la Banca Mondiale, nel 2012 il reddito nazionale lordo per abitante in Cina era pari a 4.245 euro. Nel 2011, una media di 3 studenti su 4 proveniva da famiglie con entrate minori a circa 35mila euro l’anno.

3 motivi per non studiare in Cina

Gaokao kaoshi – Il concorso pubblico per accedere all’università è fra gli elementi che più determinano la fuga dei cervelli dalla Cina. “È troppo duro e frustrante”, racconta Biwei. “Studi tutta la vita cose che scordi poco dopo. Inoltre, l’esame non prende in considerazione l’aspetto umano e creativo di uno studente”. Se nel 2008 circa 10.5 milioni di studenti si sono sottoposti all’esame di Stato, nel 2012 la cifra è scesa fino a 9.15 milioni.

Guanxi – In Cina il sistema clientelare è il cuore pulsante della società. Una fitta e complessa ragnatela di rapporti personali che esclude a priori qualsivoglia forma di meritocrazia e porta con sé i peggiori effetti del socialismo. Vieni assunto per chi sei e soprattutto per chi conosci, non per quello che fai. Anche per questo gli studenti scappano.

Precariato & One Child Policy – Se il mercato del lavoro in Cina è saturo, soprattutto per i giovani, con circa 7 milioni di laureandi solo nel 2013, la politica del figlio unico è un altro elemento che spinge alcuni degli studenti all’estero: in occidente la generazione cinese del futuro può avere quanti figli vuole.

A volte ritornano

Eppure, i talenti cinesi non sono del tutto sprecati perché prima o poi fanno effettivamente ritorno in madrepatria. Sono gli haigui: così si chiamano quelli che tornano. A conti fatti, 190mila studenti circa sono tornati in Cina nel 2011 dopo essersi laureati o aver lavorato, un incremento del 169% dal 2008 (quando tornarono 69mila studenti). Su 820mila studenti all’estero tra il 1978 e il 2011, il 72% ha fatto ritorno a casa, in parte anche grazie a una serie di incentivi che il governo ha varato di recente.

Ma tornare a casa non equivale sempre a miglior vita in ambito professionale. Nonostante molti si aspettino che lo studio all’estero garantisca un buon lavoro, tra i 100 cinesi più ricchi nati dopo il 1980, solo 6 hanno studiato fuori. I motivi per cui molti fuggono (corruzione, nepotismo e precariato) coincidono con i problemi di reinserimento all’interno della società. Paradossalmente, più sei preparato in un settore specifico, meno opportunità avrai di trovare un lavoro ben pagato, a causa della alta competitività e delle minori opportunità per quel particolare impiego.

La causa principale per cui molti sembrano tornare, piuttosto, è il richiamo della famiglia. Un aspetto particolarmente indicativo della Cina di oggi: così presa dal boom economico e al contempo saldamente legata alle proprie tradizioni.

La fuga degli studenti cinesi all’estero si sta dimostrando una forza critica per il paese, favorendo un dibattito politico che per la prima volta anche in Cina sta mettendo in discussione la tenuta del Partito Comunista.

La diaspora cinese richiama alla memoria la rivoluzione patriottica voluta dai nazionalisti agli inizi del ‘900, entrambe volte a un rinnovamento e ambedue ispirate dall’occidente.

Il segnale rivolto dai giovani cinesi al Partito Comunista è implicito ma fortissimo: fuggire dall’élite che li rappresenta equivale a scacciare una dinastia in crisi. Proprio come un secolo fa con i Qing. Del resto, sono loro la classe dirigente del futuro.

Hanno collaborato Stefania Palma da Pechino, Nello del Gatto da Shanghai e Maria Dolores Cabras da Firenze.

*Una copia dell’articolo di Giulio Gambino “Cervelli in fuga” è pubblicata su l’Espresso 4 -10 ottobre 2013
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