Referendum e democrazia non sono sinonimi, e la Catalogna lo dimostra
Il commento di Luca Serafini, che spiega perché i limiti che le Costituzioni pongono alla democrazia diretta sono filosoficamente e giuridicamente fondati
Uno degli argomenti più utilizzati dai sostenitori del referendum catalano, è quello secondo cui impedire un voto popolare sulla secessione di un territorio equivarrebbe ad un’intollerabile soppressione delle libertà democratiche.
“Referendum è democrazia” è lo slogan che, più di ogni altro, ha investito la consultazione catalana di valori apparentemente universali, legati all’autodeterminazione dei popoli e, in qualche modo, alla loro sovranità incondizionata intesa come essenza stessa della forma di governo democratica.
Le mosse da Stato di polizia dell’esecutivo guidato da Rajoy, come è noto, non hanno fatto che dare fiato a questo tipo di retorica.
Da un punto di vista legale, è ormai chiaro che non esiste alcuna base concreta per le rivendicazioni degli indipendentisti. La convocazione del referendum ha rappresentato una palese violazione della Costituzione spagnola, mentre per quanto riguarda il diritto internazionale, le norme che disciplinano l’autodeterminazione dei popoli prevedono un diritto alla secessione solo nel caso in cui vi sia oppressione, sfruttamento o colonizzazione.
Ma, appunto, la noncuranza con cui la Generalitat della Catalogna ha fatto scempio delle leggi fondative dello Stato di diritto è stata giustificata proprio con un argomento di natura extra-giuridica: vietare un referendum di questo tipo può essere formalmente legale, ma il diritto di un popolo a decidere dei propri confini e della propria indipendenza è talmente sacro da andare oltre la legge, proprio perché incarna il concetto stesso di democrazia.
Ma è davvero così? Come si sa, le Costituzioni di tutti i Paesi prevedono precisi limiti alle materie oggetto di referendum. In Italia, ad esempio, l’articolo 75 della Costituzione stabilisce che “non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”.
Da un punto di vista di teoria democratica, il fatto che l’architettura costituzionale limiti la sovranità diretta ed incondizionata del popolo è giustificato dalla considerazione che sarebbe proprio un potere popolare privo di restrizioni a distorcere gravemente il corretto funzionamento di una democrazia. La barriera giuridica, in altre parole, trova una sua legittimazione in determinati principi filosofici e morali che appaiono probabilmente ancor più validi nell’epoca della società in rete.
Già durante la stesura della Costituzione americana, a fine ‘700, si scontrarono due differenti visioni della democrazia. Secondo James Madison e lo schieramento federalista, le istituzioni rappresentative dovevano necessariamente agire come un filtro, in grado di “raffinare” l’opinione pubblica attraverso il processo deliberativo, quello cioè in cui il voto è l’esito finale di un’attenta e prolungata discussione sulle posizioni in campo.
Per gli anti-federalisti, al contrario, la rappresentanza doveva agire non come un filtro, bensì come uno specchio della volontà popolare. Non c’era bisogno, in altre parole, di alcun processo di raffinamento delle opinioni delle masse, perché il popolo era considerato come unico reale depositario della sovranità. In quest’ottica, il ricorso al referendum era considerato un passaggio ineludibile per decisioni politiche importanti.
Emblematico delle due diverse visioni della democrazia fu lo scontro sul referendum tenutosi in Rhode Island per la ratifica della Costituzione. Per la prima volta era il popolo a doversi esprimere sulla legge fondativa del nuovo Stato americano, e i federalisti tentarono di boicottare la consultazione sostenendo che gli istinti e le emozioni dell’opinione pubblica del Rhode Island avrebbero certamente prodotto risultati pericolosi. La Costituzione, difatti, fu bocciata dagli elettori, per poi essere successivamente approvata dopo un faticoso negoziato politico.
I federalisti, in sostanza, ritenevano che solo il processo deliberativo potesse dare un fondamento razionale e non “emozionale” alla decisione politica, e che la deliberazione potesse avvenire solo all’interno delle istituzioni. Con una corretta e minuziosa analisi dei pro e dei contro di ciascun provvedimento, secondo questa visione, il filtro rappresentativo avrebbe reso l’opinione pubblica il più possibile “spassionata”, avrebbe sublimato cioè gli istinti del popolo nella valutazione razionale sul merito operata dai rappresentanti.
I limiti costituzionali alle materie oggetto di referendum, rispecchiano quindi dal punto di vista giuridico il convincimento che, almeno su alcuni temi particolarmente delicati, la democrazia diretta sia inefficace, e che non si possa prescindere da un modello di democrazia deliberativa.
L’idea di fondo è che l’elettorato, impossibilitato a raggiungere livelli di informazione sufficienti su qualsiasi argomento, e quindi incapace di soppesare in maniera razionale vantaggi e svantaggi di certe scelte politiche, possa far prevalere la sua parte irrazionale ed istintiva, magari per effetto di manipolazioni esterne.
Nell’epoca del web e della proliferazione di fake news, il problema è quanto mai attuale. È sufficiente pensare a molte delle bufale circolate durante il referendum sulla Brexit, come quella sui 350 milioni di sterline a settimana che sarebbero dovuti andare al sistema sanitario britannico dopo l’uscita dalla Ue.
Un articolo del Pais, uscito pochi giorni prima del voto, ha cercato di smontare alcune falsità messe in circolazione dagli indipendentisti catalani, in particolare quelle sui presunti vantaggi economici derivanti dalla secessione. Il problema, tuttavia, è che proprio su questioni caricate di una fortissima componente emozionale, come un voto sull’indipendenza di un territorio, l’operazione di debunking risulta quanto mai complessa.
I sociologi parlano del “pregiudizio di conferma”, ovvero della tendenza a prendere per buone solo le informazioni che confermano le nostre opinioni iniziali. Quando c’è in ballo l’identità culturale di un popolo, quando cioè agiscono delle emozioni del tutto agli antipodi rispetto alla razionalità del processo deliberativo, ecco che si rafforza la tendenza ad applicare delle scorciatoie cognitive, a “ragionare con l’istinto” e a credere solo a ciò che fa comodo.
Anche per questo può avere senso, in alcuni casi, limitare l’esercizio del referendum su questioni che vanno a toccare la sfera pre-razionale, identitaria, tribale, in cui si può diventare totalmente refrattari ad argomentazioni razionali e di opportunità politica. Può avere senso, cioè, applicare quel filtro rappresentativo di cui parlavano Madison e i federalisti americani.
Martin Caparrós, sul New York Times, ha parlato di un “trucco della patria” utilizzato dai partiti indipendentisti catalani, suggerendo cioè che la questione identitaria abbia funzionato anche come stratagemma per coprire motivazioni di mero egoismo economico.
Ciò che va evidenziato, inoltre, è che il referendum catalano non ha scavalcato soltanto quello che possiamo definire il “filtro esterno”, ovvero la delega di una decisione politica così delicata ai rappresentanti, ma anche il “filtro interno”.
La presenza di un quorum nei referendum, ad esempio, ha infatti anche la funzione di filtro, perché se non altro testimonia della motivazione diffusa ad interessarsi della questione (il che, va detto, non coincide necessariamente con una corretta informazione sul tema oggetto del voto). Nel caso del referendum catalano, al contrario, non era previsto nessun tipo di quorum.
Lo stesso discorso si potrebbe fare per la raccolta di firme necessaria ad indire una consultazione popolare. Per quanto possa sembrare un mero passaggio formale in una situazione come questa (non c’è dubbio infatti che le firme per il referendum sull’indipendenza sarebbero state raccolte), in realtà rappresenta comunque un passaggio intermedio che esprime una motivazione a partecipare più forte, e quindi potenzialmente una maggiore disponibilità ad informarsi.
Sono tutti elementi, insomma, che intaccano almeno parzialmente il carattere “immediato” (nel senso di privo di mediazioni) e potenzialmente plebiscitario di una consultazione di questo tipo.
Diversi esperimenti condotti nel corso degli ultimi 20 anni sulla democrazia deliberativa, hanno dimostrato come le opinioni delle persone possano cambiare in maniera drastica se quelle stesse persone vengono correttamente informate sul merito delle questioni (e se, ovviamente, sono disponibili ad ascoltare argomentazioni contrastanti).
James Fishkin, uno dei principali studiosi della democrazia deliberativa, ha scritto che questi esperimenti mostrano ciò che le persone penserebbero se messe nelle migliori condizioni possibili per poter riflettere in profondità su una determinata problematica.
Nel 2006, il Pasok organizzò delle primarie sui generis per selezionare, all’interno del partito, il proprio candidato sindaco per le elezioni comunali ad Atene. Vennero convocati 160 cittadini, i quali passarono un’intera giornata ad ascoltare le argomentazioni dei candidati sui loro programmi, con l’ausilio di moderatori e di materiale informativo scritto sulle singole proposte.
Al termine del processo, sorprendentemente, il candidato che ottenne maggiore consenso fu quello che, nelle risposte ai questionari forniti all’inizio della giornata, risultava essere il meno conosciuto dai partecipanti.
Nello stesso anno, la Regione Lazio organizzò il primo esperimento di democrazia deliberativa tra i cittadini in Italia, con 119 persone coinvolte. La Regione a quel tempo aveva una spesa sanitaria considerata eccessiva, sproporzionata rispetto ad altre amministrazioni, e aveva ipotizzato di tagliare il numero di posti letto negli ospedali investendo quelle risorse nel rafforzamento dei poliambulatori.
Un provvedimento, come si intuisce, all’apparenza fortemente impopolare, e sottoposto per questo al vaglio di una discussione pubblica informata. Anche qui, a sorpresa, al termine della giornata, e dopo la somministrazione di argomenti pro e contro la misura, i favorevoli al provvedimento sfioravano il 70%, mentre nel questionario informativo compilato la mattina (prima di essere sottoposti ad informazioni accurate sulla questione), solo il 40% dei partecipanti si dimostrava disponibile a tagliare posti letto negli ospedali.
C’era stato cioè un cambiamento sostanziale nelle opinioni dei cittadini dopo che gli stessi avevano iniziato a riflettere sul merito del problema, andando oltre i giudizi dettati dall’istinto e dall’emotività.
Come è evidente, applicare un modello deliberativo all’intera popolazione è pressoché utopico, sebbene Fishkin, da anni, proponga l’applicazione di un “deliberation day”, una giornata di dibattiti organizzati su base locale poco prima di una consultazione importante, nell’ottica di favorire un voto consapevole e informato.
Più realisticamente, dovendoci accontentare dei referendum nella loro forma attuale come manifestazione più compiuta della sovranità popolare, è comunque opportuno considerare che i limiti costituzionali al loro svolgimento non rappresentano una soppressione delle libertà democratiche, bensì esprimono la necessità di regolamentare la partecipazione popolare in modalità che permettano alla democrazia stessa di funzionare.
Violare lo stato di diritto in nome di una concezione più autentica di democrazia di cui ci si ritiene depositari, è quindi prima ancora che un atto sovversivo una grossolana e ingenua sconfessione di principi che hanno una precisa e valida ragion d’essere.