Ho passato una giornata nel quartier generale dei Caschi Bianchi siriani a Istanbul
Giovanna Loccatelli ha visitato la sede dove vengono addestrati i volontari che rischiano la vita per salvare i civili sotterrati dalle macerie dei bombardamenti
Sono una quindicina. Il quartiere generale si trova nel quartiere di Karakoy, zona centrale di Istanbul nella parte europea della città. In un ufficio di sessanta metri quadri circa lavorano i Caschi Bianchi, conosciuti in tutto il mondo come White Helmets.
Sono i volontari siriani che salvano i civili da sotto le macerie dei bombardamenti e dalla violenza della guerra in Siria, sono i membri della cosiddetta Difesa Civile Siriana (Syria Civil Defence).
Si chiamano così per via del casco bianco che indossano durante le operazioni di soccorso, diventato col tempo il loro simbolo. Collaborano e condividono l’ufficio con i membri della Mayday Rescue, un’organizzazione non governativa che aiuta le comunità locali nelle zone di conflitto.
A Istanbul sono molte le persone che, in varie misure, contribuiscono a far funzionare al meglio i soccorsi sul campo in Siria. Ola Suliman, ingegnere siriano, lavora per Mayday Rescue. Mi spiega cosa fanno: “Lavoriamo con i volontari siriani selezionati dalla Difesa Civile Siriana. Qui organizziamo corsi di formazione teorico-pratici”.
Poi entra nel dettaglio: “La Difesa Civile Siriana, fin dal 2013, invia i volontari in Turchia. Una volta qui, vengono addestrati dalla Ong turca Akut (Associazione per la ricerca e il salvataggio). I training si focalizzano principalmente su tre aspetti diversi: cercare tra le macerie, estrarre i corpi dopo il bombardamento e insegnare le tecniche di primo soccorso”.
Suliman ci tiene a sottolineare che nulla è lasciato al caso quando si devono salvare vite umane: “I Caschi Bianchi non sono improvvisatori. Prima di soccorrere le persone sul campo devono acquisire le giuste competenze”.
Spiega poi che ci sono diversi tipi di training: “Il primo, chiamato light training, di carattere introduttivo; poi l’addestramento di livello intermedio, il medium training; infine il Tot: training of trainers. Quest’ultimo è riservato unicamente a chi ha già svolto i due precedenti e vuole impartire questi corsi, così da poter creare dei centri d’addestramento in altri paesi”.
“In Siria, oggi, ci sono cinque centri di addestramento e 120 centri di coordinamento”, prosegue Suliman. “I 3mila Caschi Bianchi che operano oggi in Siria sono stati addestrati tra la Turchia, la Siria e la Giordania. Tutti i Caschi Bianchi, prima di lavorare sul campo, devono obbligatoriamente seguire e superare i corsi. Alla fine di ogni corso c’è una prova per verificare se tutte le competenze e conoscenze, sia teoriche che pratiche, sono state acquisite correttamente”.
Il training introduttivo dura solitamente una settimana o al massimo dieci giorni, e fornisce le competenze di base: come spegnere gli incendi, come cercare tra le macerie, come utilizzare gli strumenti per scavare e le tecniche fondamentali di primo soccorso. Quando arrivano dalla Siria, i volontari vengono sistemati in albergo e poi svolgono il corso a Ataşehir, quartiere nella parte asiatica di Istanbul, nei centri che appartengono all’Akut. L’età dei partecipanti varia dai 19 ai 30 anni.
“Una cosa che insegniamo sempre nel corso introduttivo”, spiega ancora Suliman, “è a fare attenzione alla diffusa strategia militare del ‘double tap’, che consiste nel bombardare lo stesso punto due volte, a distanza di pochi minuti, metodo utilizzato per attaccare anche i soccorritori che si recano immediatamente sul luogo per aiutare le vittime”.
Chi supera il cosiddetto light training torna in Siria a lavorare, e dopo un periodo più o meno lungo durante il quale accumula una preziosa esperienza sul campo può tornare in Turchia per accedere al corso intermedio.
“Al livello intermedio insegniamo come si utilizzano i macchinari più sofisticati: in questo stadio le conoscenze e tecniche si fanno più approfondite. Il corso dura due settimane: un periodo nel quale si svolgono, dalla mattina alla sera, addestramenti Usar, ossia attività urbane di ricerca e soccorso”, inizia a racconta Nour Saleh, coordinatore dei training a Istanbul.
Poi accende una sigaretta, si alza dalla sua postazione ed esce in strada a fumare: “Nel corso intermedio”, continua, “si insegna anche come utilizzare le maschere per respirare durante gli incendi e come gestire diverse tipologie di combustioni. Non solo: in queste due settimane istruiamo gli allievi sul metodo del ‘triage’, un termine tecnico che significa classificazione: una valutazione e selezione immediata per assegnare il grado di priorità alle cure da prestare durante il primo soccorso”.
Saleh spiega che vengono assegnati colori diversi in base allo stato di salute della persona estratta dalle macerie: “Giallo e verde per quelli con lievi contusioni e ferite, rosso per quelli gravi e nero per i cadaveri. Così da velocizzare e facilitare il lavoro di chi arriva con le ambulanze”. Il coordinatore ci tiene a essere molto dettagliato nella spiegazione delle metodologie.
Molti volontari, dopo aver partecipato al primo corso, si specializzano e lavorano in vari team: “Si concentrano su un campo particolare, ad esempio molte donne si specializzano nel settore medico e nell’area dell’infermieristica. Dipende molto anche dalle singole caratteristiche ed esperienze lavorative maturate da ciascun volontario prima di intraprendere questa missione”.
Poi c’è il Tot: “Dura un anno e serve per formare le persone che a loro volta potranno addestrare nuovi Caschi Bianchi. Questo corso è stato creato perché non tutti i volontari possono facilmente oltrepassare i confini siriani. Al di fuori della Siria, i centri di addestramento si trovano in Turchia e in Giordania”.
Saleh lavora quotidianamente con gli addestratori dell’Akut a Istanbul e con quelli giordani. “Il nostro è un lavoro anche di collaborazione e scambio di informazioni”.
I muri dell’ufficio di Karakoy sono tappezzati di foto e poster dei Caschi Bianchi. Suliman ci tiene a sottolineare che, anche se non vengono ritratte spesso, le donne dell’organizzazione hanno un ruolo fondamentale: “In Siria abbiamo più medici donne che uomini, e le donne dei Caschi Bianchi sono molto esperte in questo settore. In alcuni casi esse rappresentano l’unica speranza per molte ragazze intrappolate tra le macerie: nei settori più conservatori della società siriana capita che le donne rifiutino il soccorso degli uomini!”.
I Caschi Bianchi sono stati candidati per il premio Nobel per la pace, e a metà settembre Netflix ha fatto uscire un documentario di 40 minuti su di loro, realizzato grazie a decine di ore di filmati girati durante le operazioni di salvataggio sotto i raid aerei.
Il materiale video del documentario, dal titolo The White Helmets, è stato filmato, tra gli altri, da Khaleed Khateeb, anche lui impiegato nell’ufficio a Karakoy: “Sono un cameraman”, spiega Khateeb. “Ho lavorato molto ad Aleppo, dove ho ripreso diversi bombardamenti e i soccorsi effettuati dai miei colleghi. Eravamo in tre a girare sul campo il documentario poi distribuito da Netflix”.
“Ormai, solo i siriani possono svolgere questo lavoro dentro la Siria, per chiunque altro sarebbe troppo pericoloso”, dice ancora Khateeb.
Poi, con un’espressione sconsolata, conclude dicendo: “Se i siriani non aiutano i siriani, chi altri li può aiutare?”.
L’ufficio, già in tarda mattina, è un via vai di persone: c’è chi sta al computer, chi al telefono, chi parla con i colleghi. Tutti animati da un solo obiettivo: salvare i fratelli in Siria.
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