Se vogliamo capire Trump dobbiamo prima capire l’America, quella vera
Dopo un anno di presidenza, è chiaro che Trump rappresenta la mentalità e la popolazione di corrente Jacksoniana: una realtà che dobbiamo smettere di ignorare. L'opinione di Carlo Brenner
Ad un anno dall’elezione di Trump possiamo fare molti commenti, critiche, valutazioni sulle scelte messe in atto dalla sua amministrazione, ma non possiamo dare un giudizio d’insieme né indovinare quale direzione prenderà il futuro. Il 45esimo Presidente americano è sicuramente fuori dagli schemi, imprevedibile ed estemporaneo.
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Quest’imprevedibilità, però, dovrebbe farci riflettere: forse sono in pochi oggi ad averlo capito, ad avere la chiave per comprendere la sua logica.
Innanzitutto l’elezione di Donald Trump, nel bene o nel male, è un momento di rottura. La sua vittoria alle presidenziali del 2016 ed il suo modo di agire pongono numerose domande sul funzionamento dell’odierna democrazia.
Partiamo dal primo punto, la sua elezione: è singolare notare come Trump fosse generalmente presentato come un pazzo, la sua stessa candidatura alla presidenza era stata inizialmente presa in modo ironico. Il suo personaggio non è mai stato preso sul serio dai media fino alla fine. Eppure ha vinto le elezioni. Ancora oggi la stampa europea e, con alcune eccezioni, quella internazionale è prevalentemente critica sul suo operato.
Eppure lui continua ad avere consenso. Queste discrepanze tra quello che viene comunicato e quello che effettivamente avviene mette in evidenza l’esistenza di un ampio divario tra l’élite culturale e il popolo. Giornali e televisioni non rappresentano e non comunicano con il popolo. Masse di persone non sono rappresentate, non sono riconosciute, non sono riflesse, dai mezzi di comunicazione. Chi sono queste persone?
In un articolo di Foreign Affairs di gennaio Walter Russell Mead parla di queste persone e da una faccia all’elettore di Trump. È un articolo da leggere perché può servire a capire meglio il retroterra culturale del nuovo presidente, e aiutarci anche a dare un senso logico ad alcune delle sue scelte. Il populismo di Trump trae le sue origini dal pensiero del Presidente Andrew Jackson, 7º Presidente degli Stati Uniti d’America (dal 1829 al 1837).
Non voglio dire che lui sia, consapevolmente, ispirato a questa corrente ma che la mentalità e la popolazione che rappresenta è quella Jacksoniana.
Secondo questa visione il principale interesse americano è verso sé stesso, non esiste l’idea di una missione universale, come quella rappresentata da Woodrow Wilson, che ha provato a lasciare la sua impronta in Europa durante i trattati di Versailles. Per i Jacksoniani il governo si deve occupare del benessere dei cittadini americani, entro i confini americani. Garantire la loro libertà individuale.
L’America figlia di questa visione del mondo ha trovato in Trump la persona giusta per difenderli dalle minacce, interne ed esterne. Le minacce interne sono gli immigrati, le minacce esterne sono i terroristi. In ogni caso, per loro, le due categorie si mescolano con agilità. Un altro nemico interno per i Jacksoniani è l’establishment nel momento in cui questo sembra non usare il suo ruolo nell’interesse del popolo o per fini patriottici. L’accettazione, da parte delle élite di un numero, sempre maggiore, di libertà individuali lontane dall’ideale tradizionale americano ha allontanato questo elettorato, ancora di più, dai candidati considerati “politically correct”.
È proprio per difendersi dalle deviazioni delle élite che i Jacksoniani sono forti sostenitori del diritto di ciascun cittadino di portare le armi. Questo è, forse, uno degli aspetti che agli occhi degli europei, è reputato peggio. Eppure il diritto di armarsi è sancito dalla costituzione, nel secondo emendamento. In realtà questo diritto è molto rappresentativo dell’identità americana, perché trae origine dalla storia del paese. L’America è nata da una guerra d’indipendenza contro un oppressore. Se mai ci dovesse essere un altro oppressore i cittadini devono essere armati per riconquistarsi la loro libertà: questo è il diritto alla rivoluzione, inserito nella Dichiarazione di Indipendenza.
L’élite da combattere, l’establishment lontano dai valori della “vera America” è stato molto facilmente trovato in Hilary Clinton. Come scrivevo l’anno scorso, in occasione dell’elezione di Trump, Hilary Clinton rappresenta, con molta semplicità, l’oligarchia al potere: come si può pensare che in uno stato con più di 300 milioni di abitanti, con le migliori università al mondo, i migliori college, il meglio di tutto (a dir loro) prima vadano al potere padre e figlio – i Bush – e adesso marito e moglie? È una dinamica che stupirebbe anche in uno stato sottosviluppato.
Riprendendo il discorso iniziale, l’altro elemento di rottura rappresentato da Trump è, sicuramente, il suo modo di agire e di governare. Il presidente americano governa un paese via Twitter. Certo, non è solo lui a farlo, anche il nostro ex presidente del Consiglio ne faceva largo uso ma la portata il peso delle comunicazioni effettuate dal profilo Twitter di Donald Trump è molto più significativa di quella di Matteo Renzi.
Questa modalità di comunicazione immediata è un cambiamento radicale di interazione e di ruolo delle istituzioni. Il cambiamento messo in opera da Trump senza troppe esitazioni richiederebbe però una lunga e profonda riflessione sugli influssi che potrebbe avere sulla percezione dell’autorità da parte dei cittadini. Il suo modo di agire però non si limita a questo. Il Presidente americano ha fatto molte affermazioni estemporanee, non filtrate. Questo lo rende più umano, perché si capisce che molte cose che dice e fa non sono il frutto di un elaborata preparazione strategica ma sono le reazioni normali di un uomo, e alla lunga questo aspetto del suo carattere lo premierà. Ritorniamo quindi su alcuni dei suoi principali strappi di quest’anno: è uscito dagli accordi di Parigi, ha rimesso in discussione l’accordo commerciale, NAFTA, con Messico e Canada, ha messo in crisi il rapporto con il Messico per via del muro al confine, sta facendo saltare gli accordi sul nucleare con l’Iran e ha provato a ribaltare la riforma sanitaria voluta da Obama.
Che valutazioni possiamo ricavare da quest’anno di Amministrazione Trump (in realtà sono neanche 8 mesi perché il suo mandato è iniziato il 20 gennaio 2017)?
Sono felice di constatare che alcune delle mie previsioni dell’anno scorso si sono avverate. Innanzitutto L’Europa, in particolare dopo l’uscita degli Stati Uniti dagli accordi sul clima, si è resa conto di dover camminare da sola. Angela Merkel lo ha espresso chiaramente subito dopo il G7 e la Germania sta cercando il suo ruolo di leader in questo processo. Poi, avevo sostenuto che Trump sarebbe stato più gestibile della Clinton per via della sua inesperienza e dalla sua parvenza da pazzo. Questo non è stato vero riguardo agli accordi sul clima ma lo è stato su molte altre cose che, in campagna elettorale aveva promesso, ma poi non è stato in grado di portare a termine. Tra queste: aveva promesso di mettere fine all’intervento militare americano in Afghanistan e invece ha aumentato il numero dei soldati e ha allargato la missione. Perché? Perché da candidato doveva accattivarsi i suoi elettori Jacksoniani che volevano una maggiore attenzione alle tematiche domestiche ma quando è stato messo di fronte all’evidenza, da parte degli esperti militari, che un ritiro totale dall’Afghanistan sarebbe stato un disastro ha cambiato idea.
Insomma, credo che abbiamo ancora molto da imparare su Trump ma, se vogliamo capirlo a fondo nei prossimi anni di presidenza, dobbiamo capire prima l’America, quella vera.