La campionessa di basket afghana che gioca di nascosto per poter continuare a studiare
La storia di Maryam Meher, giocatrice di basket professionista e studentessa di legge islamica, che continua a giocare di nascosto per non essere espulsa dall'università
Che ci sia neve oppure caldo afoso, che la situazione sia tranquilla o che ci siano caos e panico, ogni lunedì e mercoledì Maryam percorre un’ora e mezza di strada con l’autobus blu per arrivare fino al cinema Pamir, nel centro di Kabul. Da lì prende un’altra linea e raggiunge la zona del Ghazi Stadium, dove si allena con la sua squadra di basket.
Lei è più alta della media delle sue amiche, quasi un metro e ottanta per 60 chilogrammi, ma non è per questo che al primo anno della scuola superiore il suo insegnante le chiese di provare a lanciare un pallone nel canestro del cortile. Fu una provocazione, quasi una sfida. Ma quando lei, con uno slancio inaspettato, piegandosi sulle gambe leggere, riuscì a far scivolare la palla nella rete, la guardò stupito e le chiese subito di giocare nella squadra del liceo Rabia Balkhi.
È iniziata così la carriera agonistica di Maryam Meher. “Da allora sono passati dodici anni – racconta – ma il mio amore per questo sport è rimasto immutato”. Oggi Maryam è una delle giocatrici di punta nella nazionale femminile afghana di basket, anche se la sua vita non è proprio come quella delle star sportive in altri paesi.
Se è vero che in Afghanistan le donne che praticano sport sono aumentate negli ultimi tempi, è altrettanto vero che per le atlete i problemi sono tantissimi. Devono lottare contro le famiglie, gli amici e in generale contro chi ancora crede che non dovrebbero fare nulla di tutto ciò che fanno.
“Quando ho finito il liceo, il mio allenatore mi ha presentato al coach della squadra nazionale che mi ha fatto fare dei provini. E così ho iniziato ad allenarmi con ragazze molto molto brave, dalle quali avevo solo da imparare. Quando ho iniziato a giocare in quella squadra, però, avevo cominciato da poco anche l’università”.
Maryam, infatti, studia diritto islamico alla facoltà di Kabul e sta per laurearsi, ma la sua identità di star del basket è nascosta. “Non appena i miei insegnanti seppero che mettevo una divisa colorata e correvo in una palestra davanti a spettatori uomini mi minacciarono. Mi ordinarono di lasciare la squadra e di non prendere mai più in mano un pallone, altrimenti mi avrebbero espulsa. Ma io non accettai il ricatto”.
E così annunciò al preside della facoltà di aver abbandonato lo sport, mentre in realtà continuò ad allenarsi, in segreto. “Il problema è stato quando abbiamo cominciato a vincere e siamo diventate un pochino famose – ha raccontato ancora Maryam – Lì ho temuto di essere scoperta, ma i miei amici mi hanno rassicurato e mi hanno aiutato a mantenere la copertura”.
Attorno a Maryam, maglia numero 13, si è, così, creata una sorta di rete di sicurezza in cui le foto vengono censurate, il suo nome viene omesso quando possibile, almeno quando le informazioni vengono veicolate su canali che i suoi professori possono intercettare. “Se mi scoprissero, mi manderebbero via anche adesso che sto per laurearmi” – spiega – eppure non mi preoccupo”.
Ad aiutarla nella sua vita d’atleta ci hanno pensato sempre i suoi genitori, che l’hanno difesa anche quando amici, parenti e conoscenti l’hanno criticata e accusata di disonorare il buon nome delle donne. Sciocchezze per la madre di Maryam, insegnante al liceo Omol Banen, che incoraggia anche tutte le sue studentesse. “Anche mio padre è un uomo di cultura – ha detto – e purtroppo, devo dire che questo, qui in Afghanistan, fa ancora la differenza”.
Non è andata così bene ad altre compagne di squadra, intimidite, spesso picchiate e obbligate a lasciare il basket. “Ho subito delle violenze incredibili – ha raccontato K. L., ventuno anni – e alla fine ho dovuto smettere di giocare. Mi hanno spezzato le dita della mano sinistra per essere sicuri che non avrei più preso in mano un pallone – ha ammesso – Non li perdonerò mai”.
Molte altre amiche sono sparite poco dopo l’inizio degli allenamenti. “All’inizio i miei parenti non hanno fatto storie – ha raccontanto Amila – ma quando hanno capito che non era solo un gioco e che dovevo giocare all’estero, mio padre si è infuriato e mi ha chiuso in casa per settimane”. Il coach Wasi, quarant’anni, sa benissimo qual è la situazione e non si meraviglia. Difende le ragazze quando è necessario, eppure, di tanto in tanto, le vittorie della squadra fanno dimenticare le reticenze.
Tuttavia, in Afghanistan il basket rimane comunque uno sport meno famoso rispetto al calcio e i successi del gruppo fanno meno notizia, anche all’estero. “Siamo state in Iran, in Tajikistan, in India e in America – ricorda Maryam – e lì è stato bellissimo, anche se abbiamo perso. Le ragazze erano troppo forti per noi, ma è stato interessante confrontarsi, per capire quali sono i nostri punti deboli”.
Allenamento, duro lavoro e grinta ci sono, mentre mancano altri mezzi. La nazionale di basket afghana, per esempio, fatica a trovare sponsor e spesso anche avversarie con cui giocare. Il comitato olimpico, che gestisce la squadra, si sta impegnando a portare avanti dei progetti, lottando contro tutte le difficoltà di un paese in cui i talebani hanno ripreso lentamente piede, “ma non è facile”, hanno detto.
La maggior parte delle ragazze della squadra, comunque, non è mai stata minacciata apertamente dal gruppo terroristico, anche se molte sono state criticate perché non giocano con l’hijab. Hanno gambe e braccia coperte, questo sì, ma i capelli no, li lasciano legati con l’elastico a mostrarsi sudati e ribelli.
“Mettiamo il velo solo se dobbiamo fare delle interviste ufficiali in tv, oppure se andiamo in paesi islamici, come in Iran – ha spiegato Maryam che, come un’adolescente, tiene nascosti i volti dei suoi veri miti, Michel Jordan e Kobe Bryant.