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Home » Esteri

La direttrice del Checkpoint Charlie a TPI: “Attenti giovani, la libertà può sparire in fretta”

Immagine di copertina
Alexandra Hildebrandt

Alexandra Hildebrandt ha 60 anni e il volto attraversato da rughe gentili ma decise. “Mi ricordano ogni giorno della mia storia” dice arrossendo e portando le mani vicine al viso.

Dopo una vita intera passata in difesa della libertà individuale e dei diritti umani contro due diversi regimi totalitari, oggi è la direttrice del museo di Checkpoint Charlie, tra i più visitati di Berlino.

“Quello che faccio ogni giorno è una dedica d’amore eterno a mio marito Rainer, che tanto ha dato a questo Paese ma che ora non c’è più” dice con gli occhi lucidi e la voce soffocata.

Rainer Hildebrandt è morto nel 2004. Per buona parte della sua vita ha fatto parte della resistenza contro il regime nazista prima e quello socialista della Germania dell’Est poi.

Nel 1962 ha fondato il museo che oggi dirige la vedova Alexandra. A partire dal 1963 il museo si è stabilito a 80 metri dalla Cortina di Ferro, quello che fino al 1989 è stato con tutta probabilità il confine più famoso al mondo.

Oggi Alexandra è una stimata artista e attivista, nonché madre del “premio per i diritti umani Rainer Hildebrandt”, cui hanno preso parte come giurati personalità di spicco tra cui Henry Kissinger e Yoko Ono.

TPI l’ha incontrata per discutere di libertà e democrazia a trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, avvenuta il 9 novembre del 1989.

Alexandra, dove nasce la sua dedizione per i diritti umani e la libertà?

Io sono nata a Kiev, che all’epoca era in URSS. Sono cresciuta come una bambina sovietica, con la propaganda, i lavaggi di cervello e l’ideologia presente dappertutto. Però l’Ucraina non ha mai avuto un gran rapporto con Mosca e questa cosa si percepiva molto in casa mia.

I miei nonni e i miei zii vissero la carestia provocata ad arte da Stalin in cui morirono più di 3 milioni di ucraini, e la mia famiglia era fatta da contestatori. Uno dei miei zii finì anche in un gulag in Siberia.

Credo quindi che la mia famiglia abbia avuto un ruolo importante nel farmi capire l’importanza di essere liberi, nonostante il contesto in cui ci trovavamo. E poi ci fu ovviamente il ruolo di mio marito Rainer.

Quando vi siete conosciuti?

Successe nel 1972. Io all’epoca andai a Berlino per una mostra fotografica in cui erano stati accettati alcuni miei scatti. Lui era il direttore, rimase estasiato dalle mie foto.

Mi ricordo che mi riempì di complimenti, e pochi giorni dopo la mostra, mentre stavo scattando non molto lontano da qui, mi raggiunse. Non ho mai capito come faceva a sapere dove stavo scattando, ma in qualche modo mi trovò.

Dovetti tornarmene in Ucraina quasi subito, ma in un modo o nell’altro rimanemmo in contatto nonostante fosse molto difficile. Lui al tempo aveva già finito la sua attività con il KgU [Gruppo combattente contro l’inumanità, un’organizzazione di resistenza antisovietica finanziata dalla CIA e di base nella DDR. Rainer Hildebrandt ne era cofondatore] ed era ampiamente impegnato ad aiutare i dissidenti della Germania Est che erano spiati, incarcerati o tentavano di fuggire.

Quando mi stabilii qui ero come un foglio bianco con una penna accanto. Certo, grazie alla mia famiglia non avevo troppi errori da cancellare sul foglio, però ero pur sempre nata e cresciuta in Unione Sovietica.

Mio marito è stato l’uomo che ha scritto quel foglio, che mi ha spiegato perché è importante battersi per la libertà altrui e perché occorre sempre preservare la memoria dei tempi in cui la libertà non era di facile accesso. Penso davvero che buona parte di ciò che sono oggi sia merito di Rainer.

Cosa significa per lei oggi essere direttrice di Checkpoint Charlie?

Questo museo è la concretizzazione dello spirito di mio marito, di ciò che mi ha insegnato e del modo in cui siamo cresciuti insieme. Quindi dirigerlo è come prendermi cura del ricordo che ho di lui, sia dei ricordi privati che di quelli pubblici, oltre che essere al centro della promessa che gli ho fatto prima che morisse.

Soprattutto, questo museo è la rappresentazione delle cose in cui io e Rainer abbiamo creduto per tutta la vita e per le quali abbiamo combattuto insieme. Credimi, ci vuole tanto amore per alzarsi ogni giorno e prendersene cura, e io ce la metto tutta.

Cos’è che le dà più soddisfazione nel suo lavoro?

Ho scoperto che le persone possono imparare tanto, e che spesso hanno anche molta voglia di mettersi in gioco e scoprire cose nuove. A questo punto credo che il museo debba essere una specie di università, e cioè un posto in cui si tiene viva la memoria del passato ma con un costante riferimento al presente.

Ossia qualcosa di utile per costruire il futuro. La nostra attività deve puntare sull’incontro tra generazioni diverse. Qualche tempo fa ad esempio abbiamo organizzato un incontro tra vittime del regime della Germania Est ed ex affiliati alla Stasi, la polizia segreta della DDR.

È stato un momento di confronto incredibile, e ad assistere c’erano molti giovani. Questa è una gran soddisfazione. Negli ultimi anni la nostra collezione è cambiata e si è arricchita di stanze dedicate ai conflitti più vicini a noi.

Ad esempio abbiamo inserito molto materiale sulle proteste di Piazza Maidan a Kiev, e da sempre abbiamo oggetti che furono di Gandhi, di Walesa e di altri grandi uomini politici lontani dalla Germania.

Questo non è solo il museo del Muro di Berlino, ma è il museo della libertà e degli esseri umani che si battono per vivere in democrazia.

Oggi cosa rimane del Muro di Berlino e della divisione tra Germania Est ed Ovest?

Secondo me quasi niente. E lo so che è un’opinione impopolare, che ci sono i dati economici e statistici e quant’altro, però io nei regimi totalitari dell’Est ci sono nata e cresciuta, e vi garantisco che non hanno niente a che vedere con la Berlino di oggi.

Forse le economie vanno ancora a velocità diverse e sicuramente c’è un’eredità culturale perché molti di quelli cresciuti in Germania dell’Est sono ancora vivi e hanno ruoli importanti, ma è tutto qui. E non parlo dei centri commerciali, dei fast food o di altre cose banali. Sto parlando dell’attenzione e della sensibilità nei confronti della libertà e del rispetto dei diritti altrui.

Quella ad Est era bandita, oggi invece quantomeno se ne può discutere [ride].

Lei nella sua vita si è messa contro due dei regimi più autoritari e violenti del Novecento europeo. C’è qualcosa che le fa paura oggi?

Sì, assolutamente. Io sto invecchiando e so che il mio lavoro non potrà durare ancora troppo a lungo. Ciò che mi terrorizza davvero è che tutto ciò che io e mio marito Rainer abbiamo fatto vada perso con le nuove generazioni.

Confido di aver fatto un buon lavoro con le persone più grandi, ma i giovani sono più difficili perché non sanno cosa significa vivere sotto un regime, essendo nati dopo o immediatamente prima del 1989.

Tu ad esempio sei italiano e adesso sei qui a Berlino, magari qualche giorno fa eri da qualche altra parte nel mondo e forse non ci hai mai pensato, ma questo non è normale né scontato.

Ecco, ho paura che i ragazzi nati dopo il crollo del Muro non abbiano la forza di capire che la loro libertà è preziosa perché viene dal sacrificio di intere generazioni che li hanno preceduti. E che la loro libertà è anche una cosa volatile.

Oggi c’è, ma domani può essere un po’ scalfita e tra una settimana potrebbe non esserci più.

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