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Home » Esteri

Legati a una sedia con elettrodi ai testicoli: i ribelli raccontano la repressione in Burundi

Immagine di copertina

L'organizzazione armata Red-Tabara si oppone al presidente Nkurunziza che ha violato la costituzione. Daniele Bellocchio ha incontrato due capi ribelli per TPI

“Bien, stasera incontrerai i giovani”. È con queste parole che la nostra guida locale comunica di aver organizzato un appuntamento con gli insorti Tabara, uno dei principali gruppi armati del Burundi, che si oppone al presidente Pierre Nkurunziza.

Apprendiamo la notizia mentre siamo seduti al caffè Aroma di Bujumbura, ma subito cambiamo locale. Orecchie indiscrete avrebbero potuto origliare qualche frase e comunicare alla polizia quanto ascoltato.

Una parola di troppo o pronunciata con leggerezza può costare oggi molti problemi in Burundi, un piccolo stato dell’Africa orientale, con 10 milioni di abitanti. L’incubo della violenza etnica si è risvegliato nella terra africana.

Gli hutu che uccidono i tutsi, proprio com’era successo vent’anni fa nel vicino Rwanda. Il 24 gennaio in Burundi si sono registrate epurazioni fisiche nei confronti di alcuni militari di etnia tutsi, che facevano parte delle forze armate governative.

“In Burundi, gli agenti dello Stato hanno commesso ancora una volta delle barbarie, chiediamo alla Corte Penale Internazionale di aprire rapidamente un’inchiesta sui crimini contro l’umanità commessi dopo l’aprile 2015”, si legge in un comunicato pubblicato il 10 febbraio della Federazione internazionale dei diritti umani e della Lega Iteka. Un messaggio che ha il suono di un disperato grido di aiuto.

Un urlo rivolto alla comunità internazionale per cercare di attirare l’attenzione sul Burundi e fare luce sulla tragedia che si sta consumando tra le colline d’Africa. Ma quanto accaduto a fine gennaio nelle caserme burundesi è solo l’ultimo di una serie di episodi terrificanti che stanno sconvolgendo lo stato della regione dei Grandi Laghi.

In Burundi l’orrore ha avuto inizio ad aprile 2015, quando il presidente Nkurunziza ha annunciato alla nazione la sua volontà di volersi candidare a un terzo mandato. La Costituzione burundese imponeva che nessun leader potesse rimanere al governo per più di due turni.

La decisione della guida del paese di correre una terza volta per la massima carica amministrativa dello Stato ha generato immediate polemiche. Subito sono esplose proteste e manifestazioni, e la conseguente repressione: radio e giornali chiusi e giornalisti scomparsi, porte dell’università sprangate, arresti, omicidi e sparizioni.

Alle elezioni di luglio 2015 Nkurunziza – come prevedibile – ha vinto di nuovo e la crisi non ha fatto che acuirsi, provocando a oggi più di 360mila rifugiati.

Oggi Bujumbura, la capitale del paese, è un cimitero di ricordi. Gli hotel sono deserti e nei bar girovagano soltanto mosche e pochi avventori di cui non ci si deve fidare. Anche se i tavoli sono vuoti nessuno si azzarda a parlare liberamente. I quartieri contestatori sono semplicemente chiamati “quartieri”, i ribelli sono soltanto i “giovani”, mentre la ribellione è “l’altro lato”.

Bisogna essere molto veloci ad apprendere il nuovo slang della capitale. Se da un lato la popolazione è divenuta laconica nel parlare, invece è molto generosa nell’ascoltare.

È per questo motivo che una volta incontrati Olivier e Thomas, i due capi della ribellione, decidiamo di fare l’intervista in un appartamento privato, lontano da occhi e orecchie indiscreti. Hanno rispettivamente 32 e 28 anni, sono ex studenti con volti difficili da immaginare sotto un passamontagna.

I loro discorsi trasudano di lirismo libertario, non di retorica marziale. “Noi vivevamo tranquilli fino a quando il presidente ha deciso di ricandidarsi e violare la costituzione”, mi spiegano i due capi della ribellione. “Nkurunziza ha imposto un regime e molti nostri amici sono scomparsi o sono stati torturati.

Non conosce nessun altro dialogo se non quello della forza ed è per questo che abbiamo deciso di armarci e combatterlo. Libertà o morte!”. I casi di tortura accertati dalle Nazioni Unite in Burundi sono oltre 500. È stata denunciata la presenza di fosse comuni, mentre diverse centinaia sono le donne vittime di violenza.

In carcere risultano esserci 8mila presunti oppositori politici, i desaparecidos sono più di 500 e i morti superano il migliaio. Però c’è anche chi ha deciso di ribellarsi, e sono proprio gli studenti, passati dalle proteste di piazza alla clandestinità, ad aver dato vita alla Résistance pour un Etat de Droit au Burundi (Red-Tabara), una formazione armata che conduce azioni ai danni di polizia ed esercito. Il gruppo è nato per contrastare il regime di Nkurunziza e ha come obiettivo quello di portare uno scenario democratico nel paese.

È guidato da Melchiade Biremba, un hutu, ex studente di giurisprudenza incarcerato nel 2010 per le sue posizioni antigovernative. Le autorità li accusano di terrorismo e di aver commesso stragi di civili, loro però respingono gli attacchi sostenendo di fare solo azioni mirate contro le forze lealiste e le milizie filogovernative, gli “Imbonerakure”.

Olivier e Thomas sono convinti delle proprie idee, l’idealismo sembra anteporli a qualsiasi paura e analisi. Prevedono che in breve tempo una rivoluzione possa riportare la democrazia e affrontano il tema della divisione etnica che sta riaffiorando. “Noi siamo tutsi, ma nelle nostre fila ci sono anche degli hutu”, raccontano Olivier e Thomas.

“Il presidente vuole creare odio etnico e accusa la minoranza tutsi di essere formata da terroristi. Vuole metterci gli uni contro gli altri, così da distogliere l’attenzione dal suo regime e porla sull’etnicità. Noi invece vogliamo uguaglianza e giustizia e libereremo il nostro paese”.

Sogni che svaniscono così come vengono pronunciati. L’indomani arriva una telefonata. Nella notte Thomas è stato arrestato, è sparito. La libertà non c’è stata, la morte sì. Thomas non c’è più, scomparso dopo essere salito su una camionetta della polizia.

Non ha fatto in tempo a salutare i genitori e nemmeno congedarsi dagli amici e nessuno può sapere com’è morto, se abbia parlato sotto tortura o abbia scelto il silenzio dell’eroismo dei vent’anni. La certezza è che la sua è una storia analoga a quella di tanti giovani burundesi.

Non si sa in quanti siano finiti nelle fosse comuni che si trovano nel quartiere di Buhayira o in quanti sono stati legati a una sedia con elettrodi attaccati ai testicoli. Ma così è.

È accaduto anche a Emmable, torturato perché ha partecipato alle manifestazioni, mentre Aimé, per non condividere la stessa sorte si è dato alla clandestinità.

Oggi vive nascondendosi senza più nessuna certezza, ma con una sola speranza, ripetuta ogni volta pregando Dio: che sua sorella, di cui non sa più nulla da mesi, e che ha visto portare via sotto i suoi occhi, sia morta senza soffrire. È una medaglia con due facce Bujumbura.

La mattina le bande musicali suonano in piazza Rwagasore, lungo il lago Tanganica qualche coppia di innamorati ammira il lago e nei mercati le donne si intrattengono negli acquisti. Poi arriva la sera e la città si paralizza minuto dopo minuto.

Le strade vengono chiuse, i mercati fatti sgomberare, i quartieri si svuotano, il filo spinato blocca il passaggio dei mezzi e le camionette dei servizi di sicurezza sfrecciano a sirene spiegate cariche di nuovi arrestati dai volti giovani e privi di speranza. Scende l’oscurità.

Qualche sparo di arma da fuoco e poi il nulla assoluto. Nessun anima in giro, l’unico rumore che si sente, nel silenzio della notte, sono i battiti del proprio cuore che sembra essere l’unico rimasto a pulsare in un paese dove oggi esiste soltanto la tenebra.

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