ESCLUSIVO TPI – Viaggio nell’inferno di Bucha: ecco cosa abbiamo visto
Reportage nella città di cui tutto il mondo parla, marchiata dai crimini più cruenti. Le testimonianze dei sopravvissuti: "L'abbiamo visto con i nostri occhi, sono stati i russi"
Stiamo percorrendo in automobile la strada che porta verso Bucha, la città ucraina di cui tutto il mondo parla dopo la scoperta di circa 400 corpi di civili nelle fosse comuni o lungo i bordi delle strade. Mentre procediamo, dietro i finestrini scorrono boschi, campagne e villette. Bucha si trova a una cinquantina di chilometri a nord della capitale ucraina Kiev. Era un posto tranquillo fino a qualche settimana fa, finché i militari russi non l’hanno occupata durante quella che Mosca ha definito «operazione militare speciale».
Il nostro arrivo a Bucha è preannunciato dal cadavere di un civile freddato vicino a una bicicletta verde. Qualcuno lo ha colpito alla testa, forse mentre fuggiva, e il suo corpo giace ancora lì, ai bordi della strada. Più avanti ci imbattiamo in un’automobile abbandonata, con il paraurti sfondato. Sulla fiancata e sul cofano, davanti e dietro, c’è scritto “Bambini”, mentre all’antenna è legato un pezzo di stoffa bianca. È chiaramente l’auto di una famiglia in fuga, eppure è stata colpita, come dimostrano i fori di proiettile.
Per circa un mese Bucha ha vissuto sotto l’occupazione dei russi, diventando un campo di battaglia a tutti gli effetti. I militari hanno iniziato a lasciare la città lo scorso 31 marzo, quando Mosca ha deciso di riorganizzare le proprie truppe perché, dato il fallimento del piano che puntava a prendere la capitale Kiev in pochi giorni, i vertici militari hanno deciso di concentrare gli sforzi bellici nella parte meridionale e in quella orientale dell’Ucraina.
Al nostro ingresso la città appare semidistrutta e disseminata di rottami di automobili. Nel corso principale c’è una macchina che è stata schiacciata da un carro armato. All’interno è incastrato il cadavere del conducente. «Era il giardiniere del Comune, è un mese che è lì. Non riusciamo a tirarlo fuori. Gli hanno prima sparato, poi gli sono passati sopra». Vadim è stato tra i primi a fare i conti con le truppe di Mosca. Racconta che, appena arrivati, i militari russi hanno bersagliato un monumento a forma di carro armato, pensando fosse vero, e hanno sfondato il muro della sua casa. Ci guida nello scantinato dove ha trascorso l’ultimo mese, nascondendosi insieme ad altre 19 persone. «Uscivamo solo per l’acqua, con una fascetta bianca al braccio e le mani in alto», dice mimando il gesto. Ma anche in questo modo correvano dei rischi: «Ci perquisivano. Controllavano pure i tatuaggi, in cerca di simboli militari o patriottici».
Poi ci indica un piccolo altare, formato da icone sacre e quadri poggiati su un tavolino: «Questa è la nostra mini-chiesa, la preghiera ci ha tenuti in vita».
«Io so di almeno due persone uccise mentre andavano al supermercato, uno colpito alla testa, uno al cuore», racconta un altro testimone. «A me e a mia moglie è andata bene. Ci hanno perquisito, nel suo telefono hanno trovato una foto di me in Afghanistan, con le medaglie sovietiche. Hanno detto: “Sei dei nostri”. La gente chiedeva di portare i morti al cimitero, i russi rispondevano: “Se lo fate, al cimitero ci finite anche voi. Sotterrateli dove vi pare come i cani”».
Raggiungiamo la fossa comune, scavata nel cortile di una chiesa. Ci sono ancora diversi cadaveri chiusi in sacchi neri, il lavoro di rimozione non è stato concluso. Tra i resti che emergono dal terreno, scorgiamo anche indumenti femminili e una ciabatta rosa. Vicino alla fossa solo due persone hanno avuto sinora una degna sepoltura. Sulla loro tomba sono poggiati dei mazzi di fiori gialli, e a terra sono state piantate delle margherite. La data di morte, segnata su un piccolo cartello nero, è il 19 marzo.
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