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Home » Esteri

Brexit: quale futuro per l’Irlanda del Nord?

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L’uscita dall’UE riscriverebbe gli accordi commerciali tra Regno Unito e Unione Europea, creando serie incognite per l’economia nordirlandese. L'analisi di Filip Forti

Dopo quasi trent’anni di guerra civile nella quale hanno
perso la vita oltre 3.500 persone, l’Irlanda del Nord sta vivendo un periodo di
relativa calma sia dal punto di vista politico che sociale.

Infatti, il Good Friday
Agreement
(“Accordo del Venerdì Santo”) firmato nel 1998 dai rappresentanti
dei governi del Regno Unito e della Repubblica d’Irlanda e approvato dai
principali partiti dell’Ulster (Sinn Fein, SDLP) seppur senza l’appoggio del
principale partito filo-britannico della regione (DUP), ha definitivamente
sancito la fine del conflitto nordirlandese.

Il trattato, oltre a definire le modalità di scarcerazione
dei militanti dei vari gruppi paramilitari attivi nell’area (IRA, UVF, UDA) e a
definire gli step necessari per la ricostruzione sociale ed economica della
regione, ha imposto alla Repubblica irlandese di eliminare dalla propria
costituzione l’obiettivo di un ricongiungimento delle sei contee sotto
dominazione britannica con il resto dell’isola, ufficialmente indipendente dal
1949.

Un’eventuale riunificazione sarebbe possibile solo
attraverso un referendum popolare.

Come noto, il 23 giugno 2016 tutti i cittadini britannici
sono chiamati alle urne per decidere della permanenza del Regno Unito
nell’Unione Europea. Restare o fuggire, questo è il dilemma.

Nonostante in molti tendano a confondere il Regno Unito con
l’Inghilterra, il territorio di Sua Maestà la regina Elisabetta comprende anche
la Scozia, il Galles e per l’appunto l’Irlanda del Nord (anche nota come Ulster).

L’eventuale uscita del Regno Unito avrà certamente un
impatto importante sulla quotidianità degli abitanti dell’Ulster, o perlomeno
di quelli delle sei contee della regione facenti parte dell’Irlanda del Nord
(le tre restanti contee dell’Ulster appartengono all’Eire). Le conseguenze
economiche, sociali e politiche del voto non sono semplici da prevedere, ma la
maggior parte degli studi indicano che l’Irlanda del Nord sarebbe la regione
più “colpita” dalla Brexit.

In primo luogo è necessario considerare gli aspetti
economici dell’uscita dall’UE.

L’economia nordirlandese rischierebbe di risentirne
parecchio, specialmente considerando che tra le nazioni facenti parte del Regno
Unito, è l’unica ad avere una frontiera con l’Unione Europea, nel caso
specifico circa 500 chilometri che fanno da confine con l’Eire.

Il valore degli scambi commerciali tra i due stati che
compongono l’“isola di smeraldo” supera il 30 per cento del totale delle
esportazioni e il 25 per cento delle importazioni nordirlandesi. Inoltre, circa
il 55 per cento sia delle esportazioni che delle importazioni della regione
hanno come punto di partenza o di arrivo l’Unione Europea.

L’enorme valore di questi scambi commerciali rischierebbe
seriamente di essere messo in pericolo dall’uscita dall’UE, che imporrebbe il
rafforzamento della frontiera tra l’Eire e l’Irlanda del Nord.

Inoltre, la generale assenza di dazi, tariffe doganali e
controlli sullo scambio di merci, servizi e il movimento dei lavoratori
all’interno dell’Unione ha influito positivamente sull’economia della regione
settentrionale dell’isola.

L’uscita dall’UE imporrebbe la stipulazione di nuovi accordi
commerciali tra Regno Unito e Unione Europea, creando serie incognite
sull’impatto di questi ultimi sull’economia britannica e in particolare
nordirlandese. In aggiunta, i cospicui sussidi e fondi strutturali che l’UE riserva
all’agricoltura permetteranno al settore primario nordirlandese di incassare
circa 3,5 miliardi di euro nel periodo 2014-2020.

Nonostante questo settore sia in crisi, così come nella
maggior parte degli altri paesi dell’Unione, l’agricoltura rappresenta oltre il
2,5 per cento del PIL dell’Irlanda del Nord, ovvero una porzione leggermente
superiore rispetto all’1 per cento del PIL del Regno Unito.

Nel tentativo di analizzare le possibili conseguenze della
Brexit sull’Irlanda del Nord è impossibile prescindere dall’eventuale impatto
politico e sociale del voto sulla popolazione dell’Ulster. In una regione che
meno di vent’anni fa usciva a fatica da un sanguinoso conflitto civile che ha
causato diverse migliaia di morti e feriti, l’eventuale uscita rischierebbe di
minare gli accordi di pace.

La fragilissima stabilità politica e sociale raggiunta negli
ultimi anni è stata favorita dalla silenziosa partecipazione delle istituzioni
europee che, come affermato dal primo ministro dell’Eire Enda Kenny, hanno
avuto il compito di agevolare i rapporti tra i governi britannico e irlandese,
permettendo in questo modo di rafforzare la fiducia degli uni negli altri.

Detto questo, l’accordo faticosamente raggiunto nel 1998 è
costantemente legato ad un filo. La maggior parte dei punti cruciali di questo
trattato non hanno soddisfatto in pieno il popolo nordirlandese.

Basti considerare il fatto che l’accordo ha imposto la
scarcerazione progressiva di diverse migliaia di prigionieri politici e membri
delle organizzazioni paramilitari come IRA e UVF, che per decenni hanno
commesso attentati e assassinato centinaia tra civili, militari e politici.

Nel mese di luglio del 2015 ho avuto modo di intervistare
Alan McBride, membro attivo della comunità protestante che in un attentato
dell’IRA nell’ottobre del 1993 perse la moglie e il suocero. Secondo i termini
dell’accordo di pace, Sean Kelly, il principale esecutore materiale
dell’attentato, nonostante sia stato riconosciuto colpevole di omicidio e atti
di terrorismo, è stato liberato nel 2000 dopo aver scontato appena sette anni
di carcere.

Naturalmente la domanda più delicata che gli posi riguardava
proprio la liberazione dell’assassino di sua moglie e cosa pensasse dei termini
dell’accordo. McBride in tutta franchezza mi rispose che se dal lato personale
provava un sentimento di profonda ingiustizia per la prematura liberazione di
Kelly, da un punto di vista politico giustificava i termini dell’accordo e
considerava il suo sacrificio come necessario in nome di un greater good, ovvero il disperato
bisogno di pace e serenità del popolo nordirlandese per troppi anni bersagliato
da terroristi, collusione tra stato e organizzazioni paramilitari e da una
guerra fratricida che fino alla metà degli anni Novanta sembrava non potesse
mai finire.

Questo equilibrio raggiunto a fatica sia dalle comunità che
dalle istituzioni nordirlandesi è messo a repentaglio dal referendum del 23
giugno. Gli effetti politici e sociali che il voto potrebbe avere sulla
popolazione dell’Ulster non sono facilmente definibili o quantificabili, ma non
c’è dubbio che in questa fase del processo di pace, rimettere in discussione lo
status quo rischia in primo luogo di esacerbare i rapporti tra la Repubblica
irlandese ed il suo vicino settentrionale. Inoltre la vittoria del “sì” (uscire
dall’UE), accentuerebbe in modo più netto la divisione tra le comunità.

Da un lato la maggior parte dei nazionalisti (cattolici)
preferisce restare nell’UE, mentre una parte piuttosto consistente dei lealisti
(protestanti) vorrebbe uscirne, di fatto rilanciando il dibattito sulla
permanenza dell’Irlanda del Nord in seno al Regno Unito.

In una fase tanto cruciale quanto delicata del processo di
pace qualsiasi segnale di instabilità rischia di riacutizzare le tensioni
sociali, politiche ed economiche tra i vari gruppi politici e religiosi che
compongono questo piccolo stato della periferia del Regno Unito.

*articolo a cura di Filip Forti

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