Ora Lula è chiamato alla prova dell’Amazzonia
Nuovi progetti petroliferi e vecchi traffici illegali minacciano la foresta. Per difenderla il presidente è chiamato a ribaltare il modello predatorio che finora ha prevalso nel Paese. Ma nel suo governo non tutti la pensano così
Quando, nel 2008, durante il secondo Governo Lula, l’allora ministro dell’Ambiente e icona del movimento ecologista brasiliano Marina Silva lasciò l’esecutivo, lo scontro profondo all’interno della sinistra tra sviluppo e tutela ambientale divenne evidente. Lo scontro più feroce fu con Dilma Rousseff, all’epoca ministro della Casa civil.
Rousseff, una volta eletta presidente, sposò in pieno la linea dello sviluppo forzato a tutti i costi, sostenendo con forza il programma di accelerazione della crescita (Pac), una sorta di New Deal fatto di grandi investimenti infrastrutturali. Un piano che ha chiuso un occhio, a volte due, sul versante della tutela dell’ambiente, soprattutto nell’area dell’Amazzonia.
Oggi, con il ritorno di Lula al governo, dopo quattro anni di devastante guida di Jair Bolsonaro, il confronto politico sulle politiche ambientali interno alla sinistra brasiliana torna a riemergere. La destra aveva aperto l’Amazzonia dando un sostanziale via libera al disboscamento e allo sfruttamento intensivo delle risorse, dalle miniere fino all’allargamento delle zone per lo sfruttamento agricolo senza limiti.
Lula è tornato a governare il Paese anche grazie a una proposta decisamente più avanzata sui temi ambientali rispetto al passato. Sulla questione indigena ha subito dato un segnale chiaro, inviando la Polizia federale nelle aree invase dai cercatori d’oro e mostrando un pugno di ferro verso le organizzazioni criminali che invadono le aree protette. Alcuni temi, però, stanno riaccendendo il dibattito, riproponendo, almeno in parte, le contraddizioni dell’era Rousseff.
Trivelle sì o no?
Il colosso petrolifero brasiliano, la Petrobras, ha chiesto di poter avviare la perforazione di alcuni pozzi offshore nel mare davanti la costa nord del Brasile, in corrispondenza degli Stati di Amapá e Pará. La distanza dalla costa è notevole, 175 chilometri, ma il punto è decisamente sensibile.
Oltre alla foce del Rio Amazonas – distante 500 chilometri, ma particolarmente delicato – l’area è popolata da diverse specie marine in via di estinzione e i litorali più vicini hanno una tradizionale attività di pesca particolarmente pregiata.
Il potenziale impatto ambientale in caso di incidente e di riversamento in mare del petrolio rischierebbe di essere devastante. Non solo per il mare, ma anche per il ruolo internazionale del Brasile: «Potrebbe compromettere gravemente l’immagine di difesa dell’Amazzonia che il Governo ha diffuso e che ha usato come argomento per raccogliere le risorse per il Fondo dell’Amazzonia», ha commentato sul giornale online Brasil 247 (legato al Pt, il Partito dei Lavoratori di Lula) Liszt Vieira, già ordinario di sociologia all’Università pontificia di Rio de Janeiro e coordinatore del Forum Globale durante Rio 92.
L’Istituto brasiliano per l’Ambiente, Ibama, che si occupa delle autorizzazioni ambientali per conto del Ministero, oggi di nuovo guidato da Marina Silva, per il momento si è espresso negativamente. Lo scorso maggio il presidente dell’Ibama, Rodrigo Agostinho, ha negato l’autorizzazione, ritenendo che serva una Valutazione ambientale strategica, vista la delicatezza dell’area.
Un assist alla richiesta della Petrobras è però arrivato dal ministro delle Miniere e dell’Energia, Alexandre Silveira, che si è espresso a favore del progetto di esplorazione petrolifera, mostrando come il tema sia fortemente divisivo all’interno dell’esecutivo guidato da Lula.
L’area era già stata esplorata anni fa per poi essere abbandonata per una serie di difficoltà logistiche. Il progetto è stato ripreso recentemente, dopo la scoperta di importanti giacimenti nella zona di mare all’altezza della Guiana, con perforazioni realizzate dalla Exxon Mobile.
Nel caso dell’area indicata dalla Petrobras, la distanza dalla costa rappresenta uno dei principali problemi. Non essendo possibile realizzare un oleodotto, il traffico di navi cisterna sarebbe notevole, aumentando il rischio ambientale. In caso di incidente, inviare tempestivamente i soccorsi e i mezzi per bloccare la diffusione in mare del petrolio sarebbe molto difficile.
Il problema, fanno notare alcuni analisti brasiliani, è che la Petrobras continua a essere una società esclusivamente petrolifera, non riuscendo a riconvertirsi in un gruppo energetico in grado di sfruttare appieno soprattutto il grande potenziale delle energie rinnovabili presenti in Brasile.
È dunque soprattutto una questione di politica strategica e di cultura ambientalista, che il Pt di Lula deve iniziare ad affrontare. Proteggere l’Amazzonia richiede una profonda rivoluzione del modello predatorio che fino ad oggi ha prevalso nel Paese.
Miniere di droga
Il sociologo brasiliano Rodrigo Pereira Chagas, dell’Università pontificia di San Paolo, in una recente intervista con l’Istituto Humanitas ha coniato il termine «narcogarimpo». I “garimpeiros” sono i cercatori d’oro che fin dagli anni Sessanta e Settanta invadono ampie aree dell’Amazzonia per estrarre illegalmente l’oro.
Da diversi anni si è creata nella regione amazzonica una pericolosa alleanza tra i cartelli dei narcotrafficanti brasiliani – legati internazionalmente sia con i colombiani che con la ‘Ndrangheta, come hanno dimostrato alcune recenti inchieste – e le organizzazioni che si occupano di gestire l’estrazione illegale dell’oro, soprattutto nelle aree indigene: «Il traffico di droga nelle regioni dei garimpo – spiega Rodrigo Pereira Chagas – non è un fenomeno nuovo. Per esempio, negli anni Novanta, durante lo sgombero dei cercatori d’oro nella terra degli Yanomami, il Servizio nazionale di informazioni constatò che l’attività di estrazione nella regione facilitava il narcotraffico internazionale. Notizie dell’epoca rivelano che otto piste di atterraggio clandestine erano utilizzate per la logistica del traffico di droga».
La creazione di zone franche, aree di fatto dove lo Stato brasiliano non è presente, nell’Amazzonia invasa dai cercatori d’oro presuppone una complessa logistica.
Non solo sul posto. A supporto dell’intera filiera si sono creati veri e propri network che arrivano fino alle capitali principali del Brasile. Serve il trasporto, la catena dei punti di rivendita e riciclaggio dell’oro, banche, commercialisti che creano società per rendere invisibile l’origine illecita dei guadagni.
C’è poi l’indotto, l’industria che produce e vende pompe idrauliche, il mercurio utilizzato per estrarre il metallo prezioso (devastante per le acque dei fiumi), i battelli, i motori, i trattori. E, non ultime, le armi. Una rete che arriva ad estendersi fino all’Europa, dove buon parte dell’oro estratto arriva, come si legge nelle informative di alcune recenti indagini della Polizia federale brasiliana.
A Boa Vista, capitale dello stato di Roraima, estremo nord dell’Amazzonia brasiliana, c’è nella piazza principale il Monumento ai garimpeiros, prova più che evidente della protezione garantita per decenni a questa forma criminale di invasione della foresta e delle aree indigene: «Politici, istituzioni pubbliche e imprenditori locali lavorano da generazioni nella costruzione di una identità direttamente legata al garimpo», aggiunge Pereira Chagas. Ed è una delle basi più solide, questa, del consenso su cui può contare ancora oggi Jair Bolsonaro e la destra profonda brasiliana.
Colombizzazione
La corsa all’oro diventa mito per i giovanissimi senza prospettiva delle periferie delle città amazzoniche, attratti dal guadagno veloce, dai racconti dei cercatori più esperti. La saldatura, poi, con i cartelli criminali avviene quasi sempre all’interno delle carceri, dove se non ti affili ad una delle due organizzazioni più importanti – il Comando vermelho e il Primeiro comando da capital – hai poche possibilità di sopravvivere.
Il segnale della pericolosità di questa alleanza nata e cresciuta sul campo è apparso in tutta la sua gravità nei mesi scorsi, quando la Polizia federale è intervenuta di nuovo nell’area Yanomami per bloccare l’estrazione illegale dell’oro, che stava letteralmente distruggendo le comunità dei nativi, grazie alla complicità del Governo Bolsonaro. Molti garimpeiros si sono nascosti nella giungla, pronti a resistere con veri e propri conflitti a fuoco, passando alla clandestinità.
Il rischio di una “colombinizzazione” dell’area amazzonica è dietro l’angolo. La base sociale di questa miscela esplosiva proviene dalla parte più povera della società. Non è possibile affrontare il tema della diffusione delle organizzazioni criminali e della violenza quotidiana senza tenere a mente il profondo livello di ingiustizia sociale ed economica del Paese.
C’è di più, ed è una questione strettamente legata al futuro dell’area amazzonica. Il modello di sviluppo che ha prevalso fino a oggi si basa ancora sul progetto di colonizzazione predatoria pensato e realizzato dai militari negli anni Settanta.
L’arrivo delle grandi imprese dei settori agricolo (coltivazione intensiva della soia, allevamento) e minerario è sempre preceduta da una prima fase di invasione da parte di fette di popolazione proveniente dai territori e dai contesti più poveri. Cercatori d’oro, manovalanza utilizzata dalle imprese di taglio illegale di legno, avventurieri alla ricerca di una qualsiasi forma di guadagno immediato.
L’Amazzonia viene spacciata da decenni come un tesoro da conquistare, dove tutti hanno una fetta della torta. È l’eterno mito dell’Eldorado: «Conquistare per non consegnare (ad altri)», era lo slogan dei militari.
Il movimento ecologista brasiliano, cresciuto sull’eredità della figura di Chico Mendes, ha cercato di costruire un’alternativa a questo modello, come unica possibilità per uscire dalla cultura della predazione.
È possibile convivere con la foresta se la rispetti, basando l’economia sulla tradizionale cultura delle popolazioni native, sviluppando, ad esempio, l’agricoltura domestica delle aree non disboscate (la “varzea”, ovvero le aree soggette all’inondazione dei fiumi durante la piena, ma fertili durante i sei mesi di secca), l’estrazione dei prodotti nativi, il turismo sostenibile. Un New Deal che la sinistra ecologista – sostenuta dalla parte più progressista della Chiesa cattolica – propone da decenni. Ora tocca a Lula dimostrare da che parte sta.