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Bombardare per negoziare

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Un attacco americano non servirà a eliminare Assad. Ma lo costringerà a trattare

Sull’intervento degli Stati Uniti in Siria fioccano più parafrasi che su un canto della Divina Commedia.

Fermare un massacro che ha doppiato il triste capo dei 100mila morti. Punire il regime di Assad per aver usato armi di distruzione di massa. Mandare un messaggio di risolutezza all’Iran e al suo programma atomico. Salvare la credibilità del presidente americano rasente lo zero.

Certo, Barack Obama ha inanellato una trafila di errori tali da obbligarlo a usare la forza contro Damasco. Dall’infausta decisione di tracciare la linea rossa delle armi chimiche fino all’imprudente solerzia con cui – dopo le notizie del presunto attacco tossico del 21 agosto – ha inquadrato la risposta unicamente in termini militari, l’inquilino della Casa Bianca si è legato le mani da solo.

Eppure, in questo dibattito c’è un’illustre assente, una considerazione di tipo strategico. Un attacco limitato alla Siria serve – nelle speranze americane – a portare Assad al tavolo dei negoziati e salvare i colloqui sotterranei con l’Iran per un accordo sul nucleare. Per cogliere la portata di queste affermazioni, conviene sezionarle una per una.

L’obiettivo degli Stati Uniti in Siria non è il cambio di regime ma un negoziato. Washington non vuole che la caduta del tiranno sia il lasciapassare per le bande di jihadisti che dominano l’insurrezione. Assad deve andarsene, è vero, incompatibile con il futuro del popolo che ha scelto di massacrare. Ma a Damasco non imperversa una dittatura personale, piuttosto un regime articolato in grado di sopravvivere alla fine del suo despota.

Ecco il motivo della ricerca delle trattative, al termine delle quali i membri più presentabili dell’opposizione potrebbero unirsi agli elementi del vecchio regime meno compromessi – come il generale disertore dell’ultim’ora Ali Habib. Scongiurando così l’ipotesi di una marionetta in mano a Turchia, Qatar o Arabia Saudita, che finanziano i ribelli a suon di miliardi di dollari come se acquistassero azioni del futuro della Siria.

Al momento tuttavia Assad non ha alcun incentivo a negoziare. Sul campo, seppur lentamente, i lealisti stanno conseguendo importanti successi. Respingendo pericolose offensive, come quella di luglio intorno a Latakia, bastione costiero del regime, dove gli insorti avevano momentaneamente conquistato diversi villaggi.

La partita va riportata in pareggio. Invertire la tendenza (momentum, secondo la moda bellica americana). Riequilibrare le forze. Calcificare uno stallo. Si profila così all’orizzonte l’ipotesi di un attacco non a tutto campo, che genufletta Assad, bensì limitato. Impartendo magari un duro colpo – come invocano diversi falchi americani – alle basi aeree, ai velivoli e ai missili di cui il regime si serve per mantenere un vantaggio tattico sui ribelli.

L’intervento rischia però di far deragliare i colloqui segreti tra Stati Uniti e Iran. Teheran e Washington si parlano e con più vigore da quando è stato eletto presidente Rouhani. Lo scopo è arrivare a un accordo sul programma nucleare, carta negoziale degli ayatollah per trattare il riconoscimento dello status di grande potenza mediorientale.

L’Iran è però anche l’alleato più fidato di Assad, tenuto in piedi anche dalla linea di credito di 500 milioni di dollari al mese recapitati da Teheran. Ma le alleanze non sono come i diamanti: per sempre. L’obiettivo degli ayatollah non è la difesa a oltranza del tiranno ma poter continuare a influire su Damasco. Altra ragione per cui un attacco massiccio alla Siria li inimicherebbe del tutto.

In questo quadro, le armi chimiche altro non sono che il casus belli. Di sicuro, la notte del 21 agosto qualcuno ha fatto uso di gas tossici, un precedente contro il quale la comunità internazionale deve scagliarsi con tutta la veemenza possibile. Esistono armi che periodicamente il mondo ritiene riprovevole o disumano usare, elaborando regole contro il loro uso. È successo per l’atomica, le mine antiuomo e pure per i gas chimici. L’eventuale intervento degli Stati Uniti rinforzerebbe queste norme, sebbene un simile intento non sia la causa scatenante.

Come ogni piano, anche quello dell’intervento limitato rischia d’infrangersi nell’impatto con la realtà. Tutto può andare storto. Il Congresso può bocciare l’autorizzazione. Il Pentagono potrebbe continuare a svelare alla stampa i piani d’attacco per evitare d’imbarcarsi in un’operazione che fugge come la peste. Assad potrebbe incappare nel delirio dell’accerchiato e resistere alla morte. E una scintilla può portare gli assetti militari schierati nei mari e nei cieli del Medio Oriente a scontrarsi nella terza guerra del Golfo, se non mondiale.

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